
La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, 85 morti.
Tra i capi di Ordine nuovo, in stretti rapporti con i servizi segreti, a partire da piazza Fontana fino alla strage di Bologna spunta regolarmente
il suo nome. Ma è sempre stato assolto
Quell’ombra dietro alle stragi

Massimiliano Fachini
Un’altra sua qualità era la riservatezza. Gli piaceva muoversi nell’ombra, agire da dietro le quinte. Forse aveva preso dal padre, che era questore di Verona durante la Repubblica sociale. In politica, ad esempio, ovviamente era di destra, segretario del Fuan e poi consigliere comunale del Msi a Padova, ma pochi sapevano che era anche uno dei capi di Ordine nuovo in Veneto. Ad essere più precisi, di quella struttura segreta nascosta dentro On, con ramificazioni anche in altre organizzazioni neofasciste. Come i cugini di Avanguardia nazionale, il cui capo Delle Chiaie, anche lui bassino e con soprannome irriguardoso, “er Caccola”, passava molto tempo nei corridoi del ministero dell’Interno.
Ordine nuovo. “Ordine di credenti e combattenti”, fu fondato nel 56 da Pino Rauti ed altri fuorusciti del Msi. Di ispirazione neonazista, neopagana e spiritualista. In politica era terzaforzista, antisovietico ed antiamericano, per l’Europa-nazione. Gli ordinovisti erano anche grandi appassionati di riti magico-esoterici, uno dei più praticati era quello del solstizio d’estate, di antiche origini e riportato in voga dal Reichsfuhrer Himmler.
Evola era il loro ideologo, Il simbolo era l’ascia bipenne e il motto quello delle SS: “Il nostro onore si chiama fedeltà”.
La vecchia ideologia, soprattutto nei confronti dei giovani adepti, non fu mai sconfessata. Ma, pochi anni dopo, molti dei capi si riscoprirono atlantisti. L’odiato americano divenne il protettore dell’Occidente minacciato. La Nato aveva elaborato la nuova teoria della guerra non ortodossa, la cui vera novità era che: siccome, approfittando della “distensione”, i comunisti si stavano avvicinando al potere per vie legali e democratiche, non era più sufficiente una strategia di controinsorgenza, ma ne occorreva una di provocazione ed attacco. Che per essere attuata, necessitava dell’attività clandestina di gruppi di civili. Così stava scritto nei piani delle nostre Forze armate.
E chi meglio dei neofascisti per questo compito? E così i credenti e combattenti passarono dalla trincea della rivoluzione antidemocratica, alle anticamere delle questure e ai corridoi delle caserme. Rauti fu “arruolato” come consigliere dal generale Aloja, e fu uno dei relatori al convegno del 65 che diede il via libera alla “strategia della tensione”.
Fachini per questi nuovi compiti è un uomo perfetto. Nel 69, ha 27 anni, assieme a Freda, Zorzi, Ventura e qualcun altro, e sotto la guida di Maggi, il capo in Veneto, uno che fa il medico alla Giudecca, iniziano con qualche piccolo attentato. E’ da oltre un anno che le università sono occupate, è iniziato quello che chiameranno il 68. L’ufficio del rettore di Padova è il posto giusto per mettere una bomba, per di più è anche ebreo.
Il commissario Iuliano, capo della Mobile, indaga. Un paio di confidenti gli fanno due nomi: Freda e Fachini. Così fa mettere sotto controllo il telefono del primo. Ma, nel giro di 24 ore, il capo dell’ufficio politico (l’attuale Digos), longa manus dell’Ufficio Affari riservati a Roma, avverte Freda.
Va meglio invece con Fachini. Iuliano ha messo un agente sotto casa sua. Un giorno un giovane sale da Fachini e poco dopo esce con un pacco. Il poliziotto lo ferma e dentro ci sono una pistola e una bomba. Bingo, pensa Iuliano, e fa arrestare il giovane e Fachini. Ma non sa che invece si è cacciato in un guaio.
Alla magistratura arriva un esposto anonimo, l’autore è Freda, che accusa il commissario di aver prefabbricato le prove. Anche il giovane arrestato accusa Juliano di una macchinazione: dice che nel palazzo è entrato assieme ad un altro ed è stato costui a dargli il pacco. Questo altro conferma e aggiunge che il pacco glielo aveva dato il commissario per incastrare Fachini. Ma c’è di mezzo il portiere, che invece conferma che il giovane era solo. Il giorno prima di testimoniare lo trovano in fondo alla tromba delle scale. Archiviato come suicidio.
A Iuliano pare che il mondo si sia messo a girare a rovescio: viene incriminato, preso e spedito in punizione a Ruvo di Puglia.
Questi ragazzi hanno un compito importante da svolgere e questo zelante commissario stava per mandare tutto all’aria. Come lui stesso dirà: <<Sono stato il classico granello di sabbia che ha rischiato di inceppare un meccanismo più grande di tutti i protagonisti della vicenda padovana, la cui mente probabilmente non era neppure italiana>.
Nel frattempo, siccome si sa che Freda è un’esaltato e qualcosa di imprudente al telefono può aver detto, per sicurezza le bobine vengono fatte sparire, in fondo a un armadio in Questura.

La Banca nazionale dell’Agricoltura dopo l’esplosione della bomba che fece 16 morti
Così l’attività bombarola può continuare in tranquillità. Un paio di attentati a Milano poi su una decina di treni, fino al grande botto.
Freda si occupa di procurare i timer, Ventura le cassette di ferro dove stipare l’esplosivo, un altro le borse e poi ci vuole uno esperto che prepari gli ordigni.
Per questo c’è Zio Otto. Molti lo conoscono solo con questo nome. Perchè Carlo Digilio più che un ordinovista è uno che entra ed esce dalle basi Nato. Lavora per gli americani, come già il padre.
E’ lui che stipa i 6 kg di esplosivo nelle cassette di ferro, con l’innesco già collegato al timer. Un lavoro fatto da mani esperte, perchè i cinque ordigni debbono viaggiare: tre per Roma e due per Milano.
Fachini segna sulla sua agenda: “12 dicembre ore 16, app. Con Freda“. Due piccioni con un alibi? Sì, ma un po’ debole. Infatti si farà fare da un avvocato una testimonianza nella quale si dice che ha passato il pomeriggio del 12 nell’ufficio del legale.
Ma non c’è da preoccuparsi, tre giorni dopo la strage è già stato arrestato Valpreda, i colpevoli sono gli anarchici.
Tutto fila liscio fino a quando un muratore trova in una soffitta armi ed esplosivo, che appartengono a Ventura. Lo stesso Ventura che un suo amico, un certo Lorenzon, aveva accusato di avere a che fare con le bombe, ma non gli avevano creduto.
Finalmente c’è un magistrato che indaga e che scopre nell’armadio le vecchie registrazioni delle telefonate di Freda. Nulla di interessante, aveva detto il capo della Digos. Altrochè, quello sciagurato aveva fatto ordinare i timer ad un amico elettricista, ma poi ne aveva parlato al telefono.
Ecco allora che il silenzioso Fachini deve intervenire e per due volte va a minacciare l’elettricista. Minacce convincenti, uno mica ha voglia di fare la fine del portiere. Infatti l’elettricista non racconterà al magistrato le cose più importanti, anche su consiglio di un carabiniere a cui si era rivolto.
Non è poi così strano, visto che Fachini si muove in stretto contatto col Sid. Il gen. Maletti ha incaricato il cap. Labruna, che sale a Padova per incontrarlo più volte.
Interessante l’appunto che il capitano verga il 13 aprile del 72: <Fachini è a conoscenza di quanto avviene nelle più importanti procure italiane e ai vertici dei carabinieri…. sa tutto della faccenda Freda …. ha detto che l’unico elemento che rappresenta una forte preoccupazione sono i 50 orologi timer ordinati da Freda…. perchè sono riconoscibili per la composizione di un’asta del meccanismo…. composta da una diversa lega>.
Questo dà la misura del livello dei rapporti con i vertici dello Stato che aveva Fachini e conferma quanto ben conoscesse quei timer. Infatti proprio in quei giorni il giudice D’Ambrosio aveva scoperto che una bussoletta di rame confermava che i timer usati erano gli stessi acquistati da Freda. Ma l’appunto di Labruna verrà trovato solo nel 2000.
La collaborazione di Fachini con il Sid è così stretta che, quando il gen Maletti organizzerà la provocazione di Camerino. Cioè il ritrovamento, nel novembre 72, di armi ed esplosivo in un casolare, con conseguente arresto di giovani di sinistra. A fornire le armi per la messinscena è stato proprio lui.
Fachini non è solo protetto dal grande capo degli Affari riservati, D’Amato e in stretti rapporti con il Sid, è in contatto anche con gli americani. Un giorno, ad una riunione di ordinovisti, arriva con un americano, che lui presenta come <persona di un’agenzia Usa che avrebbe potuto aiutare l’organizzazione>. Anni dopo si scoprirà la sua identità. E’ Joseph Pagnotta, formalmente ex agente dell’Oss e ora imprenditore. In realtà ancora in piena attività per una branca del servizio informazioni militare Usa, di stanza in Germania.
Le indagini su piazza Fontana fanno progressi e un altro del gruppo padovano, un bidello, una volta arrestato racconta un po’ di cose e fa il nome di Rauti. La faccenda si fa seria.
Labruna viene rispedito a Padova. Bisogna trovare una soluzione. Incredibile, ma semplicissima. Poche settimane dopo Fachini arriva a Roma assieme al bidello, nel frattempo scarcerato, e lo consegna a Labruna. Che lo nasconde per qualche giorno in un appartamento di copertura del Sid. Poi, con un passaporto falso, ma autentico visto che lo ha fatto la Farnesina, lo portano a Madrid.
Fachini corre di qua e di là per tappare le falle aperte dall’inchiesta milanese, che ha già portato in galera Freda e Ventura. Ma commette un errore in casa sua. Nel febbraio 73 durante una perquisizione salta fuori la chiavetta di una cassetta portavalori Juwel, proprio quelle usate il 12 dicembre, ma non la cassetta. Il neofascista va in crisi, non sa spiegare la presenza di quella chiave e inventa una storia inverosimile. Dice di averla trovata per terra, aveva una forma strana e l’ha conservata. Quando la trovò era assieme ad amici, ma inspiegabilmente si rifiuta di farne i nomi, così che possano confermare.
Intanto scoppia un’altra grana. Quel pazzo di Vinciguerra ha fatto saltare in aria tre carabinieri a Peteano. Anche lui è di On, ma è fuori dal gruppo occulto che lavora per lo Stato, anzi ce l’ha proprio con lo Stato. I carabinieri sanno che è stato lui, insieme ad altri due, ma coprono tutto e cercano di accusare quelli di Lotta continua. Labruna torna da Fachini e gli chiede di avvertire i camerati di Udine di non fare più fesserie. Lui fa di più, prende uno dei tre, fra l’altro segretario di una sezione del Msi, lo porta a Roma e da lì lo fanno scappare in Spagna. Poi il Msi gli pagherà anche l’operazione alle corde vocali, perchè aveva telefonato lui per attirare i militari in trappola.
Ma è venuto ormai il momento di cambiare aria anche per Fachini. D’Ambrosio lo convoca, qualcuno lo informa che potrebbe finire in manette e così se ne va anche lui in Spagna.
E’ arrivato il 74, anno terribile. Ci sono altre stragi da preparare. Maggi dirige, Digilio prepara la bomba, ma questa volta a collocarla in un cestino di piazza della Loggia a Brescia ci pensano i milanesi. Sempre ordinovisti, ma si fanno chiamare la Fenice. L’anno di prima uno di loro, Nico Azzi, si è fatto esplodere un detonatore tra le gambe, mentre cercava di far saltare in aria un treno.
Otto operai muoiono durante un comizio sindacale. Due giorni dopo Fachini si presenta al giudice D’Ambrosio. E’ tornato in Italia qualche giorno prima della strage.

La strage di piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, 8 morti
Due mesi dopo esplode l’Italicus: 12 morti. Ma in estate cambiano molte cose: cade Nixon, fanno fuori Angleton da 25 anni l’uomo delle operazioni speciali della Cia. In Italia viene messo da parte D’Amato, longa manus di Angleton. La stagione delle bombe, per il momento, è finita. Ora è il tempo del terrorismo rosso.
Nel gennaio 77, sette anni dopo la strage e dopo rinvii e intoppi di ogni tipo, a Catanzaro inizia finalmente il processo per piazza Fontana.
Le cose si mettono male. Le prove contro Freda e Ventura, che nel frattempo sono in libertà vigilata, sono schiaccianti. Bisogna farli scappare. Il compito è di nuovo affidato a Fachini, che invia a Catanzaro tre camerati di Roma. Far scappare Freda è un giorco da ragazzi. Esce di casa e se ne va assieme ai tre. La polizia non si accorge di nulla
A dare una mano c’è anche la ’ndrangheta, da tempo in buoni rapporti con fascisti e massoneria. Freda viene nascosto per alcuni mesi in casa del boss Filippo Barreca. <Un giorno – racconterà molti anni dopo – vennero a trovare Freda, Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Sapevo che l’avvocato Romeo era massone e apparteneva a Gladio, ed era collegato con i servizi segreti>
Dopo la fuga sorge un dissidio tra Freda e Fachini, il secondo vorrebbe che tornasse alla lotta in clandestinità, ma Freda non è mai stato un combattente e ha sempre amato la vita comoda, lui è un essere superiore non può faticare, per cui chiede di avere almeno 4 o 5 camerati che lo assistano, tipo attendenti. Così l’accompagnano in Francia e di lì in Sudamerica.
E Ventura? Controlli rafforzati, sei agenti giorno e notte. Tutto inutile. Ad organizzare la fuga, ancora una volta, è Fachini, ma questa volta la cosa è ancora più semplice. Fachini arriva da solo, se lo carica in macchina e lo porta via…. Verso l’Argentina. Il questore dice che forse era travestito.
Fughe quantomai opportune, infatti il processo si conclude con la condanna all’ergastolo dei due. Condanna che verrà poi cancellata in appello da una sentenza così scandalosa che La Cassazione l’annullerà, definendola: <superficiale, illogica, con travisamento dei fatti e basata su supposizioni e ipotesi>. Ma è tutto inutile, il destino di Freda e Ventura è già segnato, debbono essere innocenti. E così sarà. Anche Fachini, che l’accusa aveva considerato in una posizione del tutto marginale, è assolto.
Molte cose stanno cambiando, anche nel mondo del neofascismo. Nel 77 si affaccia sulla scena una nuova generazione di neri. Molto giovani, slegati dalle vecchie organizzazioni, meno sensibili alla retorica nostalgica, lontani dai vecchi “tramoni” golpisti. Non coltivano rapporti con questure e servizi e subiscono l’influenza dell’autonomia e del terrorismo rosso. Il gruppo più fuori controllo è quello dei Nar.
Questo però è quello che appare dall’esterno. Al di sotto, in realtà, il vecchio intreccio di fili che corre tra capi fascisti, livello occulto degli apparati di sicurezza, una certa politica e la P2, resta solido e attivo.
Fili che si annodano ancora attorno al vecchio nucleo di Ordine nuovo. On è stato sciolto e messo fuorilegge, ma in realtà continua ad operare. Secondo la sua vecchia tecnica di camuffamento ora si chiama Costruiamo l’azione (Cla). Ma sono sempre gli stessi. Fachini ora è il capo al Nord e ne è il responsabile militare. E’ lui a scrivere i fogli d’ordine con le istruzioni per l’attività clandestina, che i militanti debbono distruggere appena letti. C’è chi non lo farà e la polizia li troverà. Del resto di clandestinità e segretezza è un esperto.
A Roma il capo è Signorelli, già braccio destro di Rauti e in ottimi rapporti coi carabinieri. Sopra di lui c’è un livello opaco e semiocculto, costituito da gente come Fabio De Felice, in contatto diretto con Gelli, e il criminologo Semerari, legato al Sisde, a cui la Camorra taglierà la testa ed anche , Enzo Maria Dantini, uomo di Gladio. E’ l’anello di congiunzione con la P2 e tutto ciò che sta sotto il cappuccio della P2, compresi i vertici dei servizi. E’ sempre il vecchio On, legato a doppio filo ad apparati istituzionali.
Non hanno dubbi i giudici bolognesi che nell’86 scrivono: <Nei confronti di Signorelli, De Felice, Semerari e Fachini le indicazioni di contatti, collusioni e collegamenti coi servizi segreti sono così numerose da permettere di considerare tutti loro inseriti a pieno titolo nei servizi come agenti> [1].
Nei fogli d’ordine, scritti da Fachini, si legge: <Demoralizzare la popolazione con un terrorismo apparentemente cieco ed indiscriminato…. Il terrorismo é un’arma di distruzione e dominio>.
Mentre i fascisti dei Nar fanno la guerra di strada e si sparano coi rossi, On-Cla è immutato negli uomini (in Veneto sono ancora attivi Maggi e Digilio); nel ruolo di manovalanza armata degli apparati occulti dello Stato; e nei metodi: bombe e presto anche una nuova strage.
Attorno a Cla si raccoglie qualche decina giovani e meno giovani. Roba da poco. Ma non è quello di aggregare le nuove leve lo scopo, bensì quello di dirigerle politicamente, di indirizzare le azioni armate dei vari gruppi. Una sorta di regia politico-terroristica da dietro le quinte.
Nel giugno del 78 si decide di passare dalle parole ai fatti e di avviare una campagna di attentati <non rivendicati al fine di verificare il grado di rispondenza dell’ambiente a un eventuale discorso politico militare> [2].
<Signorelli mi disse di contattare Fachini perchè ci facesse avere l’esplosivo. Fachini aveva un grosso deposito di esplosivo, in buona parte T4 recuperato da ordigni militari ripescati da un laghetto> [3]. Assieme all’esplosivo arrivano a Roma anche delle sveglie Ruhla, che Fachini ha consigliato come timer. Sono le stesse già usate negli attentati del 69. Nel corso dell’estate a Roma esplodono diverse bombe.
Nella primavera del 79 gli attentati riprendono. Vengono colpiti il Campidoglio e Regina Coeli. Questa volta vengono rivendicati con una nuova sigla Movimento rivoluzionario popolare, e con slogan di sinistra. L’esplosivo lo ha portato a Roma dal Veneto il braccio destro di Fachini, Roberto Raho. Era stato Aleandri a telefonare a Fachini chiedendo di mandargli <5 portafogli e una borsa> e cioè 5 detonatori e un kg di esplosivo. Esplosivo particolare ricavato da vecchi proiettili, spiega Aleandri, che richiede un preinnesco per esplodere. Cosa che sarà confermata dalle perizie.
Fachini negherà il suo ruolo di fornitore di esplosivo, e i tribunali gli crederanno. Qualche anno dopo sarà lo stesso Raho a confermare le rivelazioni di Aleandri: portavo io l’esplosivo a Roma, aggiungendo che nella faccenda erano coinvolti anche Maggi e Digilio. Sembra di essere tornati indietro nel tempo. Fachini, Maggi, Digilio, gli stessi che trafficavano con le bombe sin dal 69. Pure Digilio confermerà l’invio di esplosivo, ma ormai è tardi, Fachini è stato assolto.

La stazione di Bologna, devastata dall’esplosione
Il 20 maggio un’autobomba con 94 candelotti nel bagagliaio viene parcheggiata davanti alla sede del Csm. Il timer è puntato alle 14. Questa volta si vuole la strage. La bomba non esplode. Il fascista, appartenente a Cla, autore dell’attentato sosterrà che non doveva esplodere, Ma le perizie lo smentscono, solo un inceppamento dell’innesco ha evitato una strage che poteva essere di enormi proporzioni, vista la potenza dell’esplosivo.
Uno dei capi dei Nar ha acquisito una fama sinistra di pistolero cattivo e infallibile. Si chiama Giusva Fioravanti. Nel giugno del 79 finisce in carcere, dove poco prima sono stati rinchiusi anche Signorelli e Sergio Calore. Il giovane Giusva si lega ai due. Ne nasce un rapporto che prosegue anche quando, pochi mesi dopo, vengono scarcerati.
L’anarco-fascista, il guerriero ribelle prende a frequentare gli uomini di Gelli. La sua fama è giunta anche al Nord. Fachini è interessato a questo giovane audace e spedisce a Roma un suo figlioccio, Gilberto Cavallini.
Soprannominato il negro, nel 76 aveva ucciso a coltellate un giovane di sinistra a Milano. Arrestato, mentre lo trasferivano chiese di fare pipi. Ma certo, scese dal cellulare, scavalcò il guard-rail e salutò le guardie. Cavallini venne ospitato in Veneto da Fachini, qui i rapporti tra i due diventano così stretti, che più d’uno lo definirà: una creatura di Fachini. Dopo tre anni viene mandato a Roma col compito di entrare nei Nar. E infatti diverrà il camerata inseperabile di Fioravanti. In tutti coloro che sono legati al giro del vecchio On c’è sempre un segno, come una piccola cimice nascosta.
Quella di Cavallini verrà scoperta molti anni dopo nella sua agenda telefonica. Vi compare un numero segreto della Sip. E’ uno dei numeri utilizzati per telefonate molto riservate da Adalberto Titta.
Chi è costui? E’ uno dei capi operativi dell’Anello, struttura segreta del Sid per le operazioni sporche, che il servizio non può fare in proprio. Tanto per capirci, questo Titta, un ciccione di oltre cento chili, è quello che ha ricevuto l’incarico di prelevare Kappler dal carcere e portarlo in Germania. Cavallini evidentemente è in contatto con lui.
Fachini continua a puntare su Fioravanti. Alla fine del 79 manda a Roma Melioli, uno dei suoi uomini più fidati, col compito di proporre a Giusva di venire a Padova e uccidere il procuratore capo, omicidio da rivendicare come Br.
L’uccisione del magistrato viene rinviata, intanto si cerca di far saltare la casa dell’on. Tina Anslemi. La bomba, molto potente, messa sul davanzale della finestra non esplode, c’è un filo staccato. Quel che trovano gli artificieri è interessante: il solito esplosivo di recupero militare, con una pizzetta di Tnt per facilitarne l’esplosione. Proprio il tipo di cui dispone Fachini, secondo quanto detto da Aleandri e Calore. Il fallito attentato viene rivendicato con una sigla di sinistra.
Ma un militante di Cla rivelerà ai magistrati che ad organizzare l’attentato è stato il gruppo di Fachini.
Nuovo processo per il “nano”, ma di nuovo sarà assolto, i riscontri sull’esplosivo e la testimonianza del pentito non saranno ritenuti sufficienti.
Nel luglio dell’80 Vettore Presilio, un neofascista in carcere a Padova, ha appreso da un camerata transitato anche lui dietro alle sbarre, alcune notizie interessanti. Decide di giocarsele, per vedere di uscire anzitempo. Fa chiamare il magistrato e gli rivela che l’estrema destra sta preparando l’uccisione di un magistrato e un attentato così grosso che tutto il mondo ne parlerà.
Purtroppo questo Vettore è noto per essere uno che beve e non gli viene dato molto credito. Peccato, perchè il 2 agosto salta per aria la stazione di Bologna con 85 morti.
E proprio quella mattina Giusva Fioravanti, Cavallini e la Mambro sono a Treviso e poi a Padova, ma raccontano tre storie diverse su quel che hanno fatto assieme quella mattina. E, strana coincidenza, proprio quella mattina rispunta zio Otto, l’uomo che aveva preparato le bombe di piazza Fontana e Brescia. Digilio racconta ai magistrati che la mattina del 2 agosto Cavallini andò a Venezia e gli portò una pistola da riparare. Un alibi che però lo stesso Cavallini smentisce.
I giudici tornano da Vettore, vogliono sapere da chi aveva avuto l’informazione. Lui, messo sotto pressione, fa il nome: Roberto Rinani. Uno dei tre o quattro camerati fedelissimi di Fachini.
Ma non è l’unica traccia che dalla stazione di Bologna porta dritta a Fachini. Un paio di neofascisti rivelano che Jeanne Cogolli, la ragazza che fa da referente per Cla a Bologna, si è allotanata, assieme ad un altro camerata, in tutta fretta da Bologna la mattina del 2 agosto. Era stata avvertita che era meglio non farsi trovare in zona. Da chi? I due testimoni dicono che la Cogolli ha fatto a loro il nome di Fachini. Lei negherà, anzi dirà che neppure lo conosce, ma sarà smentita dallo stesso Fachini che ammetterà di essere in rapporti con lei.
La vita nell’ombra e nell’impunità, nonostante la sua costante presenza dove e quando esplodono bombe, sembra finita. Il 28 agosto viene arrestato per la strage di Bologna, ma poco più di un anno dopo viene scarcerato. Sarà riarrestato, sempre per la strage della stazione nell’83, ma intanto, anche tra i neofascisti, sono spuntati diversi pentiti.
E sono almeno sei o sette che riferiscono come nell’ambiente fosse noto che Fachini era uno degli organizzatori ed autori della strage di piazza Fontana, assieme a Freda. E così nel dicembre 82 viene arrestato anche per questa strage.
Dopo cinque sentenze, si apre un nuovo processo per la strage del 12 dicembre 69. Gli imputati sono Fachini e Delle Chiaie. Gli indizi a carico di Fachini sono pesanti. Tra l’altro l’alibi che si è preparato per il giorno della strage fa una misera fine: arriva una lettera a futura memoria dell’avvocato che dice di aver incontrato Fachini nel pomeriggio del 12 dicembre a Padova e che c’è una donna che può confermare di aver incontrato Fachini nello studio di Freda, ma la donna, sentita, nega tutto e afferma di non aver mai conosciuto Fachini. A conferma che si è trattata di una misera messinscena c’è la testimonianza di un altro ordinovista: <Ho appreso che Fachini era riuscito ad ottenere da un avvocato un alibi falso per il giorno della strage> [4].
Ma i pentiti non sono ritenuti attendibili, la famosa chiavetta un indizio non sufficiente e il ventennale sodalizio con Freda ininfluente, visto che Freda è innocente, e così Fachini viene di nuovo assolto.
Resta l’accusa per la strage di Bologna. In primo grado Fachini viene condannato all’ergastolo assieme a Fioravanti e Mambro . Ma in appello la condanna viene annullata. La testimonianza di Vettore e l’avvertimento alla Cogolli di allontanarsi da Bologna non hanno trovato sufficienti conferme. I legami tra Cla e Fioravanti non sono stati approfonditi. Il ruolo di Cavallini come trait d’union tra Fachini e Fioravanti neppure. Di nuovo assolto.
E l’imputazione per avere fatto evadere Freda e Ventura? Quella è caduta in prescrizione.
Alla fine l’unica condanna che non riesce ad evitare è quella per associazione sovversiva. Per tutte le accuse più gravi: stragi, tentate stragi e bombe che hanno martoriato l’Italia per 11 anni, Fachini è ufficialmente un innocente.
Un altro ordinovista, che ha ammesso di essere stato un collaboratore dei servizi segreti, ha testimoniato che i rapporti di Fachini con gli stessi servizi erano ancora attivi nel 1984 [5]
Nel 2001 la Corte d’Assise di Milano e poi l’Appello e la Cassazione hanno condannato Digilio e riconosciuto la colpevolezza di Freda e Ventura, non più condannabili, per la strage di piazza Fontana.
Nel 2015 Digilio (già deceduto) è stato dichiarato colpevole anche per la strage di piazza della Loggia e Maggi condannato all’ergastolo.
Gilberto Cavallini, dopo 40 anni, è stato condannato all’ergastolo, in primo grado, per la strage di Bologna.
Massimiliano Fachini è morto nel 2000 in un incidente stradale.
giorgio gazzotti
[1] Sentenza istruttoria sulla Strage di Bologna.
[2] Testimonianza di Sergio Calore
[3] Testimonianza di Paolo Aleandri
[4] Testimonianza di Gianluigi Napoli
[5] Testimonianza di Oscar Nessenzia
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