Sono una (delle tante e dei tanti) fan di Alessandro Barbero, imbattibile conferenziere nella divulgazione storica e altrettanto brillante scrittore. Per questo mi sono buttata su Alabama appena è uscito.

Una laureanda in storia vuole ricostruire per la sua tesi un eccidio di «negri», avvenuto durante la Guerra di Secessione. Per questo intervista il vecchissimo Dick Stanton, volontario dell’esercito del Sud, ricoverato in una squallida casa di riposo, dove vive accudito da una inserviente nera. Data l’età e il carattere del testimone è impossibile porgli delle domande precise: l’unico modo per ottenere informazioni è lasciarlo parlare e accettare il suo racconto confuso e torrenziale, da cui il lettore, come avviene per i romanzi veristi, non deve pretendere un filo narrativo limpido e coerente. Prima di arrivare alla descrizione della battaglia durante la quale sarebbe avvenuto l’eccidio, Dick racconta la sua vita e quella di molti dei commilitoni coi quali si è arruolato, passando continuamente dal passato al presente.

Il punto di vista del Sud

Si affollano nel romanzo personaggi ed episodi di un’America agricola popolata di contadini che vivono esistenze molto diverse da quelle ambientate nelle sfarzose magioni di Via col vento. I protagonisti di Alabama sono dei piccoli coltivatori di cotone, spesso analfabeti, che vivono in precarie condizioni economiche. Per loro la mano d’opera a basso costo degli schiavi è essenziale alla sopravvivenza e, di conseguenza, concepiscono la decisione di abolire la schiavitù presa dal governo federale come un attacco mortale alle loro condizioni di vita.

La scelta abolizionista degli stati del Nord, più evoluti ed industrializzati, non solo non può essere accettata, ma è contraria, nella loro ottica, allo spirito che è alla base della fondazione degli Stati Uniti. “io dissi, nossignore, che in casa mia comando io, e non ci voglio nessuno yankee per dirmi che cosa devo fare, e nessun governo a mettermi i bastoni fra le ruote e nessun politicante a strillare nel mio cortile, che non è ancora nato l’uomo che mi darà gli ordini in casa mia (…); e Mr. Rogers disse, be’, Dick, voialtri Stanton siete di buona razza, mi pare, e io dissi, sissignore, e anche tutti gli altri qui al paese, tutti i bianchi qui, tutti di buona razza, come i nostri nonni che hanno cacciato via gli Inglesi, e tutti uguali e capaci di guardare in faccia a chiunque

E non è vero che la schiavitù del Sud è stata sostituita, nel Nord, da una nuova forma di oppressione non meno terribile?
“…hanno un bel coraggio, comunque, a protestare per come noialtri trattiamo i negri, che lassù da loro un poveraccio che lavora in fabbrica fatica sotto padrone tal quale un negro, solo che qui quando il negro è troppo vecchio per lavorare il padrone continua a dargli da mangiare lo stesso, lassù invece dice il giornale che li cacciano in strada a crepare come cani, e poi vengono a dire a noi come dobbiamo trattare i negri…”

Naturalmente il romanzo non suggerisce nessuna giustificazione per la schiavitù, che viene rappresentata, anche nel racconto del vecchio soldato, in tutta la sua disumanità: ma la scelta di un punto di vista diverso da quello, per fortuna, ormai entrato definitivamente nel sentire comune offre molti spunti di riflessione morale e storica.

Attualità di Alabama

Ma se la schiavitù è oggi un tema esclusivamente di interesse storico, non è lo stesso per il razzismo, che, come vediamo ogni giorno, è invece un argomento di grande attualità, non solo negli USA.
Stanton, nato e cresciuto nell’ Alabama dell’Ottocento non può, anche per il suo status culturale e sociale, non essere totalmente e integralmente convinto dell’ inferiorità dei “negri”, ma il romanzo suggerisce che il razzismo va ben aldilà di una condizione storicamente determinata, può contagiare anche chi è fermamente convinto dell’uguaglianza tra gli uomini.
Così come è di stretta attualità, come dimostrano i fatti di Capitol Hill, anche il rifiuto dell’ingerenza dello stato da parte di ampie fasce della popolazione americana (e non solo).