Nell’ undicesimo canto del Paradiso Dante racconta la storia di San Francesco. O meglio la fa raccontare da San Tommaso d’Aquino, uno degli spiriti sapienti che incontra nel cielo del Sole.  San Tommaso, domenicano,  è il teologo principale del Medioevo, alla cui dottrina è conforme anche la Divina Commedia.

Ma il San Francesco che emerge dai versi della Divina commedia è un po’ diverso dalla figura del mite poverello di Assisi, quasi ecologista ante litteram, che grazie al ciclo pittorico di Giotto nella basilica  di Assisi o a film come Fratello sole e sorella luna di Zeffirelli, si è imposta nell’immaginario comune. Per Dante San Francesco è un magnanimo, un rivoluzionario che, con la scelta di una vita di estrema povertà, contesta la chiesa della sua epoca, ricca e spesso corrotta, bersaglio delle critiche dei movimenti ereticali che si erano affermati soprattutto nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale  (Catari, Valdesi, Dolciniani). Le sue fonti sono  autorevolissime: Tommaso da Celano (francescano che aveva conosciuto personalmente Francesco); Bonaventura da Bagnoregio, anch’esso francescano, dottissimo studioso di rinomanza europea, ministro generale dell’ordine; Ubertino da Casale, predicatore e teologo francescano, appartenente alla corrente degli spirituali, che sostenevano il rigoroso rispetto della regola della povertà.

Dante/Tommaso comincia la narrazione  della vita del Santo  con la scelta clamorosa di rinunciare alla vita agiata e protetta a cui la famiglia, appartenente alla ricca borghesia mercantile di Assisi, lo avrebbe destinato.

( Paradiso , canto XI, vv. 55-75)

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;

né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.

Francesco, ancora giovane (l’orto è un latinismo per indicare l’Oriente, cioè il momento della nascita, ma è San Tommaso che sta parlando, quindi non bisogna meravigliarsi se il linguaggio è alto e forbito) fa sentire al mondo la sua forza spirituale. E, per amore di una donna che nessuno accoglie volentieri (come accade con la morte), si ribella al padre e nel 1207, quando non ha ancora compiuto venticinque anni, la sposa davanti alla Curia episcopale . (Quel coram patrem, che il professor d’Aquino non si dilunga a tradurre, può voler dire sia in presenza del padre sia al cospetto del vescovo, ma poco importa.)

E’ un atto notarile con il quale Francesco, per questa donna, rinuncia all’eredità e a tutti i beni materiali, abiti compresi. L’amore tra i due cresce di giorno in giorno. Ma chi è questa donna che, vedova del primo marito, è rimasta sola per più di mille e cento anni, nonostante avesse tutelato Amiclate  (povero pescatore dell’Epiro che, non avendo nulla da perdere accolse con tranquillità  nella sua povera capanna un Giulio Cesare smanioso e  urlante)  e fosse salita, fieramente fedele, sulla croce con Gesù, mentre la Madonna era rimasta ai piedi del patibolo? Finalmente, dopo parecchi versi, il suo nome viene svelato: la sposa tanto amata è la Povertà.

( Paradiso , canto XI, vv. 76-93)

La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;

tanto che ‘l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.

Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro

Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.

Francesco e Povertà sono rappresentati come due innamorati, talmente felici da attirare un gran numero di seguaci. I francescani diventano rapidamente una grande famiglia. E Francesco non esita, nonostante sia solo il figlio di un mercante (Pietro Bernardone) e abbia un aspetto talmente trasandato da indurre la gente a meravigliarsi, a presentarsi, nel 1210, davanti al papa (Innocenzo III) per ottenere un riconoscimento della sua dura regola di vita. (religione). Sembra di vedere la scena: un povero frate con un saio logoro e sporco, legato in vita da un pezzo di corda di fronte a un  papa di nobili natali, coltissimo sostenitore della teocrazia, che pretende di avere l’ultima parola anche sull’elezione dell’imperatore, che promuove crociate dettando la sua volantà ai sovrani d’Europa, ammantato da preziosi paramenti sacri. Eppure l’avverbio regalmente Dante lo attribuisce a Francesco, non ad Innocenzo. Francesco non è intimorito anzi si presenta come   un magnanimo principe, che detta le sue condizioni ponendosi sullo stesso piano del potentissimo papa

(Paradiso , canto XI, vv. 106-117)

(…) nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.

I seguaci di Francesco sono ormai una folla. L’ordine riceve una seconda e più formale approvazione nel 1223, da  Onorio. Poi Francesco, dopo aver tentato inutilmente, recandosi con dodici confratelli in Terrasanta, di convertire al cristianesimo il sultano d’Egitto, riceve direttamente da Cristo l’ultimo sigillo (l’ultima approvazione alla sua regola): le stimmate, nel 1224. Dopo aver trascorso gli ultimi due anni nell’eremo della Verna, costruito sulla brulla roccia tra la valle del Tevere e quella dell’Arno, ormai prossimo a ricevere da Dio il compenso (mercede) che aveva meritato col la sua scelta di vita di estrema umiltà e povertà, raccomanda  ai suoi frati di amare come aveva fatto lui la sua donna (la povertà). E in grembo alla sua amata ritorna al regno del Padre. E muore nudo, malato e piagato dalle stimmate,  sdraiato sulla nuda terra, rifiutando ogni conforto materiale.

Il San Francesco di Dante è un magnanimo, che trasforma la scelta della più rigorosa umiltà in  generosità, magnificenza, coraggio,  un eroe che sembra tratto da una chanson de geste , un principe e un eroico condottiero della fede.

Le sue indicazioni vennero però  ben presto disattese: l’ordine diventò in breve tempo potentissimo e ricchissimo, anche se non mancarono al sue intero lotte sanguinose tra i conventuali ( che intendevano la povertà assoluta impegnativa per i singoli, ma non per l’ordine )  e  gli spirituali ( che volevano vivere la regola del santo senza compromessi). Non è difficile immaginare quale parte abbia prevalso: basta visitare la basilica di  Assisi, costruita ed affrescata dai migliori artisti dell’epoca, che rappresenta un’evidente deroga alla  scelta della rigorosa povertà sulla quale Francesco aveva fondato il suo ordine.