Asor Rosa definisce Cavino “ un classico di inusitata e straordinaria ricchezza”. Un autore capace di  scendere in profondità, dialogando con il passato. E’ uno scrittore in grado  di sperimentare generi completamente diversi: dai suoi primi romanzi, che richiamano ancora per certi aspetti il Neorealismo, al racconto filosofico della Trilogia degli Antenati, ai romanzi che riflettono il suo interesse per la scienza.

“Le città invisibili” , pubblicato nel 1972, appartiene alla fase della “ letteratura combinatoria”, una letteratura che non si propone di descrivere la realtà, ma che ritiene che la creazione fantastica debba essere imbrigliata dal rispetto di regole formali. E’ un libro che propone al lettore una struttura insolita: brevi capitoli, ognuno con un nome di donna , scritti, come afferma lo stesso Calvino, seguendo le idee che gli girano per la testa. Ognuno di essi dovrebbe offrire uno spunto di riflessione.
Ma un libro “è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi..” quindi anche un libro come questo, apparentemente più simile a un libro di poesie ” deve avere un intreccio, un itinerario, una soluzione “.

Ecco quindi la necessità di una ” cornice” ( come le “Mille e una notte” , il “Decamerone” …):  il libro si presenta infatti  come una serie di relazioni che Marco Polo fa a Kublai Kan  imperatore dei Tartari. Si ispira  quindi dichiaratamente al “Milione ” di Marco Polo. Ma se l’autore del Milione ribadisce continuamente la veridicità delle cose che ci racconta , il Polo di Calvino racconta di città fantastiche  e “impossibili”.
Il perchè lo spiega lo stesso Calvino : se ai tempi di Polo aveva senso descrivere “l’altrove”, che il lettore del Duecento non conosceva, oggi, in un mondo globalizzato e uniforme, “l’altrove” non esiste più, se non nell’immaginazione, nella fantasia. Il libro è suddiviso in capitoli, preceduti e seguiti da riflessioni e  commenti  di Marco Polo e Kublai. Ogni capitolo è composto dalla descrizione di città (il numero varia), classificate secondo un criterio che si ripete di capitolo in capitolo  ( Le città e i morti, Le città sottili, Le città e il cielo).
Il libro permette quindi anche una lettura per percorsi, perchè il lettore, appunto, giri e si perda, tenendo però in mano un filo che lo guidi. Un percorso possibile e particolarmente affascinante è quello de Le città e i segni.

Tamara (cap. 1)

L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inferno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono. Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai muri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito – entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello.
Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti. Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo.
Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…

L’incanto della prosa di Calvino ci porta in un luogo fantastico, fuori da un tempo e da uno spazio precisi, ma fitto di richiami a tempi e spazi che il nostro immaginario conosce bene: le insegne che sporgono dai muri mi ricordano quelle delle città medievali, soprattutto tedesche; la scuola pitagorica e i templi con le statue degli dei rimandano all’epoca classica; i volumi di Averroè e  le bende ricamate per la fronte all’Oriente .

Quando il libro uscì, nel 1972, queste associazioni, che rappresentano perfettamente il concetto di Postmoderno, lasciavano stupiti. Si può dire che Calvino sia stato un profeta: chi conosce (anche superficialmente come me) le scenografie del Trono di Spade non può non ritrovare lo stesso mix di tempi e luoghi diversi. Ma il capitolo contiene anche una profonda riflessione sul modo in cui noi uomini affrontiamo la realtà che ci circonda.
La città ci rassicura, perché è uno spazio creato da noi, che crediamo di poter conoscere interpretando i segni che individuiamo  appena entriamo nel suo spazio. Non così la natura che la circonda. Ma noi non facciamo che cercare segni che rassicurino, che ci aiutino a decifrare e, quindi, che ci diano l’illusione di avere sotto controllo la realtà che ci sta intorno, anche quando questi segni sono frutto della nostra immaginazione che vuole umanizzare anche le nuvole del cielo.

Zoe (cap. 2)

L’uomo che viaggia e non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reggia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni città dell’impero ogni edificio è differente e disposto in un diverso ordine: ma appena il forestiero arriva alla città sconosciuta e getta lo sguardo in mezzo a quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di canali orti immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi dei grandi sacerdoti, la locanda, la prigione, la suburra. Così – dice qualcuno – si conferma l’ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono. Non così a Zoe.
In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d’oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli. Qualsiasi tetto a piramide potrebbe coprire tanto il lazzaretto dei lebbrosi quanto le terme delle odalische.
Il viaggiatore gira gira e non ha che dubbi: non riuscendo a distinguere i punti della città, anche i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescolano. Ne inferisce questo: se l’esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città di Zoe è il luogo dell’esistenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale linea separa il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall’ululo dei lupi?

Cosa succede quando dobbiamo affrontare una realtà, fisica o psicologica non importa, per noi nuova e sconosciuta? Cerchiamo di ricondurla agli schemi mentali che ci portiamo dietro, che derivano dalle nostre esperienze e che ci rassicurano. Ma schematizzare, classificare, significa rilevare le differenze fra i vari oggetti ai quali cerchiamo di fare corrispondere la mappa della nostra mente.
Di fronte ad una realtà come quella di Zoe, indistinta, che non risponde agli schemi umani, anche la nostra mappa mentale si dissolve. E la città, lo spazio dell’umano, diventa simile alla natura, che l’uomo non conosce e non controlla.

Ipazia (cap.3)

 Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire cose belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi di alghe.
Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra .Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico di alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti.
Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa di oppio. Dov’è il sapiente? – il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere- . Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia .Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.
E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe ; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe .Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.

Si rimane incantati dalla raffinatezza delle immagini  che ci accolgono ad Ipazia. Ma l’intento di Calvino non è soltanto descrivere,  ma anche farci riflettere. Anche ad Ipazia, come a Zoe, la realtà non corrisponde allo schema mentale con la quale la affrontiamo.
E non sono i libri (raccolti in una fatiscente  biblioteca che ricorda un quadro di Escher ) a poterci aiutare. Per orientarci occorre ritornare bambini, affrontare la realtà senza schemi predefiniti, costruire un nuovo linguaggio. Consapevoli però che ogni linguaggio è solo un tentativo di classificare le realtà, necessario ma non definitivo e, soprattutto, necessariamente ingannevole.

Olivia (cap.4)

Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si de ve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto. Se ti descrivo Olivia, città ricca di prodotti e guadagni, per significare la sua prosperità non ho altro mezzo che parlare di palazzi di filigrana con cuscini frangiati ai davanzali delle bifore; oltre la grata d’un patio una girandola di zampilli innaffia un prato dove un pavone bianco fa la ruota. Ma da questo discorso tu subito comprendi come Olivia è avvolta in una nuvola di fuliggine e d’unto che s’attacca alle pareti delle case; che nella ressa delle vie i rimorchi in manovra schiacciano i pedoni contro i muri.
Se devo dirti dell’operosità degli abitanti, parlo delle botteghe dei sellai odorose di cuoio, delle donne che cicalano intrecciando tappeti di rafia, dei canali pensili le cui cascate muovono le pale dei mulini: ma l’immagine che queste parole evocano nella tua coscienza illuminata è il gesto che accompagna il mandrino contro i denti della fresa ripetuto da migliaia di mani per migliaia di volte al tempo fissato per i turni di squadra.
Se devo spiegarti come lo spirito di Olivia tenda a una vita libera e a una civiltà sopraffina, ti parlerò di dame che navigano, cantando la notte su canoe illuminate tra le rive d’un verde estuario; ma è soltanto per ricordarti che nei sobborghi dove sbarcano ogni sera uomini e donne come file di sonnambuli, c’è sempre chi nel buio scoppia a ridere, dà la stura agli scherzi e ai sarcasmi.
Questo forse non sai: che per dire d’Olivia non potrai tenere altro discorso. Se ci fosse un’Olivia davvero di bifore e pavoni, di sellai e tessitori di tappeti e canoe e estuari, sarebbe un misero buco nero di mosche, e per descrivertelo dovrei fare ricorso alle metafore della fuliggine, dello stridere di ruote, dei gesti ripetuti, dei sarcasmi. La menzogna non è nel discorso, è nelle cose.

Olivia, come Ipazia, non è ciò che appare. Ma se per cercare di capire Ipazia bisogna liberarsi da pregiudizi e imparare un linguaggio nuovo, ad Olivia questo non è più sufficiente. Dietro la bellezza di Olivia, con i suoi meravigliosi edifici che ricordano Venezia e le città più affascinanti dell’ Oriente, c’è la sofferenza di chi l’ha costruita e non ne può godere.
Olivia ci parla del nostro presente: della ricchezza e della bellezza degli oggetti che possediamo, dietro la quale c’è la condizione di milioni di persone, che, nel mondo, sono destinate ad una vita di schiavi per soddisfare i desideri della parte di umanità più fortunata, ci sono le discariche, l’inquinamento, l’incombente disastro climatico. Noi, che abbiamo la pancia piena, ci vantiamo della nostra “civiltà sopraffina” e disprezziamo “gli scherzi e i sarcasmi” di chi è condannato ad una vita di abbruttimento proprio per garantire il nostro benessere. L’inganno non è più solo nel linguaggio, stereotipato e poco aderente alla realtà, ma in una realtà fatta di rapporti di forza brutali, che la narrazione prevalente nasconde.

Come si conclude un libro così? Calvino stesso dice che il libro deve avere “una soluzione”, una conclusione. Eccola:

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni : Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta , ci risucchia la corrente. E Polo: “ L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno , è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne . Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa. In mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.

Difficile aggiungere qualcosa: la funzione della cultura è questa e non credo che si possa dire meglio. E’ giusto però ricordare che lo stesso Calvino ci invita a non considerare necessariamente queste ultime righe come “la morale della favola”. Rispettando il gioco combinatorio, l’autore afferma “è un libro fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti  i suoi spigoli…” Al lettore ,quindi, il compito non solo di scegliere un percorso, ma anche una conclusione.