Inventò il Futurismo. Voleva abbattere la tradizione, la morale comune, i sentimenti, la sintassi. Fu campione di provocazioni e contraddizioni
e fu fascista. Amava così combattere che a 66 anni partì volontario per la Russia

Adorava la guerra e combattè la pastasciutta

I baffi arricciati all’insù, il cranio precocemente semicalvo, sempre in posa con il mento proteso e volitivo e l’occhio spiritato, la camicia bianca, la farfallina al collo, le ghette e la bombetta. Non era un bell’uomo, aveva un’aria un po’ ridicola. Lo salvava solo l’altezza, superiore alla media.

Filippo Tommaso Marinetti (che in realtà si chiamava Emilio Angelo, ma se li era cambiati, sempre due però) era un grumo di contraddizioni, preda di una pulsione esasperata a stupire e conquistare. Fu indubbiamente personaggio dalle doti notevoli e di qualche idea geniale, anche se spesso confuse, ma fallì il suo obiettivo principale: essere profeta rivoluzionario, amato e celebrato. Non lo fu in nessuno dei campi in cui si lanciò con la spada sguainata del suo nichilismo provocatorio. Forse tradito da quella venatura di ridicolo che traspariva dalla sua febbrile ambizione.
In una sola cosa eccelse davvero e conservò una coerenza inverosimile per lui: la guerra, l’amore per la guerra, per il sangue, l’odio per chiunque avesse una divisa, una razza, un idioma diverso dal suo. E non la guerra cantata con la sua prosa barocca, retorica, gonfia e compiaciuta, ma fatta in prima persona.

Marinetti nasce nel 1876 ad Alessandria d’Egitto, da una coppia di amanti. La madre è scappata dal legittimo marito per seguire il suo amore, un avvocato di provincia che ha deciso di cercare fortuna presso la Compagnia del Canale di Suez. Fortuna che trova, diviene infatti uno degli avvocati più importanti del paese.

A 12 anni entra al collegio dei gesuiti francesi, divenendo praticamente bilingue. Subito nasce il grande amore per la letteratura e già da adolescente mostra il suo carattere intraprendente, fondando una rivista scolastica di poesia. A 17 anni rischia l’espulsione per aver introdotto nella scuola i romanzi di Zolà, ritenuti scandalosi. Così lascia il collegio e viene mandato a Parigi a diplomarsi. Torna in Italia, si laurea in legge, ma il diritto non fa per lui. Grazie al cospicuo patrimonio lasciatogli dal padre può dedicarsi interamente all’arte, vivendo tra Milano e Parigi.

La capitale francese è al massimo del suo fulgore, il mondo intellettuale e artistico è tutto lì, con le sue avanguardie che affascinano il giovane Marinetti, assiduo frequentatore di salotti e circoli artistici. Gli stessi luoghi frequentati da altri italiani, in particolare uno, D’Annunzio, che per tutta la vita gli sarà abbinato come una sorta di fratello maggiore. In realtà i due sono diversi e divisi da molte cose, soprattutto da una malcelata antipatia e rivalità. Considerato che il secondo oscurerà sempre il primo per fama e successo. Tanto che i francesi si interessano a Marinetti soprattutto per avere pettegolezzi su D’Annunzio

Marinetti scrive, dirige anche una rivista, fa conoscere in Italia i simbolisti francesi. Ma fino al 1908 nulla di significativo. A cambiare tutto è una novità che con l’arte nulla ha a che fare: la comparsa sulle strade delle prime automobili. Resta folgorato da quella macchina scoppiettante che solleva nubi di polvere e regala all’uomo la velocità.
Ne compra subito una, una Isotta Fraschini e, preso dall’ebrezza della corsa, finisce in un fosso, rischiando la pelle. In realtà ne emerge illeso, ma lui è già, forse senza saperlo, il primo geniale pubblicitario… ovviamente di sè stesso. E così trasforma l’episodio in una specie di folgorazione sulla via di Damasco. Da quel fossato, dirà, emerse un uomo nuovo: Marinetti è diventato futurista.

Nei mesi successivi scrive il Manifesto del futurismo. Sotto c’è una sola firma, la sua. Dai giornali riceve cortesi rifiuti, solo la Gazzetta dell’Emilia lo pubblica. Ma non è certo uno che si dà per vinto. Grazie alla raccomandazione di uno degli azionisti del Figarò, di cui il padre era stato avvocato, riesce a piazzarlo sulla prima pagina del giornale francese il 20 febbraio 1909. E così del Manifesto e di Marinetti si parla in tutta Europa.

Il Futurismo vuol essere una rottura palingenetica con il passato e la tradizione, senza nulla salvare. Non come puro atto di volontà, ma come conseguenza del nuovo mondo dominato dalla tecnologia e dalla velocità. E’ uno strano connubio di idee e tendenze contrastanti, di intuizioni coraggiose, ma subito contraddette. <Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione…. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno>.

Vitalismo, individualismo, superomismo, che sono gli ingredienti della reazione aristocratica alla società di massa e al dominio degli affari e della tecnica, che stanno lievitando nel ceto intellettuale di destra e che saranno la base ideologica del fascismo. Ma nel manifesto c’è anche il suo contrario: l’esaltazione dell’industria, della meccanica, della scienza come fonte di progresso; un inno e un incitamento alle masse operaie, all’insurrezione.
Ma allo stesso tempo c’è l’adesione al nazionalismo più estremo: <Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore>. In nome del quale indossa sempre un calzino rosso e uno verde.
Come far convivere la rivoluzione libertaria con il militarismo patriottico; il regno della macchina con l’individualismo dell’audace, non è un problema per Marinetti.

Che in fondo ha due sole idee chiare in testa. La velocità è la nuova bellezza: <Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia>. Idea che, con il suo gusto per la provocazione, coniuga con furore iconoclasta: <Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie>. Sino a propugnare la distruzione di Venezia, simbolo di decadenza e l'<uccisione del chiaro di luna sostituito da trecento lune elettriche>.

L’altra idea è la guerra, la lotta, la brutale sopraffazione di ogni sentimentalismo, moralismo e utilitarismo. I più deboli debbono soccombere. Da qui il disprezzo per la morale comune, i sentimenti, le donne e il femminismo ed invece la mitizzazione erotica concepita come pura azione conquistatrice. E l’anticlericalismo radicale: <il Papa è un vecchio scarafaggio nutrito d’immondizia>.
A differenza di quel dandy piacione di D’Annunzio lui vuol distruggere o perlomeno scandalizzare davvero la borghesia benpensante.

Marinetti nel 1917, volontario nella Prima guerra mondiale

Ma anche qui Marinetti oscilla tra due idee contrastanti. Si esalta al pensiero della guerra moderna, meccanica e motorizzata, il cannone e la mitraglia, il carro armato e l’aereo. Ma poi rimane prigioniero della vecchia retorica militarista, canta l’audacia, l’eroismo, lo sprezzo per il pericolo del guerriero. Quando invece la guerra moderna è di massa ed anonima e vince solo la quantità di tecnologia e industria. Non ha capito le sue stesse intuizioni, o forse gli fa comodo così.

Ma Marinetti non è solo un poeta e un ideologo, è anche un poliedrico uomo di spettacolo e di marketing. E così si inventa le serate futuriste. Esibizioni teatrali in cui i futuristi declamano i loro manifesti e il pubblico li fischia e lancia ortaggi. Marinetti aizza la platea rivelando buone doti istrioniche. A volte scoppia una rissa e interviene la polizia. Tutta pubblicità.
La performance più riuscita è il lancio del manifesto contro Venezia dal Campanile di San Marco: <colmiamo i piccoli canali male odoranti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi per preparare la nascita di una Venezia industriale e militare>. Una goliardata, dopo la quale D’Annunzio gli affibbiò l’epiteto di “cretino fosforescente”.

Le prime opere ‘futuriste’ di Marinetti non hanno grande fortuna. Una pièce teatrale viene sonoramente fischiata dal pubblico e dallo stesso Marinetti, che afferma la <volontà dei futuristi d’essere fischiati>. Fa tutto parte del gioco di provocazione e promozione, ma fino ad un certo punto. Qualche tempo dopo infatti sfiderà a duello un recensore troppo severo. Ancora una volta all’insegna del contraddirsi. Doppiamente, visto che un uomo del futuro ricorre a quanto di più passato, romantico ed aristocratico ci sia: il duello!

Nel frattempo il Manifesto ha visto l’adesione di un gruppo di pittori (Boccioni, Carrà), che è un po’ la salvezza del futurismo, poichè nell’arte figurativa la nuova corrente esprimerà le cose migliori. Nel 1910 Marinetti pubblica il suo primo romanzo, “Mafarka il futurista” a causa del quale viene condannato per oltraggio al pudore.

Nel 1911 il dibattito politico si infiamma attorno all’ipotesi di ritentare l’avventura africana, dopo il disastro di Adua, con obiettivo la Libia, provincia dell’impero turco. A Marinetti non par vero, i suoi inni alla guerra possono trovare immediata e pratica applicazione. Così diviene uno dei principali sostenitori della spedizione e non solo con la penna. E’ lui ad organizzare una delle più grosse manifestazioni in favore della guerra.

Il 29 settembre le truppe italiane sbarcano in Libia. Marinetti è al seguito come giornalista, ma lui non può accontentarsi del solo raccontare. Scrive infatti, appena sbarcato, ad un amico: <Carissimo, spero di tirare a qualche testa di turco>. Finalmente un po’ di coerenza, ancora più facile ed eccitante visto che si tratta di uccidere un po’ di negri e musulmani. Quella che Marinetti racconta con l’esibito compiacimento per la crudeltà pari solo al disprezzo per la vita del nemico, non è la guerra degli eserciti moderni, di cui ha vagheggiato, ma l’efferato amplesso erotico con il sangue e la morte. <Vedo avanzarsi un artigliere i cui piedi affondano in una poltiglia di sabbia, di sangue e di bossoli di cartucce. Ridendo dagli occhi azzurri, egli balbetta con le mascelle squarciate: “Otto! Ne ho uccisi otto! ” Ma nulla eguaglia la magnificenza epica di quel sergente che con la bocca imbavagliata di bende insanguinate alza le due mani verso di me, ad ogni momento, per indicarmi con le dieci dita aperte che ha ucciso dieci nemici».

Un’ebbrezza alla quale non può resistere e nella quale si tuffa nella maniera più sordida e per nulla eroica. Partecipa infatti alle rappresaglie e ai rastrellamenti che le truppe italiane compiono nei villaggi, contro persone inermi. <Ebbi la gioia di vedere tre arabi cadere sotto i colpi della mia pistola Mauser>.
Tornato dalla Libia decide di spingersi oltre nella sua ribellione alla tradizione e alle regole. E’ da un lato un’apprezzabile ricerca di nuovi mezzi espressivi, dall’altro un facile e fallimentare nichilismo di facciata. <E’ tempo di farla finita con la sintassi tradizionale, per passare alle Parole in libertà>. Una tecnica poetica nella quale sono abolite sintassi, punteggiatura e aggettivi e si ricorre ad artifici verbo-visivi. Marinetti scrive “Zang Tumb Tumb”, ma la nuova sfida futurista non è accolta bene, alcuni, tra cui Palazzeschi, che aveva tiepidamente aderito al futurismo, abbandonano il movimento.

Dopo l’attentato di Sarajevo é ovviamente in prima fila tra gli interventisti. Poi si arruola volontario. Combatte in prima linea e viene ferito all’inguine, rimesso in sesto, torna al fronte, è coinvolto nella rotta di Caporetto e partecipa alla controffensiva. E’ tra i primi ad entrare a Tolmezzo alla guida della sua autoblindo, partecipa anche alla cattura di un intero contingente austriaco. Tornerà con al petto due medaglie al valore.

Le vicende della guerra vengono, come già quelle della Libia, raccontate in un romanzo “L’alcova d’acciaio“. Nel quale è celebrato il culto della violenza militare e la guerra come un momento di ebbrezza psico-sensoriale e si inneggia all’odio-disprezzo per il nemico, per il quale non deve esistere alcuna pietà.
I suoi resoconti sono ovviamente poco attendibili. A volte non è chiaro se Marinetti sia obnubiltato dall’esaltazione di cui è preda oppure cerchi più prosaicamente benemerenze presso lo Stato maggiore. Come quando dipinge l’esercito italiano come disciplinato, eroico, leale, mosso solo dall’amore per la Patria e tutti gli altri eserciti come vigliacchi, feroci, sleali, pieni di disertori e pavidi.

Dopo essere stato ferito, mentre è convalescente, detta un manualetto che otterrà un inatteso successo: “Come si seducono le donne“. Arte nella quale per altro non era grande esperto. A differenza del suo rivale D’Annunzio, che faceva collezione di conquiste e nonostante affermi che <per l’uomo futurista la donna rappresenta una conquista da moltiplicare infinitamente per sottolineare il suo dominio e la sua forza>, risulta abbia avuto un numero assai modesto di amanti. Nei suoi romanzi si fa invece sfoggio di grande conoscenza di bordelli.

Cosa non poi così strana vista la sua affermazione che <con la donna è possibile solo una meccanica funzione riproduttiva> e i suoi pamphlet nei quali canta il disprezzo per la donna e per l’amore, che <non è altro che un’invenzione dei poeti e impedisce all’uomo di uscire dalla propria umanità>. Il suo però non è un antifemminismo reazionario, vorrebbe che la donna si liberasse dei sentimenti e godesse della stessa libertà sessuale degli uomini.

Marinetti gioca anche a calcio, ma a modo suo. Rifiuta regole e tattiche, ruoli e gioco di squadra in nome dell’individualismo più sfrenato. <In campo era scattante, frenetico, elettrico, con lo sguardo sempre un po’ invasato>.

Impiccagioni di civili etiopi

Finita la guerra, si lancia nella politica e fonda il Partito futurista. Le idee sono un po’ confuse, ma in questo caso ha l’attenuante di essere in grande compagnia. Tra il 18 e il 20 c’è un ampio settore di intellettuali e militanti politici che si lascia ammaliare da un’improbabile contaminazione tra idee socialiste, reazionarismo piccolo borghese e reducismo nazionalista.

Il partito dei futuristi ha nel suo programma la cacciata del Papa e del re, la distribuzione delle terre ai combattenti, il suffragio universale esteso alle donne, contratti di lavoro collettivi, otto ore lavorative, il divorzio. Marinetti si avvicina agli ambienti socialisti ed anarchici, ma è una frequentazione di brevissima durata.
Va anche a Fiume, che sta per varare una costituzione che ricalca in buona parte il suo programma. Ma a causa di dissapori non ben chiari viene invitato da D’Annunzio ad allontanarsi.

Le contraddizioni che avviluppano Marinetti sembrano sciogliersi all’improvviso, quando, seguendo la sua vera e più intima natura, nel marzo del 19 partecipa con Mussolini all’adunata di piazza san Sepolcro e il partito futurista confluisce nei Fasci di combattimento. In aprile, alla guida di un gruppo di arditi, futuristi e fascisti attacca armi in pugno un corteo di anarchici e socialisti, nello scontro restano uccisi tre giovani operai. Subito dopo partecipa in prima fila all’assalto e distruzione della sede dell’Avanti.
Marinetti ora è fascista, anche se un po’ a modo suo.

Dopo aver scritto parole di fuoco contro il parlamentarismo, si candida alle elezioni del 19, ma non viene eletto.
Viene anche arrestato, assieme a Mussolini, per detenzione di armi e si fa una ventina di giorni di carcere. Ma i rapporti con il Duce già si vanno incrinando, Marinetti non condivide la svolta conservatrice di Mussolini. Il fascismo da forza antiborghese sta diventando braccio armato degli agrari e forza di regime.
Al secondo congresso dei Fasci invoca la svaticanizzazione dell’Italia e la fine della monarchia e chiede di appoggiare gli “scioperi giusti”. Mussolini privatamente parla di Marinetti come di un buffone. La rottura è inevitabile.

Deluso dalla politica, Marinetti ritorna alla letteratura, già allontanandosi dalle sperimentazioni più ardite. Anche se vende abbastanza, la sua parabola artistica inizia declinare. A Parigi non è più accolto come la “caffeina d’Europa”, l’uomo dalle trovate che facevano scandalo. Ora l’ultimo grido in fatto di avanguardie è il Dada che si fa beffe dei futuristi. Duchamp ha fatto di un orinatoio un’opera d’arte. Altro che il “Zang Tumb”

Se non sei più avanguardia e devi soddisfare la tua ambizione non ti resta che accucciarti all’ombra del potere. Mussolini ora è il padrone d’Italia e nel 24 Marinetti ribussa alla sua porta. Il Duce lo premia con la più alta onoreficenza culturale e lo nomina accademico d’Italia. Lui, che voleva distruggere tutte le accademie, accetta di buon grado.
Firma il manifesto degli intellettuali fascisti e, buttate a mare le parole in libertà, diventa il difensore della letteratura e della lingua italiana, sino ad arrivare a definire Leopardi “maestro d’ottimismo” e Ariosto un futurista ante litteram.

Marinetti in camicia nera, con la moglie, poco prima di partire volontario per il fronte russo

Anche nella vita personale la svolta è pressochè totale. Voleva abolire il matrimonio, ma si sposa con la pittrice Benedetta Cappa, addirittura in chiesa. E a quel che si sa, fu marito fedele e affettuoso. Fa battezzare e cresimare le figlie e vorrà avere funerali religiosi. Pare anche che tenga sempre con sé un santino del Sacro Cuore. Ma le contraddizioni non sono mai state un problema.
Anche gli obiettivi delle sue invettive sono molto più modesti, lancia infatti la crociata contro la pasta asciutta, causa di <fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica>.

Su una cosa però Marinetti non cambia e non cambierà mai. L’amore per la guerra, l’attrazione per le armi e la violenza militare: <Facciamo splendere tutti i momenti della nostra vita, con atti di volontà impetuosa, di rischio in rischio, corteggiando continuamente la morte, che come un rude bacco renderà eterni, in tutta la loro bellezza, i frammenti della nostra materia memore>.

Sono ormai 17 anni che di guerre non ce ne sono più, ma appena una si profila all’orizzonte non se la lascia scappare. Nel 1935, a 59 anni, parte volontario per l’Etiopia, ufficiale della divisione di camice nere “28 ottobre”. Partecipa ad una importante battaglia e si guadagna un’altra medaglia. Narrerà la sua guerra nel “Poema africano della divisione «28 Ottobre»”, con i consueti toni di esaltazione per le eroiche imprese dei legionari e il gusto per tutti i particolari più truculenti e spietati di una sporca guerra coloniale.

Nel 40, colpito da una grave forma di ulcera, subisce un difficile intervento chirurgico. Durante la lunga convalescenza scopre la fede e prende i sacramenti, come capita a molti al declinar della vita, la sua originalità è del tutto svanita.
Ma c’è ancora una guerra e che guerra! E a quel richiamo non si può resistere. A 66 anni, e non in buone condizioni di salute, si arruola volontario e parte per il fronte russo. Resta quattro mesi in prima linea sul Don, ma ai primi freddi, il medico militare lo rispedisce a casa.

Poco dopo si ammala d’una insufficienza cardiaca che lo porterà alla morte. Ma prima fa in tempo ad aderire alla Repubblica di Salò. Muore in hotel a Bellagio, sul lago di Como, il 2 dicembre del 44. Aveva appena scritto la sua ultima opera “Quarto d’ora di poesia della X Mas“. Reparto comandato dal principe Borghese, particolarmente attivo nei rastrellamenti di partigiani, agli ordini degli odiati tedeschi.

La notizia della morte ha risonanza mondiale, il New York Times gli dedica un articolo. Mussolini, che aveva sempre tenuto Marinetti, a cui doveva molto, ad una certa distanza, come già D’Annunzio, due personaggi che lui temeva potessero fargli ombra, ordina che sia sepolto con un solenne funerale di Stato.

giorgio gazzotti