Quando Dante, in esilio, comincia a scrivere la sua opera, si rivolge soprattutto ai suoi contemporanei, che, a suo avviso, stanno attraversando, al pari di lui, una selva oscura, un periodo di grandissima incertezza politica e confusione morale.  Mancano le guide spirituali, il clero è corrotto e il Papa lo è spesso più di tutti, c’è bisogno di un profeta che riporti il popolo sulla retta via. Come? Mostrando la condizione delle anime dopo la morte. I suoi contemporanei devono rendersi conto, da questi esempi, che una vita peccaminosa, dominata dall’avidità, dalla sete di piacere o di potere, viene punita nell’aldilà da orribili tormenti, mentre una virtuosa e un pentimento sincero conducono alla felicità eterna.
Per questo, nella Commedia compaiono solo personaggi famosi, in gran parte vissuti negli ultimi decenni del Duecento. La gente è interessata a sapere quale sia  nell’aldilà, il destino di un Andreotti o di una Marilyn Monroe, non di un comune insegnante, bancario o casalinga.

Per arrivare al suo pubblico Dante ha bisogno non solo di argomenti interessanti, ma anche di una lingua comprensibile ed efficace, che riesca a commuovere e a convincere chi leggerà o ascolterà l’opera. Per questo Dante sceglie il volgare. Anche se gli intellettuali della sua epoca parlano in latino, il suo pubblico ideale è, come si è detto, molto più vasto. E’ quello delineato dal Convivio (enciclopedia del sapere medievale, concepita e scritta nei primi anni dell’esilio e lasciata incompiuta). E’ in questa opera che Dante definisce con chiarezza il suo ruolo di intellettuale divulgatore: chi ha avuto la possibilità di studiare deve estendere le sue conoscenze potenzialmente a tutti coloro che sono interessati.

Ma se questo è vero per il Convivio tanto più lo è per la Divina Commedia, che non è solo un’opera scientifica, ma un libro militante e politicamente impegnato.
E la scelta del volgare non toglie nulla allo scrittore: anzi l’uso di una lingua amata, appresa naturalmente (parlar materno) concede  possibilità espressive che il latino non può offrire. Il volgare scelto non sarà naturalmente la lingua del popolino ignorante. Come afferma nel De Vulgari Eloquentia, altro trattato interrotto e scritto in latino per convincere i dotti che il volgare merita tutto il loro rispetto, sarà illustre, cioè idoneo a dare luce a chi lo usa, ma anche regale e curiale, cioè la lingua che si dovrebbe parlare nella reggia (quella di un monarca che purtroppo non esiste) e nelle corti di tutta Italia, dove gli intellettuali stanno creando la nuova lingua italiana, a partire dalle parlate dialettali.
Naturalmente questo volgare ancora non esiste ed è impossibile scrivere usando una lingua artificiale, una specie di esperanto ante litteram. Per questo Dante  non può che usare il fiorentino, che diviene sotto la sua penna una lingua straordinariamente più efficace e bella. Basta leggere una lirica di Guinizzelli, che Dante considera un suo maestro, scritta pochi decenni prima della Commedia, per apprezzare la differenza. Dante non è solo un grande scrittore, ma come pochi altri, è un creatore di lingua, o come dirà lui stesso di un grande poeta provenzale, un fabbro del parlar materno.
Ed è con questi argomenti di stringente attualità e con questa lingua nuova, ma comprensibile a tutti gli italiani di buona cultura che Dante conquista in breve un grandissimo pubblico, di lettori e di ascoltatori e la Divina Commedia diviene la pietra angolare della letteratura italiana.

Ma Dante non è solo un profeta, ma anche, come si diceva, un divulgatore. Nella sua epoca è ancora pensabile di condensare gli elementi essenziali di tutta la cultura in un unico libro. Non c’è distinzione tra teologia e scienza: poiché tutto il reale è prodotto dalla volontà divina, applicare le proprie energie intellettuali allo studio di Dio non è diverso che dirigerle verso la sua manifestazione, cioè la natura.
Insomma, con la teologia si spiega tutto e la scienza non è altro che il tentativo di spiegare la realtà fisica alla luce di quella metafisica.
E la Divina Commedia è , negli intenti di Dante, anche un grande trattato  teologico e scientifico, fondato sulla Summa Theologica  di San Tommaso d’Aquino, il principale teologo del Medioevo. Nell’ opera si può trovare risposta a tutti gli interrogativi essenziali : qual è l’influenza delle stelle  sulla vita terrena? Perché gli oggetti non possono staccarsi dalla superficie terrestre? Perché la luna presenta delle macchie? È possibile conoscere il numero degli angeli? Perché crescono piante che noi non abbiamo seminato? Perché l’uccisione di Gesù Cristo è, allo stesso tempo, un atto provvidenziale e un orribile misfatto? ecc. ecc.

Ma se le appassionanti storie delle anime possono essere lette e apprezzate da tutti, non è così per i canti  filosofici del Paradiso, che richiedono un minimo di formazione culturale.
E’ lo stesso Dante ad avvertire il suo pubblico, nei primi versi del secondo canto del Paradiso.

(Paradiso II, vv. 1-9)

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Chi avendo a disposizione una barchetta si è accodato al vascello (legno) della poesia di Dante che procede spedito nel mare aperto, dovrebbe ritornare indietro, perché rischia di perdersi. Nessuno ha mai fatto quel viaggio e non tutti hanno la fortuna di essere, come il sommo poeta, ispirati dalla sapienza di Minerva, guidati dall’entusiasmo poetico di Apollo e dalle competenze interdisciplinari delle nove muse.
Ma alcuni possono tentare l’impresa.

(Paradiso II, vv.9-18)

Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.
 

Solo chi si è nutrito del pan degli angeli, la sapienza filosofica nutrita dalla rivelazione cristiana, che gli angeli posseggono interamente, ma di cui anche gli uomini, sulla terra, possono nutrirsi senza però mai saziarsi, può inoltrarsi con la sua barca in alto mare, mantenendosi nel solco della  nave dantesca, prima che la scia si richiuda.
Ma chi lo farà non se ne pentirà: lo aspetta uno spettacolo meraviglioso e straordinario, superiore a quello che videro gli Argonauti quando il loro capo, Giasone, dovette domare due mostruosi tori e costringerli ad arare un campo miracoloso, per ottenere il mitico  vello d’oro.
Il viaggio, ma anche il racconto del viaggio di Dante è paragonabile alla più ardita spedizione della mitologia classica, l’impresa degli Argonauti nella Colchide. Non è un percorso per tutti.
Ma  come afferma Sermonti:  Volendoci scoraggiare, forse Dante-nostromo non ha ottenuto col suo breve indirizzo altro che contagiarci la sua fretta santa sulla rotta della verità e della salvezza, così come Ulisse, con la famosa <orazion picciola>, aveva sobillato i vecchi compagni sulla rotta dell’errore e della dannazione.