
Il corpo del giudice Guido Galli, ucciso all’università Statale di MIlano, marzo 1980
E’ stato un capo di Prima linea. Ha ucciso e assaltato un carcere per liberare la sua compagna. La sua storia per cercare di capire la follia che si impadronì di tanti giovani che avevano un sogno
Le armi ci hanno bucato la testa e il cuore

Sergio Segio e Susanna Ronconi
La polizia spesso spara: due braccianti uccisi ad Avola, altri due a Battipaglia, un altro in Puglia, uno studente 22enne a Pisa. E, dopo la strage, Pinelli è volato dalla finestra della questura, una morte ancor più insopportabile delle altre.
Un anno prima, a Viareggio, un ragazzino di 16 anni è finito su una sedia a rotelle, questa volta a sparargli nella schiena è stato un cliente della Bussola, perché gli tiravano uova.
E’ una catena di sangue che non si spezzerà mai, per anni. Due mesi dopo la morte di Saltarelli, a Catanzaro i neofascisti lanciano una bomba e uccidono un operaio. Perché ci sono anche i fascisti a fare la loro parte, mettono bombe, una ventina solo nel 69, e uccidono anche.
Quelli che sono in piazza il 12 dicembre del 70 non sanno che la notte di quattro giorni prima, una cinquantina di fascisti armati hanno occupato per qualche ora il Viminale. La polizia ha aperto le porte. Quella notte doveva esserci il colpo di stato del principe Borghese. All’ultimo è arrivato il contrordine. Da quel momento la minaccia di un golpe resta pesante e presente.
Il terrorismo non è stato la risposta a tutto questo. No, è stato il prodotto di una mitologia esaltata e di un’allucinazione ideologica. Ma tutto questo è il terreno fertilissimo sul quale i semi della rabbia e le illusioni rivoluzionarie hanno germogliato e fruttificato una violenza infinita.
Segio è nato a Pola, nel 1955, da una famiglia comunista. Il padre è stato partigiano, finita la guerra è rimasto in Jugoslavia, perchè lì c’era il socialismo. Ma è finito nel gulag di Tito, come altri italiani sospettati di essere stalinisti.
Negli anni 60 la famiglia si trasferisce a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, dove si diventava comunisti sin dall’asilo. Poi è arrivato il 68, un lampo fosforescente, una febbre bellissima e Segio a 15 anni aderisce a Lotta continua.
Poi un altro lampo, quello delle bombe, ora c’è un brutto clima. I gruppi extraparlamentari si attrezzano per rispondere. Innanzitutto per non farsi trovare impreparati in caso di colpo di stato. Crescono i servizi d’ordine e nascono alcune strutture segrete, che debbono predisporre basi clandestine, un po’ di armi, reti di contatto. Lotta continua usa le armi anche per procurarsi un po’ di autofinanziamento. Non è la scelta della lotta armata, questa attività rimane segreta anche nei confronti di gran parte dei militanti.
Inneggia invece all’insurrezione e alla guerra civile armata Potere operaio. E non segretamente, lo scrive nei suoi documenti e lo proclama nei suoi convegni del 71. Ma polizia e magistratura sembrano non accorgersene. E c’è anche chi, il giorno dopo la strage, pensa che si sia già allo scontro finale, che occorre entrare in clandestinità e iniziare una nuova resistenza, come Feltrinelli e i suoi Gap. E poi ci sono le neonate Brigate rosse.
Il movimento non si fa travolgere e trascinare verso questa deriva, ma dentro cova un’idea cupa della lotta politica. Se parte dello Stato non ha avuto problemi a usare la strage per fermare le lotte e l’altra parte ha chiuso gli occhi, depistato, protetto gli assassini, perchè è questo che sta venendo alla luce, come possono tanti giovani non pensare che lo “Stato dei padroni” sia un nemico criminale da combattere?
Due colpi, uno alla schiena e uno alla nuca. Il commissario Calabresi, accusato di essere responsabile della morte di Pinelli, è a terra, accanto alla sua 500, morto. E’ il 17 maggio del 72, ed è uno strano omicidio, nessuno lo rivendica. Non sono state le Br, che in due anni non hanno ancora sparato un colpo. Né quelli di PotOp, che per ora parlano e basta. Sono stati quelli di Lotta continua.
Ma resta una stranezza: è contemporaneamente la prima azione militare, la più grave e l’ultima. L’impressione è che sia stata una scelta non condivisa, una fuga in avanti. Lc ha continuato ad oscillare nel suo giudizio sulle Br, un giorno le accusa di avventurismo e un altro dice che fanno bene. In un documento di due mesi prima parlava di <…. illegalità armata contro lo stato borghese>. Ma qualche mese dopo Calabresi il rifiuto della lotta armata diviene netto.
Nella sezione di Lc di Sesto la notizia dell’uccisione del commissario tanto odiato viene invece accolta con soddisfazione. E Segio è tra quelli che approva: ben fatto.

Servizio d’ordine della sinistra extraparlamentare
In estate i neofascisti a Parma uccidono a coltellate un ragazzo di Lc. E qualche mese dopo la polizia, a Milano, spara e uccide un altro studente. Nell’aprile del 73 un fascista cerca di far saltare in aria un treno, ma il detonatore gli esplode tra le gambe. Un mese dopo un altro, protetto dai servizi segreti, lancia una bomba davanti alla questura di Milano e uccide 4 persone poi cerca di farsi passare per anarchico.
Ma non si chiamano ancora anni di piombo.
A Milano ormai è guerra di strada coi neofascisti. Aggressioni, agguati, rappresaglie. I servizi d’ordine attirano soprattutto i più giovani, proprio come Segio. E’ nata anche una mitologia, come quella della “hazet36” . Una chiave inglese lunga mezzo metro, usata dai servizi d’ordine. Quello di Avanguardia operaia, uno dei più efficienti, ha come soprannome gli idraulici. E sui muri di Milano è frequente la scitta: “Hazet36, fascista dove sei”.
Segio è di quelli che vanno ad aspettare i “nemici” sotto casa. <Tutti gridavano slogan violenti, ma a noi toccava sporcarsi le mani. E non c’è poesia nel picchiare, solo lo schifo del sangue>.
Ma anche l’hazet sta per essere superata. A Roma sparano alle gambe di un caporeparto della Fatme. Il commando è guidato dal Valerio Morucci, il capo della struttura segreta di PotOp, a sparare è quello che sarà uno dei carcerieri di Moro. A loro il triste primato di aver inventato la gambizzazione.
Alla fine del 73 le cose stanno cambiando. Il ciclo di lotte nelle fabbriche si sta chiudendo. I gruppi extraparlamentari sono in crisi. Il Pci ha lanciato il compromesso storico, un segnale per tanti che la strada per un cambiamento radicale si è ormai chiusa. Della rivoluzione sognata non resta neppure il sogno.
C’è chi comincia a pensare che, invece che alla rivoluzione, è più facile dedicarsi alla rivolta. E le rivolte, si sa, hanno più violenza che idee. Compare un nuovo soggetto politico, l’Autonomia.
Il 68, pur nel suo estremismo, si collocava all’interno della storia del movimento operaio e della sinistra. L’Autonomia è fuori e contro: sindacati e Pci sono nemici. Chiedi e ti sarà tolto, prendi e ti sarà dato, è lo slogan perfetto. Non ci sono ideali, ma il rifiuto del lavoro, il sabotaggio, la riappropriazione della ricchezza e la violenza. La violenza diviene il cuore, la sostanza, la misura e il metodo della lotta politica.
Il fascino dell’azione, della guerra, soprattutto sui più giovani può essere irresistibile. Non è la prima volta.
Mentre i fascisti compiono altre due stragi, le Br hanno rapito Sossi e hanno umiliato lo Stato. La lotta armata ha anche un alone romantico e ammaliante.
Walter, un amico di Segio, ha lasciato Lc e si è arruolato nelle Br. Qualche tempo dopo la polizia andrà a casa sua, un palazzone popolare di Sesto, per arrestarlo. Lui uccide due agenti, scappa dalla finestra e viene falciato da una raffica. Aveva scritto a un amico: <Io sono uno dei tanti che pensano di cambiare qualcosa – non sono un utopista come dice mio padre – quelli che dicono così vogliono nascondere la paura e l’egoismo>. E’ riuscito a cambiare radicalmente la vita di tre persone, compresa la sua.
A Napoli e Firenze altri giovani di Lc, che si occupavano di carceri, escono e assieme ad ex detenuti fondano i Nap.
Alla fine del 74 anche una dozzina di militanti di Sesto, capeggiati da Segio e da Enrico, lasciano Lc. L’esordio miltare è un mezzo fallimento. Loro due si presentano alla Cisnal di Sesto, sono armati. Legano il custode e rubano gli schedari. Ma lo hanno legato male, lui si libera, spara e fa un paio di buchi all’auto in fuga.
Di lì a qualche mese quasi tutta la sezione di Sesto lascia Lc, compreso il segretario, Robertino, uno che era stato nella Gioventù studentesca di don Giussani e, a scuola, sempre il primo della classe. Altri si aggregano a Torino, Firenze, Bergamo.
Dopo qualche mese si uniscono ad uno spezzone dell’ex PotOp, quello capeggiato da Scalzone, hanno una rivista che si chiama “Senza tregua”.
L’altro pezzo, che fa capo a Tony Negri, è già più avanti. Hanno compiuto diverse azioni armate, tutte fallimentari però, compresa una tentata rapina vicino a Bologna: hanno ucciso un carabiniere, sono stati catturati e uno si è impiccato in carcere. Usano varie sigle, a Milano sono noti come quelli di Rosso, il nome del loro giornale.
Entrambe le organizzazioni operano su tre livelli: uno pubblico, nelle fabbriche, nelle scuole nei quartieri. Uno illegale di massa, espropri, cortei militarizzati, assalti. E poi ci sono i gruppi di fuoco, quelli che sparano.

I funerali di Claudio Varalli, ucciso da un neofascista, aprile 75
Segio è tra questi. Ha appena 20 anni, ma ha coraggio, in azione è freddo e deciso e uno così impara a sparare in fretta. Nel gennaio del 75 deve gambizzare il capo personale della E.Marelli. E’ la prima azione vera. Ma la pistola è un residuato bellico. Preme ripetutamente il grilletto e non spara, la vittima designata scappa.
Una primavera di sangue, quella del 75 a Milano. In aprile un fascista spara e uccide uno studente di 17 anni. Un corteo di migliaia di giovani attraversa Milano, assaltando bar, giornali, sedi di partito, negozi, tutto ciò che è collegabile con la destra e anche no. Poi va all’assalto alla sede del Msi. Sono scontri violentissimi, gli automezzi dei carabinieri sono in fiamme, stanno per avere la peggio. A guidare l’assalto c’è anche Segio. Arrivano altri camion che caricano il corteo, salgono sul marciapiede, un ragazzo finisce sotto le ruote e resta sull’asfalto con il cranio schiacciato e il cervello fuori.
Al suo funerale a migliaia gridano: “Pagarete caro, pagherete tutto” Nessuno può prevedere quale funesto annuncio sia. <Ho davanti agli occhi quel cervello sull’asfalto …. Tutti quei morti erano pezzi della mia vita, liquido incendiario per il mio impegno politico giovanile>.
Pochi giorni dopo muore nel suo letto di ospedale anche un ragazzino di destra. Lo avevano picchiato gli “idraulici” di Ao. Non volevano ucciderlo, ma le chiavi inglesi sulla testa possono fare molto male. Qualche settimana ed ecco la vendetta. Un giovane di sinistra viene circondato per strada e fulminato con una coltellata al cuore.
Molti di quelli in piazza non c’erano nel 68, sono una nuova generazione. L’impotenza e l’isolamento, vissuti in uno stato di rabbia esaltata, portano a pensare che a piegare la durezza della realtà basti una durezza più dura. La devastazione di auto e negozi è il ritorno alla jacquerie dei contadini disperati che incendiavano i municipi. E un ritorno a prima di Marx.
Mentre i cugini di Rosso inneggiano al saccheggio e all’operaio sociale, quelli di Senza tregua puntano ancora alle fabbriche. Bisogna radicalizzare lo scontro, armare le avanguardie operaie. Intanto con l’esempio.
E’ ancora Segio incaricato di colpire il capo del personale dell’Innocenti. E’ venuto su anche il capo militare romano. Lo chiamano Comancho per quell’aria da indio. Stanno bene assieme, anche Segio ha un viso dai tratti esotici., occhi sottili, naso affilato. L’11 novembre lo aspettano sotto casa e gli sparano tre colpi alle gambe. E così anche Senza Tregua può incidere la prima tacca sul calcio delle sue pistole.
La seconda arriva Il 26 marzo. Questa volta tocca a un dirigente della Philco. Gli obiettivi sono indicati dai compagni interni alle fabbriche. Lo aspettano in tre, Luciano, Bruno e Segio, che sta a una certa distanza con un mitra Mab. Chi è di copertura ha sempre un’arma lunga. A quello che deve sparare s’impiglia la pistola nella cintura, poi sbaglia la mira. L’uomo scappa, ma Segio con un colpo singolo gli spezza una gamba. Ha imparato a sparare bene.
< Il passaggio dalla hazet alla pistola fece sentire meno il disagio della sopraffazione, le armi comportano un diaframma emotivo….>
Appena una settimana dopo sono gli stessi in azione. Questa volta c’è qualche rischio in più. Debbono sparare al capo della sorveglianza della Marelli, dove lavora uno dei capi di Senza tregua. In due fanno irruzione nella portineria, Segio ha il solito Mab, fanno stendere l’uomo a terra. L’altro spara alle gambe, bersaglio comodo. Segio si è ormai conquistato i galloni di capo militare. Ora è Sirio, il suo nome di battaglia, che era il nome del padre da partigiano.
Nel frattempo le ragazze del gruppo hanno gambizzato un ginecologo nel suo studio, accusato di aborti clandestini.

L’assalto alla sede del Msi a MIlano, aprile 75
Il 27 aprile quattro “rossi” escono da una riunione, otto fascisti li circondano e colpiscono con spranghe e coltelli. Gaetano cade a terra ed è ripetutamente pugnalato, anche altri due restano feriti. Gaetano muore. Gli aggressori sono guidati da Gilberto Cavallini, uno di Ordine nuovo, che sarà processato per la strage di Bologna.
La vendetta è rapida, appena 48 ore. E’ una decisione quasi personale di Enrico, che spinge per una salto di qualità, ammazzare una persona qualcuno lo chiama così, ed anche per affermare la sua leadership. Viene scelto uno a caso, un consigliere comunale del Msi. Lo aspettano in tre. Il poveretto sale in auto, il finestrino va in frantumi e lui è già morto. Gli ha sparato uno che chiamano Cucciolo.
<L’omicidio è una porta stretta superata la quale è difficile tornare indietro>.
Dieci giorni dopo Segio sta preparando una rapina. Per tenere in piedi un’organizzazione armata ci vogliono soldi. E si passa più tempo a far rapine che altro. Lo fermano per un controllo. In una borsa ha l’inseparabile Mab e viene arrestato. Prima di portarlo in questura, lo picchiano lesionandogli entrambi i timpani.
Il primo omicidio spinge Senza tregua alla scissione, l’altra principale attività dei gruppi combattenti. Scalzone pensa ancora a un partito con un braccio armato. Ma quando la vera essenza, la vera novità sono le armi, è difficile che chi le usa accetti di prendere ordini da chi fa solo della teoria. I grilli parlanti, così li chiamano. Enrico e gli ex di Lc prendono il comando: nasce Prima linea.
Gli altri fondano i Cocori, anch’essi hanno un nucleo armato, dedito più a rapine che ad azioni cruente.
Prima Linea è molto diversa dalle Br. Non sopporta il marxismo-leninismo, con i suoi miti dell’organizzazione, del partito, della disciplina, dei militanti d’acciaio e quel che ne deriva, la clandestinità, la militarizzazione spinta. Quando uno diventa brigatista comincia a nascondersi, esce dal movimento, si veste come un impiegato modello, nelle fabbriche si iscrive alla Cisl.
I piellini vogliono invece rimanere immersi nella conflittualità sociale. Non hanno basi e non sono clandestini. Poche risoluzioni strategiche sui destini del mondo e molto spontaneismo, ribellione, antagonismo. Il loro film cult non è “Ottobre”, ma “Il mucchio selvaggio” di Peckinpah. Anche se poi le armi prevarranno su tutto e imporranno le loro regole.
Accanto ai gruppi di fuoco ci sono le squadre di quartiere. A Milano il grosso dei collettivi autonomi fa riferimento a Rosso e Senza tregua, al loro interno si muovono i nuclei armati, quasi tutti lo sanno e la cosa è accettata.
Non si spara solo alla gente, quasi ogni giorno a Milano ci sono assalti a sedi di partiti, associazioni, bar o altro. Incursioni nelle aziende. Espropri di supermercati e negozi. Sono le campagne: contro il lavoro nero, il carcere, gli spacciatori, i rincari delle bollette. Sono azioni compiute da gruppi anche numerosi, nei quali ci sono alcuni armati altri no. E poi ci sono i cortei armati. Dai quali si staccano in 20 o 30, colpiscono un obiettivo e rientrano, facendo bella mostra delle armi.

Militanti di Rosso sparano alla polizia a MIlano, muore l’agente Custrà, 17 maggio 77
Intanto esplode il 77. I circoli giovanili e le radio libere. C’è l’ala creativa, gli indiani metropolitani. Ma sono solo la massa di manovra degli autonomi, che anche con la forza impongono il loro comando.
Sembra il riaccendersi del 68, ma è un’altra cosa. I sessantottini erano consapevoli di essere dei privilegiati e volevano mettersi al servizio del proletariato e guidarlo alla rivoluzione. Cercavano di conquistare consenso, di esercitare un’egemonia. E un po’ ci sono anche riusciti. Quelli del 77 pensano di essere loro gli sfruttati. Sono il proletariato giovanile, i non garantiti contrapposti ai garantiti, che sono anche gli operai, almeno quelli che stanno col sindacato. Da qui la loro sensazione di isolamento, che traducono però in volontà di isolamento. E anche loro ci sono riusciti.
L’11 marzo a Bologna un carabiniere uccide uno studente. E’ un cerino su un mare di benzina. Incidenti e morti. A Torino, il giorno dopo, la vendetta è già consumata. A deciderla, ancora una volta, è stato Enrico. Vanno in quattro, c’è anche una ragazza, si chiama Susanna. Un poliziotto è ammazzato appena esce di casa. Susanna, figlia di un ufficiale, ha una lunga esperienza, era già nelle Br nel 73 e diverrà la compagna di Segio.
A Milano dal corteo si staccano in una ventina, ci sono i piellini e quelli di Rosso, aprono il fuoco contro il palazzo degli industriali. Fucili, mitra, pistole, centinaia di colpi.
Ormai le armi girano come giocattoli, eccitanti. L’ebbrezza e il senso di potenza che ti dà impugnare il calcio di una pistola ammalia tanti. Anche perché il rischio che si corre è bassissimo. Nessuno viene mai individuato o arrestato e dire che parecchi di loro sono molto noti e rivendicano le loro azioni su giornali in libera vendita. Ma nessuno se ne occupa.
Ma certo: <Quelli sono gli unici – dirà poi Cossiga – in grado di portare in piazza decine di migliaia di persone contro il Pci>.
Un mese dopo un altro corteo, quelli di Rosso escono e sparano alla polizia, così senza motivo. Un agente è centrato in pieno viso e muore. Le foto scattate diverranno famose, il simbolo degli anni di piombo. Al termine del corteo tre di loro finiranno all’ospedale, sprangati dal servizio d’ordine della Statale, che considera gli autonomi dei provocatori.
A Milano sono attive ben cinque organizzazioni armate: Br, Pl, Fcc che sono poi i “militari” di Rosso che se se ne sono andati, perchè quelli parlano, parlano di guerra, ma non la fanno. I Cocori, le Ucc del Comancho anche loro messisi in proprio.
Intanto Segio è uscito e riprende subito il suo posto nel comando di Milano. Di lì a qualche mese entrerà nel comando nazionale.
Qualche settimana dopo organizza una delle tante notti dinamitarde, contro due caserme dei carabinieri nell’hinterland.
Il 19 giugno due carabinieri si presentano all’ingresso della Marelli. Ma uno dei due è Segio. Legano la guardia. Entrano in cinque e appiccano il fuoco. Un altra squadra fa altrettanto alla Sit Siemens. Miliardi di danni e migliaia di operai in cassa integrazione. Il volantino dice che è “contro la ristrutturazione”. Il giorno dopo quelli delle squadre gambizzano anche un dirigente della Siemens.
Tutte le azioni a Milano sono coordinate e organizzate da Segio.
In luglio Pl ha il primo morto. Erano andati a rapinare un’armeria, ma quando risalgono in auto carichi di armi, il proprietario liberatosi del nastro adesivo, spara con un fucile e uccide uno dei quattro. Due notti dopo va Segio e fa saltare in aria il negozio.
In settembre l’autonomia organizza a Bologna il convegno contro la repressione, che in realtà non c’è. Ma Segio non ci sta: ci siamo messi a fare la guerra, che si aspettavano che rispondessero coi fiori? Lo stesso dirà quando il 7 aprile del 79 arresteranno Negri e compagni, che grideranno al complotto politico-giudiziario ordito dal Pci, con i soliti intellettuali che solidarizzano. <E’ una paraculata bella e buona…ma quale complotto, quando sei stato il teorico dell’insurrezione proletaria devi assumerti le responsabilità politiche>.
Lui è così, uno che non si tira indietro, né prima né dopo.
Uno delle Fcc, di Bologna, si chiama Maurice, ha un contatto con l’Eta basca. Così organizzano uno stage estivo in un campo dell’Eta, addestramento all’uso degli esplosivi. Vanno in nove, per Pl va Segio.
Intanto le Br hanno rapito e ucciso Moro. Prima linea prende le distanze. Per Segio e compagni è un errore politico. Un innalzamento del livello di scontro che avrebbe spinto il movimento verso una deriva militare. E così fu.
Moro è un punto di svolta. La repressione comincia davvero. In tanti hanno bussato alla porta di Pl, ora sono alcune centinaia. Sono all’apice della loro forza, ma politicamente saranno sempre più deboli. Il movimento che ha riempito le strade è finito. I terroristi sono isolati, ma ormai hanno perso i contatti con la realtà.
Quel che Pl non voleva essere deve diventare. Molti entrano in clandestinità, occorre acquistare basi, pagare stipendi, più avanti ci sono le famiglie di quelli in galera da aiutare. Pl arriverà ad avere un bilancio annuo di un miliardo e 300 milioni. Nel 79 la paga per i clandestini è di 300mila al mese. Spesso i soldi non bastano e quindi rapine. Anche tre in un giorno.
La vita del clandestino non è esaltante. Si passa il tempo a pedinare qualche futura vittima, a studiare rapine. Si sta nascosti, non si può telefonare, per parlarsi si va ad appuntamenti fissi.
La china militarista è ormai imboccata. In un anno e mezzo Pl aveva ferito una dozzina di persone, ma non aveva ucciso più nessuno. Segio ora è il capo militare. E, come spesso accade, quando si finisce in un tunnel, invece di tornare indietro, ci si spinge sempre più in fondo. Si riempie il vuoto politico con la ferocia. L’11 ottobre si comincia a uccidere davvero. Un criminologo a Napoli poi una guardia carceraria a Torino.

Il corpo del giudice Emilio Alessandrini, crivellato di colpi
Anche per Pl l’attacco ora è al cuore dello stato. I magistrati sono in testa alla lista. Segio e gli altri del comando ne scelgono uno che nessuno si aspetta. Emilio Alessandrini, non solo è un magistrato democratico, ma è quello che ha scopero la pista nera per piazza Fontana e ha smascherato i depistaggi di stato. Ora però indaga sui rossi e, in una logica folle, i magistrati democratici sono più pericolosi, perché rendono accettabile la macchina repressiva.
Segio, in quanto capo, si assume il compito di ucciderlo, assieme a Marco, figlio di un ministro e leader Dc.
Il piano è di sparargli mentre accompagna il figlio a scuola. Marco si oppone, davanti ai bambini no. Allora gli sparano mentre è in auto, fermo a un semaforo. Prima Segio poi Marco. Spesso i piellini sparano in due, per dividersi le responsabilità. Altri due, che sono di copertura, lanciano un fumogeno per coprire la fuga. Uccidere quel giudice a molti militanti appare un assurdo, ci sono discussioni, critiche, ma ormai non c’è spazio per i dubbi. Il vertice di Pl coincide col vertice del gruppo di fuoco.
A Torino Barbara e Matteo sono in un bar, debbono sparare a uno del Pci. Arriva una pattuglia, inizia una sparatoria e i due giovani restano a terra uccisi, nonostante i giubbotti antiproiettile. Barbara, anche lei bolognese, è la compagna di Maurice, che è diventato il capo a Torino. Lui vuole la vendetta. Una settimana dopo tendono un agguato a una pattuglia del 113, altra sparatoria, gli agenti sfuggono, ma a terra resta un ragazzo di vent’anni che passava di lì, centrato da una raffica di kalasnikov. Anche Bruno resta ferito, lo ha colpito per sbaglio una donna del commando. Gli altri sequestrano un taxi e lo portano via.
Da Milano arrivano Segio e Marco, lo mettono su un furgone, una staffetta davanti e un auto piena di gente armata di scorta, lo portano a Milano, da un medico amico.
Il legame seppur distorto con la conflittualità sociale è ormai sparito, è solo guerra criminale.
I milanesi criticano i torinesi, ormai capaci solo di sparare. Ma il kala lo ha fornito Segio, che se lo è fatto prestare dai Cocori. Ed è una critica strana, perché loro a Milano, per vendicare i due compagni uccisi, progettano di annientare la scorta del procuratore Gresti. Anche Pl vuole la sua via Fani. In cinque, comandati da Segio, quattro son gli stessi di Alessandrini, armati fino ai denti, anche bombe a mano, aspettano sotto casa il magistrato, ma non arriva e l’agguato sfuma.
Ma la sete di vendetta non è soddisfatta. Cinque mesi dopo Maurice e altri quattro uccidono il proprietario del bar, dove sono morti i compagni, accusato di aver chiamato lui la polizia. Non era stato lui, non solo, nel frattempo aveva venduto il bar. Non si sono neppure accertati che quello che andavano ad uccidere era un altro.
Dentro Pl c’è ormai un confronto aperto, prevalgono i militaristi e a settembre Segio, in disaccordo, lascia il comando nazionale. <La logica delle armi non solo ci ha preso la mano, ma anche il cuore e la testa…. nell’avvitamento di una guerra che ha smarrito le sue ragioni. La militanza si è sempre più disumanizzata… come tori furenti ci eravamo stupidamente cacciati al galoppo in questo tunnel senza sbocchi>. Marco e anche altri abbandonano Pl.
Sono i segni di una crisi ormai irreversibile, che esploderà appena farà la comparsa il primo pentito. Ma c’è ancora tempo per altro sangue. Altre ossa spezzate, carni lacerate, vene che schizzano. Ma questa volta è ancora più assurdo ed efferato di altre.
E’ un’operazione in grande, in dodici si presentano alla Scuola di formazione aziendale della Fiat, a Torino. Ci sono molti capi: Segio ovviamente, Maurice, Susanna, Robertino, Fabrizio e anche Michele, che capo non è, ma è uno affidabile quando c’è da sparare.
I primi, vestiti da giovani manager, valigetta 24ore, entrano e bloccano le porte. Arrivano gli altri e rastrellano studenti e professori, li radunano in un’aula, sono un centinaio. Una ragazza tiene un comizietto. Poi ne scelgono dieci, a caso, li portano nel corridoio, li mettono contro il muro e aprono il fuoco, falciando le gambe. E’ una scena da macelleria sudamericana.
Tra i capi Segio è quello forse più lucido, ormai ha capito che il tunnel non ha uscita, che d’ora in poi ci saranno solo defezioni, tradimenti, galera e qualche morto. Ma sono tutti rinchiusi dentro una bolla di piombo. E’ più facile continuare a tirare il grilletto che riconoscere la sconfitta e arrendersi.
Il fantasma che fa paura e inietta di sangue il cervello si chiama pentiti. Le Br ne hanno già avuto uno, che ne ha fatti arrestare un bel po’.
A Milano la polizia ha fermato un ragazzo, si chiama William, è uno che frequenta il giro di Pl. Ultimamente la polizia usa la mano pesante negli interrogatori, poi si arriverà anche alla tortura. William non è un guerriero, probabilmente non ha mai preso in mano una pistola e racconta un po’ di cose. Poca roba, che non porterà a nessun arresto.
Ma può essere l’inizio della frana. La delirante idea è sempre quella: per risolvere un problema politico basta diventare più spietati. Il compito di ucciderlo se lo prende il comando, Segio compreso. Il poveretto non ha neanche capito in che guaio si è cacciato. Esce di casa tranquillo. Solo quando vede arrivare i capi, una donna e due uomini, capisce e cerca di scappare, ma è tardi. Gli sparano tutti e tre.
Quando si arriva ad uccidere un compagno, solo perché ha avuto paura, significa che i sogni son diventati incubi, che la polvere da sparo ha intossicato non solo il cervello, ma anche il cuore.
E uccidendo il problema non si risolve, infatti c’è già un altro, che di cose invece ne sa tante, che sta parlando.
E’ rimasta solo la prima linea, dietro non c’è più nessuno. Ma per uccidere basta.
C’è un giudice che ha portato in galera il grosso delle Fcc. Anche lui è uno dell’ala più progressista della magistratura. Una mattina di marzo va a tenere la sua lezione all’università. Arrivano i bicicletta i suoi assassini: Segio, Maurice, Michele. Guido Galli esce dall’aula, gli sparano prima alla schiena poi due colpi alla nuca. E’ arrivata prima Pl, perchè anche i Reparti comunisti d’attacco lo pedinavano per ucciderlo.
In estate, sempre loro tre vanno in trasferta fino a Viterbo per una rapina in banca. Rapina facile, come al solito. Stanno aspettando l’autobus per tornare a Roma. Maurice si è messo anche una macchina fotografica al collo, per sembrare un turista. Una pattuglia di carabinieri chiede i documenti. Loro sparano, i militari anche, ma hanno avuto la sfortuna di incontrare tre che con le armi sono dei professionisti. Due carabinieri restano sull’asfalto. Ma Michele ha una gamba spezzata. Se lo caricano in spalla, prendono l’auto di uno che fa benzina. Fuggono in campagna, entrano in un casolare, sequestrano le persone che lo abitano. A notte fonda tornano a Roma.
E’ l’ultima azione per Segio. Ha deciso, la guerra è persa ed esce da Pl. <Sono uscito per spezzare la spirale impazzita. PL era ormai divisa, smarrita, senza alcuna prospettiva>. Ma nessuno lo segue, neppure Susanna. <L’assalto al cielo è fallito – le dissi – vieni via>. Ma lei ancora ci crede e resta. Non solo, incredibilmente c’è ancora qualche ragazzino che chiede di entrare.
Michele invece lo arrestano poco dopo e anche lui comincia a parlare.
Nel giro di poco vengono arrestati in 160, compresa Susanna. Pl è finita. Ma ancora non tutti si arrendono, c’è chi bussa alla porta delle Br. E chi mette in piedi un nuovo gruppo.
Segio è uno dei pochi che si salva. Essendo ormai solo, nessuno sa dove abita. Ora però è uno dei due o tre più ricercati d’Italia.
<Avevamo respirato un’aria pura e inebriante, per un attimo ci è sembrato di toccare il cielo con un dito… il sogno ora è finito per sempre>. Ma nella sua testa la guerra non è finita del tutto.
Alcuni sono andati all’estero. Ma lui non è disposto ad abbandonare la lotta. <Si deve andare fino in fondo pagando quel che bisogna pagare al sogno coltivato>
C’è una cosa che resta da fare, liberare i compagni: <Perchè quelle vite era tutto ciò che rimaneva del sogno della rivoluzione>. Liberarli anche dal rischio di essere scannati dai brigatisti. Nelle carceri ormai c’è una resa dei conti cannibalesca nei confronti di quelli che si dissociano, come tanti piellini.
Ma soprattutto c’è da liberare Susanna. <Ormai la sua liberazione era l’unica cosa che dava significato alla mia esistenza>.
Segio è solo, si nasconde a Venezia. Poi raduna tre compagni fidati. Uno è Diego, un piellino della prima ora, che è appena evaso. Il progetto è solo la liberazione di Susanna e poi degli altri, nessuna idea politica.
Si ricomincia con le rapine, perché ci vogliono soldi per stare clandestini e preparare le evasioni.
Un giorno suonano all’appartamento di un gioielliere. Due restano con la famiglia e due lo prelevano e lo portano al negozio. Svuotano la cassaforte, 200 milioni.
Tutte le domeniche Segio va a Rovigo a studiare il carcere, la zona attorno, le vie di fuga. Prepara il piano per mesi in ogni dettaglio. Assaltare un carcere forse è impossibile, di sicuro molto rischioso. <Ma le cose pericolose mi hanno sempre attirato>
La lotta armata non cambia le cose, abbiamo perso la nostra umanità. Segio se lo ripete da un anno, ma la coazione ad uccidere è ancora troppo forte. In settembre loro quattro vanno ad uccidere un capo delle guardie di S.Vittore, perché quelli in galera dicono che è un aguzzino. Segio non spara, ma è un altro morto e non sarà neanche l’ultimo.

Il foro nel muro di cinta del carcere di Rovigo, provocato da 20 kg di tritolo. L’autobomba è sprofondata nel terreno tanto violenta è stata l’esplosione
Il piano per l’evasione è ormai pronto. Segio riesce a farlo arrivare a Susanna, scritto su carta velina e incollato dentro la copertina di un libro. Ma in quattro sono pochi per un’azione militare di quel tipo. Allora Segio chiede alle Br di dargli una mano. Organizza un paio di incontri in ristoranti di lusso, per scandalizzarli, loro che vivono al minimo della sopravvivenza. Ma le Br rifiutano, gli prestano però un paio di mitragliatori e un fucile a pompa.
Allora si rivolge ai Colp, un gruppo nato da poco, che raccoglie quel che resta di Pl, che accetta.
Nel frattempo le Br hanno sequestrato Dozier, proprio in Veneto, questo può complicare le cose.
La mattina del 3 gennaio, domenica, arrivano a Rovigo in otto, c’è anche Giulia, tra le fondatrici di Pl, una esperta. Distribuiscono un certo numero di auto in vari punti poi raggiungono il carcere. L’assalto è previsto alla fine dell’ora d’aria. Una canzone di Gianna Nannini viene dall’interno. E’ il segnale convenuto, significa che tutto è ok.
Gli otto sono armati fino ai denti, un mitra e due pistole più un paio di bombe a testa e giubbotti antiproiettile.
In cinque bloccano le strade attorno, gridano alla gente di allontanarsi. Segio, coi capelli biondi tinti di nero con un tappo bruciacchiato, spara contro la garitta, le guardie rispondo al fuoco, ma lo scopo è che se ne stiano dentro e così è. Un altro arriva con una A112 e la parcheggia rasente il muro di cinta. Sul sedile posteriore ci sono 20 chili di tritolo, dentro ad una scatola di metallo, aperta da un lato, quello appoggiato contro il finestrino destro abbassato e di fatto contro il muro. Serve a direzionare l’esplosione. Diceva James Coburn, in “Giù la testa”: <Quando ho cominciato a usare la dinamite credevo in tante cose, poi ho finito per credere solo alla dinamite>.
Il giovane accende la miccia e scende. Una miccia corta, solo 12 secondi. Bisogna fare in fretta. L’auto esplode, un botto violentissimo, vanno in frantumi i vetri di tutto il vicinato. Una nube di polvere e di fumo nero, cancella tutto. Ma Segio sa a memoria quanti passi lo separano dal muro. Corre sui vetri e sui calcinacci, mentre Diego gli copre le spalle. Arriva al muro, c’è un foro di un metro e mezzo, il corso dell’Eta è stato utile.
Entra nel cortile e quattro detenute, tra cui Susanna, gli corrono incontro. Da una finestra sparano, lui risponde al fuoco, ma un proiettile perfora il tallone di una fuggitiva. Debbono trascinarla. Le mettono un laccio emostatico, ne hanno sempre con loro. Escono e raggiungono le auto, poi fanno il cambio e via per stradine di campagna. Non dovevano esserci morti questa volta, ma un pensionato uscito col cane, di cui nessuno si è accorto, è stato spazzato via dall’esplosione.
L’imprendibile Segio ha liberato la sua donna, per lo stato è un duro colpo.
Vengono tutti riarrestati entro l’anno. Uno del commando muore durante una rapina, Giulia è ferita e catturata. L’unico che ancora sfugge è Segio.
Che ancora non si arrende. Vuole organizzare una grossa evasione. Questa volta le Br collaborano. Obiettivo il carcere speciale di Fossombrone. Nel piano c’è anche l’attacco a una caserma dei carabinieri. In 25 sono già pronti. Ma davanti al carcere compare un autoblindo. Qualche informazione è filtrata e il progetto viene abbandonato.
La mattina del 15 gennaio 83, deve incontrarsi con una brigatista in centro a Milano. Va disarmato. Gli saltano addosso in sei. La corsa è finita.
In carcere si sposa con Susanna. E’ condannato all’ergastolo, ridotto a 30 anni, ne ha scontati 22. Si impegna per metter fine alla lotta armata, invitando gli ex-compagni a dissociarsi. Nell’83, assieme ad altri Pl, dichiara finita la lotta armata. E fa in modo che le armi residue vengano consegnate al cardinal Martini.
g.g.
** Le parti in corsivo sono tratte dall’autobiografia di Segio, “Miccia corta”.
In carcere Segio si è battuto per i diritti dei carcerati. Ha collaborato con don Ciotti. Per il Gruppo Abele ha fondato la prima rivista contro le mafie, Narcomafie. È ideatore e curatore del Rapporto sui diritti globali. Ha scritto due libri, diversi saggi e articoli, collabora ad associazioni nel campo dei diritti umani. E’ stato direttore della Fondazione Carcere e Lavoro promossa dalla Caritas. Per le sue attività, nel 2003, gli è stato conferito il Premio Internazionale all’Impegno Sociale “Rosario Livatino”. Dal 2015 dirige il magazine internazionale Global Rights
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