Carlo Vecce, Il sorriso di Caterina, la madre di Leonardo.
<Nachue un mio nipote figliuolo di ser Piero mio figliuolo a dì 15 d’aprile in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Batezollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, Papino di Nanni Banti, Meo di Tonino, Piero di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigho di Giovanni Tedescho, monna Lisa di Domenicho di Brettone, monna Antonia di Giuliano, …>.
Così annota nel suo libro di ricordi Antonio, padre di ser Piero (il titolo ser allude nell’italiano rinascimentale alla professione notarile) e nonno di Lionardo, meglio conosciuto come Leonardo da Vinci, l’anno è il 1452. Ma chi è la madre? Carlo Vecce, docente all’Università di Napoli L’Orientale, uno dei massimi studiosi del Rinascimento e di Leonardo ipotizza che sia una schiava circassa, di nome Caterina. Lo stesso Vecce ha ritrovato, in un documento dell’Archivio di Stato di Firenze, l’attestato della sua liberazione. Guarda caso il notaio che ha stilato quel documento è Ser Piero Vinci, padre di Leonardo. Lo stesso di cui si parla nel ’certificato di nascita’ del piccolo Lionardo.
Qualcuno potrà obiettare (lo hanno già fatto ) che il collegamento è troppo debole. Che non si può considerare la scoperta di Vecce come un’acquisizione storica, come hanno fatto i media al momento della presentazione del romanzo (romanzo, e non articolo scientifico destinato ad una rivista specialistica). Chi leggerà il libro si farà una sua opinione, anche tenendo conto dell’ultimo capitolo in cui l’autore argomenta, a mio avviso in modo abbastanza convincente, la sua tesi.
Ciò detto, alla fine, che Caterina “filia Jacobi eius schiava seu serva de partibus Circassie”, figlia di un tal Jacob e proveniente dall’altopiano del Caucaso settentrionale abitato dai Circassi (oggi zona della Russia che si affaccia sul mar Nero), e proprietà della fiorentina Ginevra d’Antonio Redditi, sia o non sia la madre di Leonardo poco importa. Il romanzo è un grande affresco storico, in cui si susseguono come narratori personaggi intensi, ognuno dei quali è portatore di una storia appassionante e drammatica, sempre legata a Caterina: il principe circasso, la schiava russa, l’avventuriero toscano, il mercante veneziano, la mercantessa fiorentina, lo stesso Leonardo.
E’ davvero un magnifico affresco sull’epopea dei mercanti italiani del Rinascimento: le vicissitudini di Caterina permettono di descrivere un mondo di eroico di uomini (e donne) senza paura e senza scrupoli, che a partire dal ‘200 hanno creato in un’area vastissima (dal Caucaso all’Arabia, dalla Spagna a Costantinopoli) una rete di scambi commerciali e culturali, dominata da veneziani, genovesi, fiorentini, fra i quali molti ebrei, che permette alle merci, ma anche alle idee di muoversi con incredibile facilità. Una vera globalizzazione, nella quale i commerci non hanno quasi più bisogno di denaro contante: sono sufficienti lettere di credito ( antesignane dei nostri assegni). Leggendo il romanzo non si può non apprezzare la grandissima capacità di Vecce di maneggiare i documenti e trasformarli in un racconto appassionante.
Dario Ferrari, La ricreazione è finita
<Un paio di anni fa mia madre, in preda a un’effimera fascinazione per l’oriente, mi ha semicostretto a leggere un libro in cui, tra le altre cose, si illustrava un tratto tipico della mentalità cinese: anziché agire in vista di uno scopo, il saggio lascia che le circostanze lo portino dove vogliono loro, senza incaponirsi, alla maniera occidentale, a voler essere per forza l’artefice del proprio destino. Se questa cosa è effettivamente come l’ho capita io, quindi, il punto non è che sono pigro, ma che sono praticamente il modello del saggio taoista>.
Così si presenta Marcello, il protagonista, anzi uno dei protagonisti del romanzo di Dario Ferrari ‘La ricreazione è finita’. Marcello è una sorta di vitellone viareggino, trentenne laureato in lettere, che non riesce a decidersi a crescere. Vive con la mamma, si accontenta di lavoretti, non si vuole impegnare troppo con la fidanzata. Ma un giorno, del tutto casualmente, viene a sapere di un concorso per un dottorato di ricerca all’università di Pisa. Partecipa e, in modo del tutto fortuito, lo vince. Il mondo accademico gli è del tutto estraneo, e il lettore ne scopre il funzionamento insieme al protagonista, inizialmente ingenuo e spaesato.
E’ un mondo di regole implicite (ma ben note a tutti coloro che aspirano ad una carriera) degne di una corte bizantina. Anche il linguaggio usato in ambito accademico ha un significato diverso rispetto all’uso comune e Marcello pian piano lo apprende, così come scopre via via gli intrighi e le strategie di potere. La descrizione del mondo universitario è esilarante, e rientra nel genere del romanzo universitario, non solo italiano (mi ha ricordato il divertentissimo Il professore va a congresso, di David Logge).
Ma La ricreazione è finita è anche altro. Sacrosanti, il professore, responsabile della borsa di studio, quintessenza del barone, affida a Marcello, come tesi di dottorato, un lavoro sul suo concittadino Tito Sella, un terrorista morto giovane in carcere, dove ha però scritto alcuni libri, tra cui un’autobiografia perduta. Tito Sella diviene gradualmente l’altro protagonista del romanzo. Marcello è sempre più coinvolto da questo incontro, fino a cedere il punto di vista narrativo ad un altro narratore che ci racconta la storia di Tito e del suo gruppo di terroristi di provincia, storia allo stesso tempo ridicola e tragica. E l’indagine sulla vita del terrorista lo porterà a scoprire un mondo che sembra lontano anni luce e che, allo stesso tempo, è strettamente legato al presente, fino alla rivelazione di una verità nascosta e fino ad un certo punto, insospettabile.
Davvero un bel libro, leggero e profondo allo stesso tempo, senza tesi aprioristiche, ma con molti spunti di riflessione, non ultimo un confronto quasi inevitabile tra le vite dei due protagonisti.
Questa è una breve presentazione del libro su YouTube fatta dall’autore.
Marco Missiroli, Avere tutto
Un figlio un po’ ammaccato dalla vita,torna a casa, a Rimini, dove lo aspetta un padre vedovo, anzianotto ma ancora prestante. Né Sandro (il figlio), né Nando (il padre) concepiscono una vita senza un po’ di adrenalina. Nando l’ha trovata nelle gare di liscio a cui partecipava con la moglie, Sandro nel gioco d’azzardo. E’ Sandro a raccontare e ad inserire continuamente, nella cronaca dell’attualità, il ricordo del passato, come un flusso di coscienza. Una volta compreso il meccanismo il lettore si abitua. Non è una grande storia, ma non manca di tensione narrativa (soprattutto nel racconto delle partite di poker, raccontate con un approfondimento psicologico davvero notevole). Chi vive o conosce Rimini o dintorni (San Zaccaria, Montescudo) la apprezzerà ancora di più.
Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te
Una storia struggente, un romanzo storico, ambientato tra l’Italia e la Sarajevo assediata durante la guerra di Bosnia (1992-1996). Un gruppo di bambini, alcuni provenienti dall’orfanatrofio di Sarajevo, vengono sottratti al terribile assedio da un’organizzazione umanitaria e trasferiti in Italia. Durante il drammatico viaggio, sul pullman, si forma un gruppo di amici. Sono loro i protagonisti del romanzo, che racconta quasi vent’anni della loro vita( dal 1992 al 2011). Alcuni di loro vengono adottati da famiglie italiane e sembrano integrarsi senza troppi problemi, altri rifiutano di diventare italiani, perché non vogliono rinunciare definitivamente al rapporto con le loro famiglie, soprattutto le madri, di cui, a volte, non conoscono la sorte. Il romanzo è, purtroppo, di scottante attualità: impossibile non ritrovare in quella guerra la stessa straziante sofferenza, ma anche lo stesso sgomento per la bestialità a cui può arrivare il genere umano, che proviamo oggi, di fronte alla devastazione dell’Ucraina. E ci ricorda che a soffrire di più sono sempre i bambini. Ma è anche un romanzo sui rapporti tra figli e genitori, soprattutto tra madri e figli. Rapporti che, anche nei migliori dei casi, nascondono sempre delle ombre, delle ambiguità. E la guerra, la lontananza e lo sradicamento esasperano al massimo queste ombre. Il romanzo è avvincente e commovente, senza scadere nel melodrammatico. Lo stile molto curato, forse con qualche ricercatezza lessicale di troppo, ma sempre fluido incisivo. Ho apprezzato molto il racconto di un momento storico da una prospettiva originale, come accade del resto anche nel bel romanzo (premiatissimo) che la Postorino ha pubblicato nel 2018 “Le assaggiatrici ”
Niccolò Ammaniti, La vita intima
C’è sempre un buon motivo per leggere Ammaniti: la sua scrittura. Iperbolica, scintillante e raffinata, immaginifica, graffiante e curatissima. In una parola piacevolissima e divertente. Se poi la storia è superficiale, un po’ stereotipata, insomma non memorabile, va bene lo stesso. E’ la storia di Maria Cristina, quarantenne proclamata, da una delle solite ed improbabili classifiche, donna più bella del mondo. Ex atleta, ex indossatrice, con alcuni gravi lutti alle spalle e ora moglie del presidente del consiglio. Ricca, vanesia e frivola, ma desiderosa di affetto, amore e cose semplici, alle prese con una vicenda di revenge-porn, di cui è la vittima.
Il romanzo è un affresco sarcastico dell’attualità: i social e la macchina dell’apparire, la politica spettacolo e i talk-show che possono decidere le sorti di un governo. Il tutto ambientato, ovviamente, nell’alta società romana. Non molto originale forse, ma Ammaniti ci regala una carrellata di personaggi perfetti, ovviamente caricature, ma magistralmente tratteggiate: il guru dei social, che vive chiuso in una roulotte trasformata in una gabbia di Farhenheit; il belloccio rampante e spregiudicato; l’insopportabile assistente di Cristina; la “nemica” di borgata che Cristina adotta come immaginaria consigliera di vita.
Tutto godibilissimo. Poi c’è un finale che è appiccicato con lo sputo. E una sorta di morale (il riscatto della donna oggetto che conquista il pubblico con un’esibizione della propria intelligenza, maturità e profondità) così incongrua da apparire miracolosa. Ma glielo si perdona.
Robert Galbraith, Un cuore nero inchiostro
Dopo la lettura di Sangue inquieto ho dato un’altra chance a Robert Galbraith (alias J.K. Rowling, creatrice di Harry Potter) ed ho letto Un cuore nero inchiostro, sesto libro della serie che ha per protagonisti i due detective londinesi Cormoran Strike e Robin Ellacott. L’agenzia Cormoran & Ellacott è ormai ben avviata e non ha bisogno di nuovi casi. Ma un giorno Edie Ledwell coautrice di una serie animata di culto che, dopo un enorme successo su YouTube, sta per sbarcare su Netflix, si presenta in ufficio spaventatissima. Vorrebbe che Robin e Strike scoprissero l’identità di un implacabile hater che la perseguita da tempo, diffondendo calunnie sul suo conto. L’agenzia non è attrezzata per indagare su reati informatici e Robin non accetta. La paura di Edie non è infondata: verrà infatti uccisa di lì a poco e Robin e Cormoran accetteranno di indagare sulla sua morte. Lo schema è lo stesso di Sangue inquieto: si susseguono varie ipotesi investigative che vengono rapidamente smentite.
Qui la difficoltà è data dal fatto che le indagini avvengono su due piani connessi ma distinti: il mondo reale (l’hater conosceva Edie perché aveva usato informazioni non reperibili in Internet) e quello virtuale, dove ovviamente i personaggi si presentano come avatar. L’idea non è male ed è replicata dalla scenografia del delitto: la serie animata è ambientata in un suggestivo cimitero londinese che fa da sfondo anche al romanzo. Confesso però che durante la lettura mi sono trovata a volte un po’ in affanno e ho fatto più fatica di quanto il genere richiederebbe. Intanto la duplicazione dei personaggi complica le cose ( Robin e Cormoran prendono appunti dettagliati, ma il lettore dovrebbe essere esentato). Poi le conversazioni on line dei personaggi, che a volte avvengono contemporaneamente su canali diversi con lo stile contratto e allusivo tipico di Internet e che occupano molte pagine del libro sono francamente scarsamente comprensibili. Per fortuna si possono saltare senza compromettere la comprensione del romanzo…
Paolo Giordano, Tasmania
Tasmania non ha niente a che vedere con i romanzi precedenti di Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi, Il corpo umano), che mi sono davvero piaciuti. Qui, quasi non c’è una storia. Il protagonista, che si presenta come una sorta di alter ego dello scrittore, è uno scienziato prestato alla divulgazione, vuole scrivere un libro sulla bomba atomica, ma allo stesso tempo sa che quasi tutto è già stato scritto e raccontato. Allora perchè un nuovo libro? La risposta potrebbe essere la percezione di essere sull’orlo di una nuova catastrofe causata dal cambiamento climatico e da una situazione politica sempre più destabilizzata dal terrorismo. (La storia comincia a Parigi nel 2015, l’anno degli attentati islamici, fra cui l’attacco al Bataclan).
Così come a Hiroshima e a Nagasaki nei primi giorni dell’agosto del 1945 nessuno immaginava di essere prossimi all’apocalisse, neppure gli scienziati che avevano progettato la bomba, < le grandi catastrofi, come l’estinzione dei dinosauri, hanno sempre faticato a farsi prendere sul serio. E invece viene fuori che siamo proprio nell’epoca in cui sta cambiando tutto. Drasticamente>, anche noi, forse, camminiamo inconsapevoli sull’orlo del baratro. Alla storia principale si intrecciano altre vicende: quella del rapporto non semplice del protagonista con la moglie parecchio più grande di lui, il racconto delle vite di amici e conoscenti.
I lettori di Emmanuel Carrère non possono non riconoscere lo schema narrativo di molti dei suoi romanzi: Vite che non sono la mia, Yoga. Ma Carrère riesce a fondere argomenti eterogenei in un insieme armonioso e coinvolgente, cosa che non accade nel libro di Giordano, nel quale mi è stato difficile trovare un nesso profondo tra le storie e gli argomenti. Ho trovato anche un po’ artificiosi e poco credibili i personaggi, compreso il protagonista, e di conseguenza le loro vicende non mi hanno appassionato.
Camilla Läckberg ,Henrik Fexeus, La setta
Secondo libro della coppia di scrittori Läckberg/Fexeus, dopo Il codice dell’illusionista. Protagonisti sempre l’investigatrice Mina Dabiri e il mentalista Vincent Walder. Ambedue con un passato oscuro che si intreccia con l’indagine che debbono condurre. (Che nostalgia per la tranquilla vita privata del commissario Maigret!).
Lo schema è lo stesso del primo romanzo: Walder si unisce al gruppo di investigatori, anche loro con problemi esistenziali e familiari, a cui appartiene Mina, che deve indagare sul rapimento di un bambino che frequenta una scuola materna di Södermalm, a Stoccolma.
Anche stavolta, ovviamente, il contributo del mentalista sarà essenziale, grazie sia alla sua capacità di penetrare nella psiche umana sia, soprattutto, alla soluzione di una quantità impressionante di rompicapo, in grado di riempire annate della Settimana enigmistica.
Ora chi compra un libro della Läckberg non si aspetta certo Proust o Simenon, ma i suoi primi romanzi (alludo soprattutto alla serie dei delitti di Fjällbacka) erano piacevoli e ben strutturati. La setta, forse ancora di più de Il codice…è invece macchinoso e appesantito dai troppi riferimenti al passato dei personaggi raccontati nel romanzo precedente e, soprattutto, dalla pedante spiegazione e faticosa risoluzione degli enigmi, indispensabile ovviamente per chiudere il caso. Il risultato è una narrazione dal ritmo lento e spesso noiosa e inattendibile
Antonio Manzini , La mala erba
La mala erba è una favola nera, ambientata in un piccolo borgo, Colle San Martino, circondato da boschi e montagne non lontano da Roma. Ma non è un paesaggio idilliaco. La natura è affascinante, ma tutto ciò che è stato costruito dall’uomo no. Insomma Colle San Martino non potrebbe entrare nella classifica dei borghi più belli d’Italia: l’abitato richiama piuttosto una brutta periferia. Come in ogni favola c’è una principessa: la diciassettenne Samantha De Santis, studentessa liceale nella vicina città, che non ha che un sogno: scappare da quel luogo chiuso come una prigione, che non le offre prospettive. Ma quando Samantha si trova in difficoltà non trova un principe che la soccorra. Gli adulti che la circondano sono inadeguati, anche il padre, che pure la ama (da lei ricambiato) è un disperato che non riesce a trovare lavoro, incapace di aiutarla. I ragazzi che frequenta sono indifferenti ed egoisti. Poi c’è il cattivo: il signore del castello, Cicci Bellè, padrone del palazzo che domina il piccolo borgo. Grazie alla sua ricchezza, ha con i suoi concittadini lo stesso ruolo che un signore medievale ha con i servi della gleba. D’altra parte non c’è solidarietà tra i trecento abitanti di Colle San Martino, quasi tutti, compreso padre Graziano, il parroco avido e spregiudicato, hanno qualcosa da nascondere o conducono vite incolori e un po’ squallide . Samantha avrà il suo lieto fine, pagato però con la trasformazione nella donna lupo <capelli lunghi, occhi gialli, un corpo da mozzare il fiato, gli artigli al posto delle unghie> rappresentata dal poster che tiene appeso nella sua cameretta. Il romanzo ha una trama sicuramente originale, scorre velocemente, non mancano i colpi di scena, non tutti, però, adeguatamente motivati. Si capisce che, nell’intento dell’autore, dovrebbe essere esemplare. Insomma Colle San Martino è una metafora ma non è ben chiaro di cosa. O forse lo è troppo.
Pierre Lemaitre, Il gran mondo
Sembra che Lemaitre si sia congedato definitivamente dal genere noir, del quale è un maestr o assoluto, per dedicarsi esclusivamente alla scrittura di romanzi “storici”. Il primo, l’imperdibile “Ci rivediamo lassù”, uscito in italiano nel 2015, è stato poi seguito da altri due. Ma l’abbandono del noir è del tutto apparente. Anche nei romanzi nei quali Lemaitre racconta alcuni episodi della storia francese, i personaggi sono tutti (o quasi) inclini alla malvagità, se non al delitto vero e proprio, perfettamente coerenti con contesti caratterizzati da cinismo e violenza. Nel “Gran mondo”, ambientato nel 1948, la scena si allarga: Beirut, dove i coniugi Pelletier, protagonisti del romanzo insieme ai loro quattro figli, sono emigrati dalla Francia, Saigon (allora parte dell’Indocina francese) e Parigi. Ma non cambia il tasso di malvagità, ipocrisia e cinismo degli ambienti sociali descritti, nei quali ben si adattano, anzi si distinguono i Pelletier. Il romanzo non cattura solo per i colpi di scena continui, tipici appunto del noir, ma anche per la descrizione di certi contesti storici poco noti, tra i quali spicca Saigon, città simbolo di un impero in disfacimento.
Per raccontare una Gran Bretagna in crisi, con tante affinità con l’Italia, Coe riporta sulla scena alcuni personaggi del suo romanzo “La banda dei brocchi”, che aveva già avuto un seguito di successo con il libro “Circolo chiuso.”
Coe continua così la sua narrazione della storia inglese degli ultimi quarant’anni, che trova il suo culmine nel tragico pasticcio della Brexit. Un paese in cui, dice uno dei personaggi: <Non produciamo più niente. Se non produciamo niente, non abbiamo niente da vendere, perciò come… come faremo a sopravvivere?>.
Un Paese spaccato, nel quale domina una gran rabbia: da una parte chi non vuole rinunciare a sentirsi europeo, dall’altra chi, appartenente a fasce più povere o comunque meno colte della popolazione, imputa all’Europa la decadenza dello stato sociale, si sente messo in secondo piano rispetto alle minoranze <neri, asiatici, musulmani, gay: non facciamo mai abbastanza per loro>….Su questa rabbia costruiscono la loro fortuna alcuni politici <Johnson stava tracciando un’analogia tra l’Unione europea e la Germania nazista. Entrambe, sosteneva, progettavano la creazione di un superstato europeo dominato dai tedeschi, ricorrendo a mezzi che allora erano stati militari e che ora erano economici.”
Nel romanzo di Coe vediamo come la paradossale vicenda del referendum, indetto dal governo Camerun per consolidare la permanenza nell’UE, che ottiene il risultato opposto, lacera profondamente anche alcune famiglie, tanto da provocare incomprensioni e separazioni. Nessuno può non fare i conti con un fatto epocale come la Brexit, neppure chi non si interessa di politica, come lo scrittore Benjamin Trotter, che vive isolato in un vecchio mulino sul fiume Severn, nel cuore dell’Inghilterra. Coe descrive Benjamin e gli altri protagonisti del romanzo, tutti in qualche modo legati a lui, con un’ironia benevola, quasi identificandosi in loro. Appaiono tutti incerti, spaesati, in balia di un impetuoso corso storico di cui non si individua un approdo. Ecco, per una volta non tanto diversi da noi italiani.
Joël Dicker, Il caso Alaska Sanders.
Presentato dall’editore come l‘attesissimo seguito di La verità sul caso Harry Quebert, Il caso Alaska Sanders mi ha deluso. Dicker mette in scena il solito caso di omicidio, portando il lettore a identificare via via possibili colpevoli, con congetture che vengono puntualmente smentite. Lo schema è ripetitivo: ogni personaggio coinvolto dice in un primo momento solo una parte della verità, che poi è costretto a rivelare. Ma né Marcus Goldman, lo scrittore che ha appena ottenuto un enorme successo con La verità sul caso Harry Quebert, né il sergente Perry Gahalowood, che si era occupato del caso Quebert , hanno il fascino e l’ironia di Poirot. Né Dicker, che ho molto apprezzato nel Caso e ne L’enigma della camera 622 è Marcel Proust, che nella Ricerca riesce a collegare sette romanzi . Qui i riferimenti continui al Caso e, soprattutto, al suo prequel, Il libro dei Baltimore appesantiscono la narrazione dando in cambio ben poco….
Nicolai Lilin, Putin, L’ultimo zar
Un libro da leggere per saperne di più sull’uomo che sta distruggendo l’Ucraina e togliendo il sonno a mezzo mondo. Pubblicato nel 2020, la nuova edizione presenta una breve introduzione nella quale l’autore, parlando della tragedia ucraina, la spiega con un “grave deficit culturale d’interpretazione di ciò che arriva dall’Est”. Non è un saggio storico, piuttosto una biografia di Putin filtrata dalla soggettività dell’autore. Di origini russe (ora cittadino italiano), Lilin (autore del famosissimo Educazione siberiana) racconta dell’ ultimo zar con uno stile da romanzo, lasciando trasparire la sua interpretazione, critica ma non del tutto immune dall’ammirazione per il vitalismo del personaggio. “Putin dimostrò di saper agire in questioni di carattere geopolitico applicando in un certo senso le “regole di strada”, che a gran parte dell’elettorato erano ben comprensibili perché la vita del paese intero si basava su dinamiche criminali…”
Sicuramente non del tutto esaustivo, il libro contiene però tante informazioni che spiegano molti aspetti della tragedia a cui stiamo assistendo: “Putin scelse per il ruolo di patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill Gundyaev, una persona che sin dai primi anni del suo servizio “spirituale” era collaboratore del KGB, e che negli anni dell’URSS fu persino inviato in Svizzera, a Ginevra, con una delegazione di agenti di sicurezza e spie sovietiche…”
Stephen King, Billy Summers
Sapevi di poterti sedere davanti a uno schermo o a un quaderno, e cambiare il mondo? È una cosa che non può durare, perché il mondo torna sempre quello che è nella realtà, ma, prima che succeda, la sensazione che provi è incredibile.
L’ultimo romanzo di Stephen King non solo esce dal genere fantastico e horror, ma è anche una riflessione sulla scrittura e sulla letteratura. La trama è quella di un thriller: Billy Summers è un veterano dell’Iraq, arruolatosi nell’esercito a diciassette anni dopo un’infanzia piena di traumi, divenuto un sicario per la sua abilità di tiratore di precisione. Ha deciso di andare in pensione dopo l’ultimo incarico ricevuto. Ma il contratto prevede che, nell’attesa del momento giusto, Billy, che ha una passione per Faulkner, Zola e Dickens, assuma per molti mesi l’identità di uno scrittore esordiente. E quell’identità gli piace sempre di più…Nel romanzo c’è di tutto: una trama complessa e non banale, l’orrore della guerra in Iraq, il dramma degli emarginati negli USA, l’amore. Insomma non ci si annoia. E si perdona volentieri a King l’autocitazione: dalla piccola baita nella quale Billy si ritira a scrivere si possono vedere le rovine dell’Overlook Hotel e appeso alla parete c’è un quadro inquietante, che raffigura delle siepi a forma di animali…
Vittorio Longhi, Il colore del nome
Aveva ventisei anni Giacomo Longhi quando arrivò in Eritrea (dal Piemonte), nell’inverno del 1890, ufficiale della spedizione coloniale italiana. Il suo cognome sarà ereditato dal bisnipote Vittorio, autore del memoriale “Il Colore del nome”, giornalista e scrittore che fino a quarant’anni non si era mai posto molte domande sull’origine di quel cognome e di quel nome (Vittorio, scelto da Giacomo per il primo figlio, concepito con la domestica sedicenne eritrea, è chiaramente un omaggio alla dinastia sabauda). Figlio di una imprenditrice italiana, Vittorio Longhi cresce nelle Marche, legato alla famiglia della madre di origine abruzzese, e dirige attualmente un’agenzia di stampa a Bruxelles. Fa i conti tutti i giorni con il dramma dell’immigrazione e del razzismo, ma da italiano/europeo. Il padre, italiano di origine eritrea, figlio del primo Vittorio, non è mai entrato a far parte della sua esistenza: lo ha visto solo una volta in tutta la sua vita. Ma una mail ricevuta da una cugina eritrea, rifugiata in Svezia, lo porta a riscoprire gradualmente, e il lettore con lui, la sua metà africana. E con essa la storia del colonialismo italiano, poco conosciuta, quasi rimossa dalla coscienza nazionale. Un libro avvincente e interessante, che si legge tutto d’un fiato per il desiderio di scoprire gli snodi e i segreti una storia familiare drammatica, che coinvolge quattro generazioni. Ma soprattutto un tributo dello scrittore all’intelligenza e alla tenacia di due grandi donne: Gabrù, la bisnonna eritrea, che cresce da sola, con enormi sacrifici, i due figli meticci di Giacomo Longhi (che, come era consuetudine, non si occupò mai di loro), e la madre di Vittorio, Loretta, anche lei, coraggiosa e indomita madre single, abbandonata dal compagno, che si comporta ottant’anni dopo come il bisnonno colonizzatore italiano.
Chi volesse sapere qualcosa di più del libro e dell’autore può leggere l’intervista di Lorenzo Cremonesi a Vittorio Longhi pubblicata sul “Corriere della Sera ” il 21 febbraio 2021.
Donato Carrisi, La casa senza ricordi
<Le storie non dovrebbero mai rimanere in sospeso>: la frase è ripetuta due volte nell’ultimo capitolo. Il lettore non può che essere d’accordo, ma, allo stesso tempo, non può non sentirsi un po’ preso in giro. Perché la storia rimane in sospeso, affidata a un seguito non ancora pubblicato. Non è solo questione di sapere come va a finire: solo il finale potrebbe consentire un giudizio sulla plausibilità del romanzo, alla quale l’autore evidentemente tiene, poiché afferma nella nota conclusiva: le pratiche ipnotiche presenti nella storia sono effettivamente utilizzate nelle terapie.
Lo psichiatra ipnotista fiorentino, addormentatore di bambini, Pietro Gerber, si sforza di penetrare nella mente di Nico, un bambino senza memoria, creduto morto, che viene ritrovato in un bosco e accusato di essere responsabile della morte della madre. Mettendo a rischio la sua credibilità professionale e la sua salute fisica e mentale, Gerber insegue gli inneschi (immagini, parole, gesti) che, attraverso l’ipnosi, gli permettono di penetrare sempre più a fondo nella casa senza ricordi che è la mente di Nico, sigillata da una mente criminale che padroneggia l’ipnosi meglio dello stesso Gerber. Ma Gerber è coinvolto non solo professionalmente, ma anche personalmente. La mente di Nico contiene forse anche la verità sulla vita dell’ipnotista, che, dai molti indizi lasciati trapelare, non è come appare.
Damon Galgut, La promessa
Con “La promessa” lo scrittore sudafricano Damon Galgut ha vinto nel 2021 il Booker Prize (prestigioso riconoscimento per scrittori di lingua inglese provenienti da stati dell’ex impero britannico). Il romanzo si snoda in un arco temporale molto ampio: dal 1985 al 2018. Protagonista è una famiglia bianca, padre, madre e tre figli, che vive in una grande fattoria con annesso allevamento di serpenti. La vicenda è scandita da quattro funerali, tutti celebrati con un rito religioso diverso. Ad ogni funerale, la storia dei protagonisti si aggiorna e si carica di sofferenza. E, ad ogni funerale, si torna a discutere della promessa strappata al marito da Rachel, la madre (la prima a morire), di donare alla domestica Salomè, nera, la casupola nella quale abita con la sua famiglia. E’ una storia dolorosa in cui le vicende private si intrecciano con quelle pubbliche: l’apartheid, la violenza, il conflitto razziale mai sedato, il disastro della politica che cancella le speranze evocate dalla famosa finale della Coppa del Mondo di rugby 1995. Lo stile è estremamente elaborato: si passa senza soluzione di continuità dalla prima persona a un narratore esterno che, a volte, dubita della veridicità delle sue affermazioni. E’ sicuramente un libro coinvolgente di cui però, se non si conosce bene la realtà sudafricana, non è facile cogliere il significato profondo.
Hervè Le Tellier, L’anomalia
La letteratura è un modo per riprodurre e spiegare la realtà? Non per Hervé Le Tellier, autore del romanzo L’anomalia , che la pensa come il Calvino della fase combinatoria, durante la quale scrive Il Castello dei destini incrociati (1969) e le Città Invisibili . Non a caso Le Tellier, ne L’anomalia, fa un esplicito riferimento a Calvino, e i personaggi del suo romanzo sono protagonisti di un gioco di combinazioni , come le carte dei tarocchi nel Castello , che dà luogo ad una molteplicità di storie. Di questo gioco fa parte anche lo scrittore, che è contemporaneamente sia personaggio sia ideatore della trama.
L’anomalia nella quale sprofondano gli undici protagonisti del romanzo non può essere citata, per non togliere al lettore il gusto di scoprirla. Basti sapere che è un evento che la scienza ha in parte teorizzato e che, teoricamente, in un futuro neanche molto lontano, potrebbe essere anche tecnicamente realizzabile. Il romanzo è indubbiamente una riflessione sulla concretezza della realtà, messa a dura prova dalle teorie della fisica sulla relatività dello spazio e del tempo. Si potrebbe pensare ad un romanzo freddo e cervellotico, ma non è affatto così. Il gioco stravolge la vita dei personaggi e la porta ad un punto di tensione che a volta sfocia in una dolorosa rottura, a volte, spezzando la routine e mettendo il personaggio di fronte a se stesso, lo costringe ad imprimere una svolta positiva alla sua esistenza. Insomma anche in una possibile realtà virtuale, i sentimenti e le passioni umane non sono diversi da quelli che proviamo ( o crediamo di provare!) noi esseri umani.
Robert Galbraith, Sangue inquieto
Lo confesso…. Non sapevo che Robert Galbraith è lo pseudonimo di Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter. Confesso anche non ho letto gli altri romanzi che hanno come protagonista Cormoran, ma, sfogliando un po’ di recensioni, sembra che questo sia il migliore. Anche Cormoran, e la sua socia Robin, bella e molto più giovane di lui, non sfuggono alla legge oggi imperante: chi indaga (poliziotto, magistrato, investigatore privato) non può avere una vita privata tranquilla e banale, alla Maigret. Cormoran e Robin non fanno eccezione. Naturalmente, anche in questo caso, il vissuto tormentato e non risolto degli investigatori genera vicende che si intrecciano alla storia dell’indagine, che qui è un cold (freddo) case, anzi freddissimo. Una donna chiede a Cormoran di indagare sulla scomparsa della madre, avvenuta quarant’anni prima. L’indagine della polizia, al tempo della scomparsa, non avuto esito, anche, forse, perché è stata condotta da un poliziotto, ormai morto, che versava in uno stato mentale molto alterato, che ha lasciato un inquietante quaderno di appunti in cui l’inchiesta si intreccia ad una complicatissima simbologia astrologica. Cormoran e Robin hanno un anno per indagare, durante il quale devono anche occuparsi delle loro complicate vite private e ciò giustifica le più di mille pagine del romanzo, il cui pregio maggiore è forse quello di mostrare con grande verosimiglianza le difficoltà che ci possono essere a ricostruire una storia, i protagonisti della quale sono in gran parte morti o troppo vecchi per ricordare. Quindi le ipotesi della coppia di investigatori si sgretolano una dopo l’altra, finchè….
Ilaria Tuti, Fiore di roccia
“Fiore di roccia” di Ilaria Tuti è una straordinaria storia di donne ispirata ad un fatto storico. Nel 1915, in Carnia, all’estremo confine dell’Italia, un gruppo di donne, contadine già stremate dalla miseria e dalla fame, costrette ad occuparsi della cura e del sostentamento di vecchi, bambini , malati ( gli uomini validi sono tutti al fronte) accettano di dare il proprio contributo attivo alla guerra. Il fronte passa sulla montagna che sovrasta il paese, gli uomini in trincea sono in condizioni difficilissime e muoiono come mosche. Le donne, abituate a portare in spalla carichi pesantissimi in enormi gerle rispondono alla richiesta dell’esercito e cominciano a rifornire i soldati di cibo, armi, medicine. Scalano la montagna su sentieri mal tracciati e franosi, percorrendo dislivelli di più di mille metri, con ai piedi le tradizionali pantofoline di velluto che loro stesse si cuciono (e che adesso sono tanto di moda). Lo scenario montano, con la sua durezza implacabile, descritto magistralmente, è parte integrante della storia. Inizialmente trattate con sufficienza dagli ufficiali, le donne e soprattutto Agata, la protagonista, si conquistano via via il loro rispetto. Nel 1997 Oscar Luigi Scalfaro onorerà con la Croce di Cavaliere, le reduci novantenni di quell’esperienza. Ma il libro della Tuti va moltre oltre la testimonianza sorica: nel romanzo c’ è una straordinaria riflessione sulla condizione umana messa di fronte all’insensatezza della guerra, sul bisogno di amore, di tenerezza, di bellezza che rimane vivo anche nelle condizioni più dure. Di cui la stella alpina “fiore di roccia” è il simbolo.
Gianrico Carofiglio, La disciplina di Penelope
Leggo sempre con piacere i romanzi di Carofiglio, ma quest’ultimo mi ha un po’ deluso. Ho apprezzato inizialmente la sfida dell’autore di calarsi in un io narrante femminile, l’ex pubblico ministero Penelope Spada, che affronta da privata cittadina una specie di cold case.
La moglie del sig. Mario Rossi è stata trovata morta in un’area incolta di Rozzano, l’inchiesta non è riuscita a trovare un colpevole, ma l’atto di archiviazione contiene una frase infamante su di lui, inizialmente il principale sospettato, che si è sempre dichiarato innocente. Rossi quella frase non l’accetta: un giorno la figlia, che ora è ancora una bambina, potrebbe leggerla e questo per lui è intollerabile. Per questo, indirizzato da un giornalista, chiede aiuto a Penelope perchè trovi il vero colpevole e lo scagioni definitivamente. Dopo qualche esitazione, la Spada accetta l’incarico. e l’indagine di Penelope, aiutata da un poliziotto che le è rimasto amico, può cominciare, per poi concludersi con soddisfazione del lettore.
E allora cosa non funziona del tutto? Il personaggio di Penelope: l’ennesimo investigatore ”maledetto. Un misterioso incidente, non raccontato, di cui è però almeno in parte responsabile, l’ha costretta a interrompere una carriera in cui brillava per tenacia ed acume investigativo e ora, pur in perfetta forma fisica (l’attrice che eventualmente la interpreterà in una serie TV dovrebbe cominciare ad allenarsi), vive in solitudine, trascorre le notti con uomini di cui al mattino non ricorda il nome, si aiuta con alcol e psicofarmaci. Gli stereotipi, già usati da un’altra decina almeno di scrittori, ci sono tutti. La vera novità sarebbe un’investigatrice felicemente sposata, magari con un paio di figli che crescono bene, accuditi in modo paritario anche dal papà .
Richard Russo, Le conseguenze
“In realtà però il destino è uno sgabello con tre gambe che sono il fato, la fortuna e il libero arbitrio”. Lo afferma Richard Russo, autore del romanzo “Le conseguenze”, pubblicato da Neri Possa nel gennaio 2021, in un’intervista al Manifesto. I protagonisti del romanzo sono quattro compagni di università. Tre ragazzi Lincoln, Teddy e Mickey, appartenenti a famiglie della classe media, che frequentano un prestigioso college della East Coast grazie a una borsa di studio, che integrano lavorando come camerieri o lavapiatti nello stesso college, e Jacy, una ragazza benestante ed eccentrica, che incarna il desiderio di liberazione dagli stereotipi culturali e sociali della gioventù americana che frequenta i college alla fine degli anni Sessanta.
Dopo la laurea, nel 1971, i quattro amici trascorrono il weekend del Memorial Day nella casa della madre di Lincoln, sull’isola Martha’s Vineyard. Uno di loro, Mickey, sta per partire per la guerra. Dopo 44 anni, nel 2015, i tre ex ragazzi si ritrovano nella stessa casa. Nessuno dei tre ha realizzato il “sogno americano” e le conseguenze della crisi economica del 2008 stanno trascinando il paese verso la presidenza Trump. Manca Jacy, sparita nel nulla dopo il weekend del 1971. Il racconto oscilla continuamente tra questi due piani temporali.
Anche se l’autore definisce il suo romanzo un anti-thriller è proprio nella seconda parte , in cui l’indagine sulla scomparsa di Jacy diventa l’argomento principale, che la narrazione diventa gradualmente più serrata e coinvolgente. La prima parte, nella quale vengono raccontati gli aspetti psicologici e sociali delle famiglie di appartenenza dei tre ragazzi, è così un sorta di lungo preludio, dall’atmosfera quasi sempre cupa e sospesa, che acquista senso solo alla luce della seconda metà del romanzo. Insomma è un libro che richiede un po’ di pazienza al lettore, che alla fine viene però ripagata.
L’opera di Russo è un romanzo disincantato, nutrito di suggestioni autobiografiche, il cui senso è riassunto dalle riflessioni finali di Teddy, il più intellettuale fra i tre amici <Cosa ci si aspettava che facesse una persona, quando doveva affrontare un mondo che non era interessato né alla sua vita né alla sua morte? Arrendersi? Genuflettersi? Se Dio esisteva, doveva essere in preda a un attacco di ridarella. Aveva fatto di tutto per ostacolarli, e invece di dargli la colpa quei maledetti idioti creati da lui, teoricamente a sua immagine e somiglianza, attribuivano la colpa a se stessi>. Si può contare solo sulla solidarietà e l’amicizia, e il rapporto tra i tre protagonisti è lì a dimostrarlo.
Richard Russo (Johnstown, 15 agosto 1949) è uno scrittore statunitense, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2002 per il romanzo Il declino dell’impero Whiting, che descrive il tramonto della società industriale su cui, per decenni, si era basato il benessere della classe media americana .
Jo Nesbo, Il fratello
<Siamo una famiglia. E dobbiamo restare uniti perché non abbiamo nessun altro. Amici, fidanzate, vicini, compaesani, lo Stato non sono che un’illusione e non valgono un cazzo il giorno in cui ti ritrovi veramente nel bisogno. Allora saremo noi contro loro, Roy. Noi contro tutti quanti gli altri> . Non è una citazione da un romanzo sulle tante mafie italiane o mondiali. Qui per famiglia si intende proprio il gruppo di persone unito da legami di sangue. Il romanzo è una vera sorpresa per chi, come me, identificava soprattutto Nesbø con le indagini di Harry Hole. Questa è, davvero, tutta un’altra storia, ma ugualmente o forse ancor di più mozzafiato. A raccontarla è Roy Opgard, gestore di una stazione di servizio ad Os, piccolo paesino nel Nord della Norvegia, che conduce una vita appartata e solitaria. E’ orfano di entrambi i genitori, il fratello Carl, più giovane, più alto, più bello e affascinante di lui , è andato a cercare fortuna in Minnesota, La storia, non lineare ma piena di flash back, comincia col ritorno di Carl, accompagnato dalla moglie Shannon, affascinante architetto, originaria delle Barbados (ma bianca). E’ diventato un imprenditore affermato e vuole trasformare il paesino di Os in un’importante stazione turistica, con la costruzione di un avveniristico beauty hotel progettato proprio da Shannon. Il progetto richiede il finanziamento di tutti gli abitanti del paese, che vengono convinti facilmente dall’abilità commerciale di Carl. Intorno alla piccola famiglia che si è ricongiunta si muovono pochi personaggi, tutti abitanti del paesino: l’ex fidanzata di Carl, suo padre ex sindaco, i dipendenti della stazione di servizio, un giornalista del quotidiano locale, il medico, un rivenditore di auto usate, con una moglie che non si rassegna al passare del tempo, un macellaio, una pettegola parrucchiera. E, soprattutto, l’agente rurale Kurt Olsen, che ha perso il padre, anche lui agente rurale, in circostanze mai del tutto chiarite. Ci sono anche i genitori di Carl e Roy , recuperati nei numerosi flash back. E poi c’è il paesaggio norvegese, fatto di montagne, laghi che sembrano occupare cavità tagliate nella roccia da un coltello affilatissimo, uccelli, neve e ghiaccio, sublime e duro.
La storia si costruisce gradualmente: le storie e le personalità dei personaggi si delineano a poco a poco. E più questo avviene più il lettore si sente destabilizzato, anche perché è impossibile, leggendo il romanzo, non identificarsi, almeno parzialmente, nel modo di pensare di Roy, che non si può certo dire corrisponda alla morale comune… Impossibile dire di più: il lettore ha diritto ad essere sorpreso e coinvolto, si può però aggiungere che è un romanzo particolarmente adatto a chi, in questo periodo, soffre particolarmente la lontananza dei familiari.
Nicola Lagioia , La città dei vivi
Questo libro è un romanzo verita’. Come Truman Capote, (A sangue freddo) ed Emmanuel Carrère (L’avversario) Lagioia, ossessionato da un fatto di cronaca nera che, come Capote, ha inizialmente seguito per un giornale, comincia ad indagare, a raccogliere testimonianze che sfociano poi in un romanzo. Il fatto è l’assassinio di Luca Varani, avvenuto dopo atroci sevizie, nel marzo 2016, in un appartamento della periferia romana. Gli assassini sono due giovani , Manuel Foffo e Marco Prato, che provengono da famiglie ‘normali’ e senza problemi economici. Hanno invitato Luca, come altri, con un messaggio whatsapp, a un festino a base di droga, non hanno nulla contro di lui, né può essere il suo comportamento arrendevole e sottomesso, a scatenare la follia omicida dei due.
Lagioia scrive per cercare delle spiegazioni a ciò che evidentemente non può essere spiegato, che neppure i due protagonisti riescono a spiegarsi. Poco convincente è, a mio avviso, la relazione implicita con il degrado di Roma, invasa da immondizia, topi, gabbiani. Anche la personalità dei due assassini, immatura, narcisista, ma non violenta non è di per sé una spiegazione. Quello che colpisce di più, anche alla luce di notizie di cronaca che si susseguono quasi quotidianamente, è la quantità di droga che circola nel romanzo. La città dei vivi è una città in cui l’uso della cocaina , anzi l’abuso, è ormai una prassi assolutamente normale. La cocaina arriva direttamente a domicilio, così che, se si hanno i soldi, è più semplice e comodo procurarsela di quanto non lo sia per una bottiglia di vodka, per la quale bisogna uscire di casa, trovare un negozio, ecc. Insomma l’indagine di Lagioia è destinata a non chiudersi, e non del tutto convincente è anche la motivazione che lo scrittore adduce per il suo interesse < Tenendo conto di certe storie del mio passato, un caso del genere non poteva lasciarmi indifferente. A un caso del genere, per dirla meglio, era impossibile che io fossi capace di sottrarmi. Ciò a cui siamo scampati è molto spesso ciò che non abbiamo avuto il tempo di capire, e quando dopo anni quella cosa si ripresenta in una veste nuova è di solito per farsi interrogare come non eravamo riusciti a fare allora>.
Lo stile è raffinato e suggestivo, ma non basta a giustificare l’opera. E’ un libro irrisolto, per certi versi ‘ inutile’ . Ma forse è semplicemente sbagliata l’ottica con cui io l’ho letto. Chi ama la letteratura spesso cerca in essa una spiegazione alla realtà, ma forse in questo, ma anche in moltissimi altri casi, una spiegazione semplicemente manca, e rimane solo il baratro di una violenza cieca e opaca, che la torcia dello scrittore, che si cala nell’abisso, non riesce a penetrare.
Andrea Camilleri, Riccardino
Nel 2004 Camilleri decide di narrare l’ultima avventura del commissario Montalbano e concludere il libro con la sua uscita di scena. Ma non pubblica il romanzo, anzi ne scrive moltissimi altri, sempre con Montalbano protagonista, fino al 2019, anno della sua morte. Nel 2016 aveva però ripreso in mano quell’ultima puntata della saga di Montalbano, che aveva intitolato “Riccardino” e aveva annotato che “a 91 anni, sorpreso di essere ancora vivo”, aveva pensato di dare una sistemata al libro, di aggiornarne la lingua che, in tanti anni, si è evoluta. Il titolo, pensato come provvisorio, anomalo rispetto agli altri della serie, diventa definitivo, perché l’autore si è affezionato ad esso. Ma ancora non lo pubblica. Il libro è uscito postumo nel 2020, dopo la morte del suo autore e mi piace pensare che Camilleri non abbia voluto farsi sorprendere dalla morte senza aver dato una fine al suo personaggio, permettendo così ai tanti lettori (e telespettatori) per i quali il commissario è diventato un amico, di elaborare meglio il lutto per la sua scomparsa .
Alle cinque del mattino la telefonata di uno sconosciuto, che dichiara di essere Riccardino, interrompe il sonno di Montalbano, raggiunto faticosamente dopo una notte insonne trascorsa a contare pecore e a tentare di ricordare l’inizio dell’ “Iliade” o della “Prima Catilinaria”. Dopo un’ora una seconda telefonata, questa volta di Catarella, gli annuncia l’omicidio di un uomo, che si poi si scoprirà essere proprio Riccardino. Montalbano è stanco , la caccia solitaria non lo attira più come una volta. E poi non ha più voglia di avere a che fare con assassini che sono, inesorabilmente, degli imbecilli. “La vera virità era che da qualichi tempo gli fagliava la gana. Doppo anni e anni di pratica si era fatto capace che non c’era pirsona cchiù scarsa di ciriveddro di chi pinsava che la soluzioni d’un problema potiva essiri l’omicidio. Autro che De Quincey e L’assassinio come una delle belle arti! ’Mbecilli tutti, sia quelli che ammazzavano al minuto per avidità, gilosia, vinnitta, sia l’autri, quelli che massacravano all’ingrosso in nomi della libbirtà, della democrazia o, pejo ancora, in quello di Dio stisso. E lui si era stuffato di aviri sempri a chiffari con li ’mbecilli. Che certe vote erano furbi, certe vote erano macari ’ntelligenti, come aviva acutamente notato Leonardo Sciascia, ma, zarazabara, sempri scarsi di ciriveddro ristavano.” Lascierebbe volentieri l’indagine ad Augello, ma il suo vice è in ferie, starà a lui, ancora una volta, con l’aiuto di Fazio, a dipanare il groviglio di falsità nel quale l’assassino cerca di nascondersi.
Comincia l’indagine, ma questa volta l’aspettativa del lettore, o almeno la mia, è più focalizzata sul modo in cui Camilleri farà sparire Montalbano che sulla risoluzione del caso (che pure, tranquilli, arriva!) . Alla fine ci si rende conto che gli indizi sono già tutti presenti nelle primissime pagine.
E’ in un grandissimo scrittore siciliano, Luigi Pirandello, che Camilleri trova la soluzione del problema. Il gioco tra finzione e realtà, tra personaggio e autore, su cui si basa tutta l’opera di Pirandello (basti citare I sei personaggi in cerca di autore) prende, con il procedere della narrazione, sempre più spazio, citazioni e riferimenti si infittiscono e il lettore capisce che è giusto così, che non poteva andare altrimenti. La vicinanza tra Camilleri e Pirandello non è solo geografica, ma anche esistenziale .
Chi volesse saperne di più può leggere un bell’articolo a questo indirizzo https://www.biancamagazine.it/pirandello-camilleri-figli-cangiati/#
Pierre Lemaitre, Lo specchio delle nostre miserie
Il romanzo chiude la trilogia inaugurata con lo straordinario “Ci rivediamo lassù” (uscito in Italia nel 2014) , seguito da “I colori dell’incendio”. La continuità con gli altri romanzi è data non tanto da legami, non essenziali, tra i personaggi, ma dalla capacità dell’autore di svelare, per mezzo di una documentata ricerca storica, fatti poco noti e sorprendenti che si collocano all’ interno degli eventi principali della storia francese del ‘900. Qui il contesto è l’imprevedibile e fulminea avanzata dell’esercito tedesco, che, nel corso della seconda guerra mondiale, in pochi mesi, quelli in cui si svolge il romanzo, conquista tutto il territorio francese, sovvertendo tutte le previsioni dei vertici politici e militari e gettando il paese in un incredibile caos. I protagonisti sono assorbiti dal vortice degli eventi che li porta, alla fine del romanzo, a sciogliere i nodi delle loro vite, in un lieto fine romanzesco ed ironico.
Come accade in tutti i romanzi di Lemaitre i personaggi principali hanno tratti iperrealisti e, a volte, grotteschi. Lo scrittore non mira infatti a creare personaggi realistici, ma esasperati, esagerati che si muovono e si rispecchiano in contesti storici eccezionali. Così Louise, modesta maestra elementare, disposta a tutto pur di avere un figlio, protagonista all’inizio del romanzo di un terribile evento che diviene il motore di tutta la storia. Lo stesso si può dire di Raul Landrade , caporalmaggiore e numero uno nel mercato nero, capace di crudeltà terribili e di atti di grande coraggio e altruismo e, soprattutto, dell’istrionico e mitico Désiré Migaud, alias e anagramma di Giedrius Adem, che compare e scompare in tutto il romanzo incarnandosi in personaggi diversissimi tra loro. Il libro non ha la trascinante forza narrativa del primo romanzo della trilogia e la molteplicità dei protagonisti crea, fino a un certo punto, un po’ di confusione.
Poi le storie si ricongiungono e non si può che apprezzare l’abilità di Lemaitre nel ricondurre personaggi così apparentemente diversi e lontani ad una vicenda comune. Chi ha letto i primi romanzi della trilogia ritroverà lo stesso stile ironico, la stessa capacità di imprimere alla trama svolte inattese, lo stesso sguardo disicantato sulla storia e sulle vicende umane.
Elizabeth H. Winthrop, L’ultima notte di Willie Jones
Basato su fatti realmente accaduti, scandito in brevi capitoli, il romanzo di Elizabeth H. Winthrop, “L’ultima notte di Willie Jones”, si legge tutto d’un fiato. Ambientato nel 1943, in una cittadina della Louisiana, racconta le ore che precedono l’esecuzione capitale sulla sedia elettrica di un giovanissimo nero, accusato ingiustamente di aver violentato una ragazza bianca. Ma il dramma di Willie è un modo per raccontare il dolore degli altri personaggi, le cui vite si intrecciano a quella, ormai prossima alla fine, del protagonista.
Innanzi tutto il padre del ragazzo, Frank, che cerca con grandissime difficoltà di trasportare, a dorso di mulo, al cimitero della cittadina dove avverrà l’esecuzione una pesante lapide, comprata contraendo un debito che non riuscirà mai a pagare. Polly, il procuratore distrettuale, che è stato costretto dalle pressioni fortissime della comunità che lo ha eletto e, soprattutto, della polizia locale, infettata dal pregiudizio razzista, a battersi per ottenere una sentenza capitale che non con condivide e che lo porta a scontrarsi violentemente con la moglie. E poi Ora, bianca, che con il marito Dale gestisce una stazione di servizio, che non riesce a convivere con l’angoscia per il figlio, diciottenne come Willie, che sta combattendo in Europa. Ma l’elenco potrebbe continuare: ogni personaggio da’ il nome, più volte, ai brevissimi capitoli che si succedono con un ritmo incalzante. Tra i protagonisti ci sono anche i cittadini di St. Martinville, che non vedono l’ora di veder “friggere” il colpevole sulla sedia elettrica, i bambini neri che vivono in una condizione di terribile povertà, non dissimile da quella degli schiavi di cui sono i nipoti, il calore opprimente che grava sugli uomini e sulla natura.
E per concludere la “Feroce Gertie”, la sedia sulla quale sono state giustiziate ottantasette persone. Trasportata dove serve dal boia a bordo di un furgone, che contiene anche l’apparecchio che genera le scariche elettriche che uccidono i condannati, sembra una comune sedia di legno, se non fosse per le cinghie fissate alla struttura e le macchie ben visibili. Non manca, proprio nella parte conclusiva, un colpo di scena, ma il lettore non deve aspettarsi nessun lieto fine, che sarebbe inconcepibile in una realtà oscura, in cui dominano l’angoscia e la crudeltà, a cui si oppongono però l’umanità e l’onestà di alcuni personaggi.
Il romanzo, pubblicato in italiano nel 2018, è l’unico tradotto della scrittrice newyorkese.
Tayari Jones, Un matrimonio americano
“Nulla di tutto questo dovrebbe essere normale in America”: così Barack Obama ha commentato il terribile omicidio di George Floyd. Purtroppo sappiamo che non è così, tanti film e romanzi ci hanno descritto questa anormalità. “Un matrimonio americano”, uscito in Italia nel 2018 nella bella traduzione di Ada Arduini, racconta proprio un episodio di questa anormalità. “Quello che ti succede non ti appartiene , ti riguarda solo in parte . Non è tuo. Non è soltanto tuo”, questa citazione di Claudia Rankine, che l’autrice premette al libro, ne è un po’ la sintesi. Soprattutto se sei nero. Il romanzo racconta la storia di una giovane coppia di colore, Roy e Celestial, perfettamente integrati nella società americana. Vivono ad Atlanta, lui si è laureato grazie ai programmi ministeriali di sostegno e alle borse di studio, ma importantissimi sono stati i suoi genitori. Hanno condotto una vita dura, svolgendo lavori umili e sottopagati (il padre dopo una giornata di fatica cerca lavoretti da fare di sera), la piccola famiglia ha avuto il necessario per vivere dignitosamente, ma nulla assolutamente di superfluo.
All’inizio del libro la voce di Roy , che si alterna nella narrazione a quella di Celestial e dell’amico di lei Andre, esprime tutta la soddisfazione per essere riuscito a raggiungere una condizione sociale (fa il rappresentante di testi scolastici di matematica, ma non pensa che questo sia il punto di arrivo della sua vita professionale) , in cui il superfluo ( una cena al ristorante, bei vestiti, un’auto nuova) è divenuto la normalità. Celestial appartiene ad una famiglia della borghesia nera di Atlanta, è una promettente giovane artista. Sono sposati da un anno, si amano con passione, stanno seriamente pensando di avere un bambino e di acquistare una nuova casa, anche se Roy non ha rinunciato del tutto all’interesse per altre ragazze, cosa che provoca qualche furibondo litigio. Nel weekend del Labor Day i due vanno a trovare i genitori di lui nel paesino di Eloe, in Lousiana. Per una serie di ragioni decidono di dormire, invece che nella casa di famiglia, in un motel, dove la madre di Roy aveva lavorato per anni come inserviente. E qui cade la “meteora” che distrugge la vita di entrambi. Uscito dalla camera per quindici minuti, il tempo concordato con Celestial per far sbollire gli animi dopo l’ennesimo litigio, Roy va a prendere il ghiaccio da un distributore, incontra una signora più vecchia di sua madre, la aiuta ( lei ha un braccio al collo), sistemando anche il water della sua camera. Uscendo per ritornare dalla moglie si accorge che la maniglia della porta è piuttosto malmessa e invita la signora a chiuderla bene.
Dopo il tempo concordato rientra in camera e trascorre la notte con la moglie. La stessa notte un uomo entra nella camera dell’anziana signora, la violenta. Lei non esita a indicare Roy come colpevole. Qui comincia di fatto il romanzo. Una storia in cui la macchina della giustizia si accanisce contro un giovane palesemente innocente, evidentemente solo per il pregiudizio nei confronti del colore della sua pelle. Nonostante Roy possa pagare un avvocato le sue ragioni non vengono riconosciute, tutta la sua vita è distrutta. Il lettore prova rabbia, ma non incredulità, perché purtroppo la cronaca non fa che confermare la tesi del libro, anzi a volte la supera. Il romanzo ha avuto un enorme successo, per l’estrema abilità narrativa della scrittrice, che racconta una storia avvincente, ma riesce anche a creare personaggi di un’umanità profonda, davvero difficili da dimenticare. La Jones è una scrittrice e docente americana nata ad Atlanta nel 1970. Suggerisco di leggere la bella intervista di Gabriele Santoro , purtroppo di grandissima attualità, uscita sul Messaggero il 12 luglio 2019 e riproposta dal Blog Minima et moralia Riflettendo sull’identità: “Un matrimonio americano” di Tayari Jones – minima&moralia
Carmen Korn, La trilogia
Lettura consigliatissima in questi tempi angosciosi!
Tre romanzi: “Figlie di una nuova era “ “E’ tempo di ricominciare” “Aria di novità” , pubblicati in Italia tra il 2018 e il 2020 che raccontano la vita di quattro donne, tutte nate intorno al 1900, legate da un rapporto di amicizia solidissima, anche se appartengono ad ambienti sociali molto diversi. La loro esistenza si svolge ad Amburgo, e si intreccia con le vicende della Germania dal difficilissimo periodo che segue la prima guerra mondiale alla fine del secondo millennio. Quindi, solo per citare gli eventi principali: nazismo, seconda guerra mondiale, ricostruzione, guerra fredda, terrorismo, riunificazione tedesca. Ma i romanzi sono soprattutto la narrazione delle loro vicende personali, che sfociano nella creazione di una grande famiglia allargata, formata dai loro rispettivi compagni, figli, naturali o acquisiti, nipoti, bisnipoti. La narrazione scorre via veloce e piacevole, perché le sequenze narrative sono molto brevi, e ci si sposta continuamente da un personaggio all’altro. La struttura della trilogia richiama quella di altre celebri saghe: quella dei Cazalet, di Elizabeth Jane Howard o quella della Ferrante,(che la Korn ha dichiarato di non aver letto per non farsi influenzare), ma le somiglianze finiscono lì. Nessuna dei personaggi della Korn ha lo spessore psicologico, vive le drammatiche contraddizioni di Elena e Lila e anche gli altri personaggi, con pochissime eccezioni, sono generosi, sinceri, in grado di attraversare moralmente e fisicamente indenni le grandi tragedie a cui la storia li mette di fronte, di rialzarsi e di realizzare i loro desideri, raggiungendo una condizione di tranquillo appagamento. Insomma una lettura piacevole: i romanzi sono avvincenti, pieni di personaggi e di storie, alla fine ci si affeziona anche un po’ alle quattro amiche. Poi, se loro ce l’hanno fatta a superare eventi così terribili, perché non dovrebbe succedere anche a noi?
Gail Honeyman, Eleanor Oliphant sta benissimo
“Eleanor Oliphant sta benissimo” è uscito in Italia nel 2018, è stato pubblicato in moltissimi paesi ed ha vinto numerosi premi. E’ considerato un esempio di letteratura “up-lift”, che tira su il morale e direi che in questi giorni sembra particolarmente appropriato consigliarne la lettura . E’ Eleonor a raccontare la sua storia, che parte da un terribile dramma infantile, che l’ha costretta a formarsi una corazza impenetrabile con cui affronta il mondo, convinta di “stare benissimo”, fino al momento in cui una serie di eventi fortuiti la portano a scoprire gli altri, a prendere in considerazione la possibilità che qualcuno si interessi veramente a lei e che lei stessa possa prendersi cura di qualcuno.
Ma non è la trama, pur coinvolgente ed emozionante, il maggior punto di forza del libro. Eleonor è una persona colta, che pensa che il mondo debba corrispondere a ciò che ha letto sui libri. Ovviamente la realtà la disillude completamente e continuamente. Il punto di vista è quindi straniato, quasi “autistico” (mi ha un po’ ricordato lo staordinario e imperdibile “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon, che ha per protagonista un ragazzino con la sindrome di Asperger). Questo straniamento ironico caratterizza tutta la narrazione e porta a situazioni comiche .
Per esempio, quando Eleonor decide per la prima volta di farsi depilare in un centro estetico, sceglie, senza sapere di che si tratta, una ceretta Hollywood . Dopo un’ora di intensa sofferenza, ecco il dialogo tra Eleonor e l’estetista Kayla < ‘ Ecco fatto’, concluse togliendosi i guanti e asciugandosi la fronte con il dorso della mano. ‘Non è molto meglio adesso?’ Mi porse uno specchietto affinché potessi vedermi. ‘Ma sono completamente depilata!’ esclamai inorridita. ‘Esatto, è una Hollywood. L’hai chiesto tu.’ Mi sentii stringere i pugni e scrollai incredula la testa . Ero andata lì per cominciare a diventare una donna normale e invece lei mi aveva trasformata in una bambina. ‘Kayla’, replicai, incapace di credere alla situazione in cui mi trovavo, ‘l’uomo che m’interessa è un adulto normale a cui piaceranno rapporti sessuali con un’adulta normale. Vuoi forse insinuare che è una specie di pedofilo? Come osi!’ > Naturalmente niente mancia! Anche lo stile si adegua: il lessico di Eleonor è forbito e preciso, mentre gli altri usano normalmente un linguaggio sciatto o stereotipato, (questa caratteristica si avverte meglio leggendo la versione originale).
Il romanzo è il fortunatissimo esordio di Gail Honeyman, scrittrice scozzese che vive a Glasgow, dove il romanzo è ambientato
Michael Connelly, Doppia verità
Harry Bosch, è in pensione, ha lasciato il LAPD, il dipartimento di polizia di Los Angeles e da volontario si occupa di “casi freddi” per la polizia di San Fernando, piccola municipalità dell’area di Los Angeles. Ma l’assassinio di due farmacisti, padre e figlio, lo riporta sulla scena del crimine. Contemporaneamente si trova coinvolto in un caso che lo riguarda personalmente: un omicida e stupratore, che trent’anni prima Bosch aveva fatto condannare, chiede la revisione del processo. Si avvale di un programma volto a scoprire errori giudiziari avvenuti perché, in passato, non c’erano strumenti di indagine di uso corrente oggi, come l’analisi del DNA. Ma la richiesta del condannato mette in discussione la professionalità e l’integrità di Bosch, che rischia di veder compromesso il suo onore di poliziotto, guadagnato in trent’anni di carriera. Il tempo per smontare le accuse del detenuto è ridottissimo, anche perché, negli stessi giorni, Bosch deve scoprire l’assassinio dei farmacisti, infiltrandosi in una organizzazione criminale. Ovviamente il romanzo rispetta tutte le caratteristiche del genere hard boiled a cui appartiene e, come negli altri romanzi di cui Bosch è protagonista, non mancano i riferimenti al vissuto e alle emozioni del personaggio. La trama è, come al solito, costruita in modo impeccabile e piena di colpi di scena.
Gianrico Carofiglio, La misura del tempo
L’avvocato Guerrieri deve difendere, in appello, il figlio di una sua antica fiamma, Lorenza. Il ragazzo è accusato di omicidio volontario, già condannato in primo grado e non sembra ci siano molte possibilità di ribaltare la sentenza. Guido Guerrieri accetta il caso senza troppa convinzione, quasi per dovere nei confronti di Lorenza, che non ha avuto una vita facile e ne mostra i segni: è molto diversa dalla giovane affascinante e audace di cui si era innamorato in gioventu’. La preparazione dell’appello diventa anche un modo, per Guido, di fare i conti con fatti e sentimenti lontani, che via via gli tornano alla mente. Il romanzo è molto accurato nei riferimenti al diritto processuale e tratta anche argomenti di filosofia del diritto. Queste parti, soprattutto per chi non è un esperto, sono molto interessanti, il linguaggio è semplice e allo stesso tempo preciso, senza mai cadere nella pedanteria. Forse questo è l’aspetto più interessante del libro.
Daisy Johnson, Nel profondo
E’ il romanzo con il quale D.J. è entrata nella shortlist del Man Booker Prize come la più giovane scrittrice in assoluto, all’età di 27 anni.
Si tratta di una storia cupa, che dipana il rapporto madre- figlia intessuto di una trama di incontri e abbandoni in un’ambientazione selvaggia, sinistra, fangosa, dove le acque torbide del fiume su cui vivono sembrano riflettere l’oscura complessità del legame . Il linguaggio intimo e particolare che lega il rapporto tra madre e figlia si scolora nel tempo finchè diventa difficile trovare le parole per dire le cose, per esprimere il proprio sentire, pur risolto alla fine, proprio nell’ultima pagina del libro. Ma, pur essendo interessante l’idea e ottima la scrittura, il romanzo non convince. [Sonia Saponi]
Petros Markaris, Il tempo dell’ipocrisia
Il commissario Charitos, al contrario di molti famosi colleghi italiani, ha una bella famiglia: una donna tranquilla e autorevole per moglie (anche ottima cuoca) e una figlia amatissima. Nell’ultimo romanzo diventa anche nonno e il desiderio di godersi il nipotino entra in conflitto con quello di ottenere la promozione che sta da tempo aspettando. Il caso che deve risolvere riguarda l’attentato nel quale muore un imprenditore filantropo, apparentemente integerrimo. La rivendicazione del gesto è abbastanza sorprendente: se lo attribuisce infatti il fantomatico Esercito degli Idioti nazionali. Al primo attentato ne seguono altri, di personaggi del mondo economico e politico. Chi conosce Markaris riconoscerà anche in questo la peculiarità dell’ autore: l’unione tra giallo e temi sociali. L’origine degli atti criminali va cercata infatti in una società sempre più ingiusta e, appunto, ipocrita. Ciò non riduce nel lettore l’interesse per la trama e l’ammirazione per l’abilità di Charitos nel condurre le indagini. Al lettore italiano non può non venire in mente il detto popolare “una faccia, una razza”, che accomuna italiani e greci non per caratteristiche somatiche, ma, purtroppo, per le difficoltà sociali ed economiche che accomunano i due paesi, come anche il traffico automobilistico, con il quale il commissario deve fare i continuamente i conti ad Atene.
Fiona Barton, Il sospetto
Kate Waters è una giornalista inglese di grandi capacità investigative. Quando due ragazze diciottenni spariscono durante una vacanza e vengono ritrovate vittime di un incendio di un ostello a Bangkok, Kate comincia ad indagare sul caso. E’ motivata, questa volta, da un interesse non solo professionale: anche suo figlio è scomparso in Thailandia e non dà sue notizie da troppo tempo. L’ intreccio è ben costruito e avvincente. Ma vale la pena di leggerlo anche perché mostra benissimo come sia difficile, per un genitore, sapere chi è veramente il proprio figlio adolescente.
Della stessa autrice consiglio un altro bel giallo: La vedova.
Concita De Gregorio, Nella notte
L‘intento della De Gregorio è ambiziosissimo: mostrare ciò che accade veramente “nella notte” e che determina le decisioni cruciali della politica. La “ notte ” sono gli incontri, le cene nelle case, nei ristoranti, in luoghi lontani da uno spazio pubblico e trasparente. Ma anche i centri di dossieraggio che forniscono notizie ai tanti soggetti che agiscono sul web.. Il filo conduttore è la tesi di dottorato di una giovane studiosa, Nora, sulla sorprendente mancata elezione di noto un politico alla presidenza della repubblica. Il romanzo ha chiari riferimenti ad eventi reali, non citati esplicitamente, e costringe il lettore a una continua ricerca per identificare i fatti a cui si allude. Alla storia principale si intrecciano altre vicende, non collegate in modo chiaro e pagine quasi saggistiche sulla comunicazione ai tempi del web. Ne risulta una lettura poco scorrevole e il senso profondo della storia rimane un po’ “nella notte”.
Bianca Berlinguer, Storia di Marcella che fu Marcello
Biografia di Marcella Di Folco (1943-2010) che nasce dall’amicizia tra la protagonista e la giornalista-scrittrice. Una vita per certi aspetti incredibile: attrice, prostituta, transessuale , attivista di primo piano per i diritti civili, politica . Tutto contemporaneamente. Non un romanzo, ma una testimonianza diretta di un grande coraggio nell’affrontare una vita difficilissima, ma che viene definita “bellissima” da chi l’ha vissuta. Senza pretese letterarie, si legge tutto di un fiato.
Michael Connelly, Doppia verità
Harry Bosch, è in pensione, ha lasciato il LAPD, il dipartimento di polizia di Los Angeles e da volontario si occupa di “casi freddi” per la polizia di San Fernando, piccola municipalità dell’area di Los Angeles. Ma l’assassinio di due farmacisti, padre e figlio, lo riporta sulla scena del crimine. Contemporaneamente si trova coinvolto in un caso che lo riguarda personalmente: un omicida e stupratore, che trent’anni prima Bosch aveva fatto condannare, chiede la revisione del processo. Si avvale di un programma volto a scoprire errori giudiziari avvenuti perché, in passato, non c’erano strumenti di indagine di uso corrente oggi, come l’analisi del DNA. Ma la richiesta del condannato mette in discussione la professionalità e l’integrità di Bosch, che rischia di veder compromesso il suo onore di poliziotto, guadagnato in trent’anni di carriera. Il tempo per smontare le accuse del detenuto è ridottissimo, anche perché, negli stessi giorni, Bosch deve scoprire l’assassinio dei farmacisti, infiltrandosi in una organizzazione criminale. Ovviamente il romanzo rispetta tutte le caratteristiche del genere hard boiled a cui appartiene e, come negli altri romanzi di cui Bosch è protagonista, non mancano i riferimenti al vissuto e alle emozioni del personaggio. La trama è, come al solito, costruita in modo impeccabile e piena di colpi di scena.
conti ad Atene.
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