Uscito a puntate tra il 1946 e il 1947, scritto dal giornalista tedesco Heinz Rein, internato saltuariamente nei campi di lavoro forzato della Gestapo, ripubblicato Italia nel 2017nella bella traduzione di Mario Rubino, il romanzo è ambientato a Berlino, nelle tre settimane che vanno dal 14 aprile al 2 maggio 1945, quando la città, per ordine di Hitler, viene difesa ad oltranza, senza nessuna speranza di vittoria, dall’invasione dell’Armata rossa.
Il protagonista principale è un giovane disertore in fuga, Joachim Lassehn, ventidue anni, ex studente di musica, che, incontra per caso un piccolo gruppo di oppositori del regime nazista. La sua diserzione è stata istintiva, quasi casuale, ma, gradualmente, Joachim prende coscienza, soprattutto grazie ai colloqui con i suoi nuovi amici, del terribile lavaggio del cervello che la sua generazione ha subito ad opera del totalitarismo nazista. Joachim matura velocemente e si unisce al gruppo nell’attività di propaganda antinazista. Molte vicende si intrecciano e il libro tiene col fiato sospeso fino alla conclusione.
Il contesto non è nuovo, ma colpisce la capacità di Rein di descrivere la mentalità dei berlinesi in quella situazione. Fino alla fine, sotto le bombe degli angloamericani che ogni giorno devastano la città, pur sentendo sempre più distintamente il cannoneggiamento dei sovietici, la maggior parte della popolazione è convinta che la situazione potrà essere ribaltata, che una nuova armata arriverà a momenti. Non si ribella al folle disegno di Hitler, che identifica Berlino e la Germania intera col nazismo e vuole che la fine del nazismo coincida con l’annientamento della Germania.
Pochissimi sono gli oppositori, anzi il rischio di delazioni è ancora più alto: è stato istituita una corte marziale mobile e <nel giro di pochi minuti vengono pronunciate sentenze di morte e le si esegue ad un qualsiasi pilone della tranvia o al palo di un lampione>. Ma la cosa che sconcerta di più è che ciò avviene nonostante che i comunicati ufficiali del regime, diffusi via radio, non neghino affatto l’inesorabile avanzata degli eserciti nemici, pur cercando di spacciare la ritirata per un ripiegamento strategico.
E questo accade anche quando ormai la battaglia si sposta all’interno della città e soltanto il muro di un caseggiato separa la zona già invasa dai sovietici da quella ancora sotto il controllo tedesco. Insomma, non c’è bisogno di Internet per convincere gran parte della popolazione a negare la realtà anche quando si manifesta nella sua più brutale evidenza.
Come è potuto succedere? Rein definisce questa mentalità <un’inconcepibile alienazione intellettuale di se stessi. L’impiego dell’odio come idea dello stato viene salutato con entusiasmo, in esso possono scaricarsi i risentimenti che il piccolo borghese ha accumulato nei confronti delle minoranze politiche, religiose e razziali>. E sono ancora più lucidamente pessimistiche le considerazioni che Rein fa pronunciare ad uno dei protagonisti del romanzo <Ma chi le dice (…) che il popolo tedesco, nella sua grande maggioranza, vuol essere liberato dai nazisti? Vorrebbe vedere la fine della guerra, è di importanza quanto mai secondaria come e in che modo, se con Churchill o contro Churchill, se con Stalin o contro Stalin in fondo non conta affatto. Se Hitler adesso vincesse ancora la guerra, va assolutamente bene, non importa con quali conseguenze all’interno e all’estero>
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