Tra le anime che Dante incontra nell’aldilà non possono mancare i suoi maestri,  grazie ai quali è divenuto il grande poeta che conosciamo. Ma dove sono? Dante non è tenero con loro: due li mette all’ Inferno, uno in Purgatorio.

Brunetto Latini è stato uno dei più grandi intellettuali della Firenze del Duecento. Come Dante,  aveva messo il suo ingegno e la sua cultura al servizio della politica e aveva ricoperto importanti incarichi per il comune di Firenze, fra i quali una missione diplomatica in Francia  che gli aveva consentito di approfondire la cultura e la letteratura romanza. Proprio in lingua d’oÏl, il francese antico, aveva scritto la sua opera principale,  il Trésor, vasta enciclopedia che spaziava dalla fisica alla politica. Per la cultura medioevale, infatti, tutto il sapere poteva essere riassunto in pochi libri. Siamo ben lontani dalla specializzazione di oggi!

Dante, molto più giovane, apprezzava e voleva bene a Brunetto e lo definisce, al verso 97 del XV canto dell’Inferno “ mio maestro”. Eppure con lui è implacabile. Lo troviamo infatti nel terzo girone del settimo cerchio. Qui sono puniti gli omosessuali, considerati dalla teologia dell’epoca violenti contro la natura, figlia di Dio. Il paesaggio è un deserto di sabbia infuocata, sul quale cadono falde di fuoco. I poveri dannati, nudi e bruciacchiati, sono costretti a camminare incessantemente lungo il cerchio, raggruppati in schiere.

Inferno XV , 22-45

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

E io, quando ‘l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ‘l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio ‘ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ‘n dietro e lascia andar la traccia».

I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’ anni
sanz’ arrostarsi quando ‘l foco il feggia.

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ‘l capo chino
tenea com’ uom che reverente vada.

Improvvisamente uno di loro lancia un grido. Il suo viso bruciato (anzi, cotto ) non impedisce a Dante di riconoscerlo. L’espressione siete voi qui, esprime tutto il suo angoscioso stupore: come può un uomo di tale cultura e dignità essere in una condizione così vergognosa e deplorevole? L’antico affetto riaffiora e Brunetto (ser era il titolo riservato ai notai) lo chiama figliolo. Dante non è da meno: vorrebbe sedersi un po’ con lui a riprendere quella conversazione che la morte ha interrotto. Ma Brunetto non si può fermare: se lo facesse dovrebbe stare cent’anni sdraiato senza potersi difendere quando il fuoco lo colpisce. Possono solo camminare un po’ insieme, come avranno fatto tante volte, conversando, per le vie di Firenze, prima che il dannato si ricongiunga alla sua masnada, A sua volta Dante non si azzarda a scendere dall’argine, perché sarebbe anche lui colpito dal fuoco eterno, e procede più in alto rispetto al suo vecchio maestro (allegoricamente ciò significa anche che ormai lo ha superato), ma col capo chino, come un uomo in atteggiamento riverente.

Questa è la grandezza della poesia di Dante: il peccato non annienta l’uomo, Brunetto si sarà anche macchiato di un peccato infamante, ma la terribile pena non cancella ciò che è stato: un grande maestro a cui è dovuto rispetto e riverenza.  Brunetto chiede a Dante come sia finito lì e dopo la sua risposta prosegue, mettendolo di fronte alla seconda profezia sul suo destino di esiliato.

Inferno XV, 55-66

Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Se Dante seguirà il suo destino, scritto nelle stelle (per gli uomini del Medioevo l’astrologia era una scienza!), non potrà non raggiungere la gloria. Brunetto, da buon maestro, aveva riconosciuto le grandi qualità del suo allievo e avrebbe voluto sostenerlo ed aiutarlo ancora. Ma il popolo di Firenze, anzi la parte di esso che è sceso dalla montagna (Fiesole), gli si farà nemico proprio per il suo giusto operare. La metafora dura e ironica che segue non lascia speranze: il dolce fico (Dante ,” valoroso, di gentile animo e di grande eccellenza” come afferma Boccaccio) non può produrre i suoi frutti in mezzo  ai sorbi aspri (“uomini rozi, duri,  ingrati e di malvagia condizione” sempre a sentire Boccaccio). L’esilio è alle porte e Dante non potrà che serbare la profezia di Brunetto e aspettare il futuro con coraggio.