Il Satyricon è uno dei due romanzi della letteratura latina che ci sono pervenuti. Chi lo ha scritto? Normalmente lo si attribuisce a Petronio, un raffinato intellettuale dell’entourage di Nerone. Appartenente all’aristocrazia senatoria, dopo essere stato un uomo politico di una qualche rilevanza, diventò l’ arbiter elegantiae della corte, al punto che, dice Tacito, il principe, in fatto di gusto, si rifaceva completamente al suo giudizio.
Ciò non impedì che, accusato di essere uno dei promotori della congiura dei Pisoni (accusa che costò la vita anche a Seneca) scegliesse di suicidarsi. Ma lo fece a modo suo, durante un banchetto, facendosi recitare poesie scherzose, ricordando nel testamento le perversioni sessuali di Nerone (cosa che nessuno faceva per timore di ritorsioni nei confronti della famiglia). Insomma un tipo anticonformista e irriverente, così come lo è la sua opera.
Qual è infatti la grande novità del Satyricon? Rappresentare in modo realistico e senza un giudizio esplicito il mondo dei liberti, che Petronio definisce populus, facendoli parlare con la loro lingua e manifestare la propria visione della vita e i propri valori, che sono sostanzialmente la celebrazione della ricchezza e del denaro. Lontanissimi dalle virtù del cittadino romano celebrate nella letteratura e nella storia.
Va detto che non si tratta di un romanzo come quelli a cui siamo abituati è piuttosto un insieme di generi preesistenti: il romanzo d’amore di origine greca, la satira, tipicamente latina, la fabula mylesia, sempre di origine greca, che tratta realisticamente temi erotici, la parodia dei generi alti, il racconto folklorico.
Alcune parti mancano, ma la trama è fondamentalmente questa: Encolpio, un giovane di buona famiglia, studente colto ma squattrinato, va all’avventura con il suo giovane amante Gitone e con l’amico Ascilto. Il povero Encolpio è perseguitato da Priapo, divinità fallica, come Ulisse lo è da Poseidone ed Enea da Giunone. I tre amici, in una città che potrebbe essere Napoli o Pozzuoli, vengono inizialmente sottoposti da una sacerdotessa di Priapo ad ogni tipo di sevizia sessuale. Riescono a fuggire e a farsi invitare a cena da un ricchissimo liberto, Trimalchione, tanto ricco quanto rozzo e volgare, che rappresenta quella classe di nuovi ricchi venuti dal nulla, che gradualmente si stanno sostituendo alla classe dirigente senatoria ed equestre, ma che testimoniano, con la loro presenza, che la società romana è aperta e dinamica.
La cena di Trimalchione è la sequenza più celebre del romanzo: gli ospiti, tutti liberti (ex schiavi liberati) ma non tutti ricchi come il padrone di casa, chiaccherano del più e del meno, ammirano la presentazione sfarzosa dei cibi, gli incredibili stratagemmi ideati per sorprenderli , gli oggetti preziosi e i gioielli del padrone di casa e della moglie, si raccontano ed esprimono una concezione della vita totalmente materialistica, che il raffinato narratore non condanna mai esplicitamente.
Come esempio ecco la descrizione di una delle tante portate del banchetto< …fuori dal triclinio si alzò un gran clamore, e dei cani da caccia cominciarono a correre intorno alla mensa. Seguì un vassoio , sul quale c’era un cinghiale enorme, con un berretto in testa, appesi alle zanne due cestini intrecciati con foglie di palma , uno pieno di datteri freschi, l’altro di datteri secchi. Intorno al cinghiale maialini fatti con pasta croccante, che, quasi attaccati alle mammelle, facevano capire che era una scrofa. Anche questi vennero regalati agli ospiti, come ricordo. A servire il cinghiale non venne quel Carpo che aveva tagliato i polli, ma un omone con la barba , con le gambe fasciate e un mantello multicolore. Impugnato un coltello da caccia, squarciò violentemente il fianco del cinghiale, dal quale uscì un volo di tordi. Gli uccellatori erano già pronti e li catturarono mentre volavano per la sala da pranzo. Poi dopo aver ordinato che a tutti i commensali venisse portato un uccello, Trimalchione disse” Vedete che ghiande selvatiche mangiava questo porco!>
Sfarzo, volontà di stupire i commensali, generosità eccessiva del padrone di casa ne sottolineano l’immensa ricchezza e la mancanza di buon gusto.
La cena culmina con la lettura del testamento di Trimalchione, parodia del testamento degli uomini illustri e virtuosi protagonisti della tradizione romana, col quale il ricchissimo liberto dà disposizioni per la sua tomba all’amico Albina. Il testamento riassume pienamente il suo modo di vedere la vita. <Vorrei che ai piedi della mia statua rappresentassi la mia cagnetta, corone, vasi di profumo, (…)così che io possa sentirmi vivo anche dopo la morte. Ti chiedo anche che ci siano cento piedi di terreno davanti e duecento verso la campagna. Voglio ogni genere di alberi da frutta intorno alle mie ceneri e viti in abbondanza. E’ infatti del tutto assurdo avere da vivi case ultra confortevoli e lussuose e trascurare l’abitazione nella quale dovremo vivere più a lungo. (…)Prima di tutto sulla tomba deve esserci scritto: “questo monumento non fa parte dell’eredità…”. Poi farò in modo che non mi si possa offendere da morto. Metterò di guardia uno dei miei liberti, perché il popolo non corra a cagarci sopra.
Poi ti prego di scolpire anche delle navi con le vele rigonfie, e me stesso seduto in tribunale con la toga e cinque anelli d’oro che tiro fuori da un sacchetto delle monete da distribuire alla folla. (… )Se vuoi anche dei triclini e un bel po’ di gente che si diverte. Alla mia destra la statua della mia Fortunata (la moglie) che tiene in mano una colomba e la cagnetta al guinzaglio. … In mezzo al monumento un orologio, così che tutti quelli che guarderanno l’ora, anche se non vogliono, saranno costretti a leggere. Senti se questa iscrizione ti sembra adatta: “Qui giace Gaio Pompeo Trimalcione Mecenaziano. … Pio forte, fedele, venne su dal niente, ha lasciato trenta milioni di sesterzi e non ha mai ascoltato un filosofo. Salute”>.
Il resto del romanzo è un susseguirsi di avventure, intrecci amorosi, imbrogli.
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