
I corpi delle vittime della strage dell’Italicus il 4 agosto 1974
E’ stato per 20 anni
ai vertici dei servizi
segreti. Potente e inamovibile perchè
era la lunga mano
della Cia
E’ stato il regista
della strategia della tensione e
la mente della politica occulta
L’uomo delle trame, delle stragi e dei misteri

Umberto Federico D’Amato
Lo si può immaginare nella penombra della sua scrivania, azionare le sue marionette, immedesimandosi nel ruolo del burattinaio, di colui che tira i fili nell’ombra.
Sicuramente si sovrastimava, essendo affetto da notevole presunzione ed ambizione, spesso anche rancorose. Ma di certo nella sua lunga carriera ha avuto più potere di molti ministri o capi di governo. Un potere occulto ovviamente.
Molti i soprannomi che gli hanno affibbiato: il grande vecchio, il marsigliese, il padrino, il cuoco, lo sbirro, questo se lo era dato lui. Il capo della Cia, Colby, diceva che era un mago. Il cuoco perchè, altro vezzo, si proclamava grande gatronomo, tanto che aveva una rubrica di cucina sull’Espresso, sotto falso nome.
Quello vero era Federico Umberto D’Amato ed è stato direttore della Divisione affari riservati, il servizio segerto del ministero dell’Interno, che nei fatti significa il capo di tutta la polizia politica. In realtà lo è stato per soli tre anni, ma nel suo caso gli incarichi formali contano poco. Lui è stato sempre molto di più di quel che ufficialmente era, proprio come si conviene ad un uomo che deve muoversi nell’ombra.
Per anni fu il vice della Dar, ma tutti sapevano che il vero capo era lui. E quando fu rimosso, fu una rimozione solo di facciata. E addirittura, quando nell’84 andrà in pensione, continuerà a ricevere uno stipendio e tutti i giorni un funzionario si recherà a casa sua per ritirare indicazioni e consigli per il direttore
Basti pensare che rappresentava l’Italia negli organismi di sicurezza della Nato, ruolo ricoperto da militari e lui non lo era. E ruolo assegnato solitamente ai capi dei servizi dei paesi alleati, lui lo nominarono che era ancora vice.
Il peso e l’influenza di D’Amato a livello internazionale erano indubbi. Fu lui l’ideatore e l’animatore del Club di Berna, che riuniva i principali servizi segreti civili europei con l’aggiunta della Fbi.
Secondo molti stava un gradino sopra a tutti, compresi i capi del Sid, il servizio segreto militare. D’Amato è stato l’eminenza grigia dell’attività segreta in Italia, uno dei registi della politica occulta, il depositario delle chiavi di molti misteri. E siccome lo è stato durante gli anni delle trame e delle bombe ecco un’altro soprannome che gli hanno dato: l’uomo delle stragi.
Fu per venti anni inamovibile e insostituibile. Ma cosa gli dava tanto potere? Era sicuramente intelligente e spregiudicato, duttile, astuto e maestro dell’intrigo, ma tutto ciò non basta. La risposta è un’altra: D’Amato era l’uomo degli americani. Ma non nel senso che era filoamericano, cosa ovvia. Lui era un agente della Cia. Il generale Maletti del Sid, uno che se ne intendeva, visto che lui era un agente degli israeliani, ha detto: <C’era un uomo degli americani infiltrato al Viminale: D’Amato>. E l’’ex agente dell’Oss, Peter Tompkins ha raccontato: <Quando andai a trovare D’Amato a casa sua, mi mostrò una medaglia che gli Stati Uniti gli avevano dato con scritto: per i 30 anni di servizio nella Cia>.
D’Amato è figlio d’arte, il padre è questore. Entra in polizia a 23 anni pochi giorni prima dell’8 settembre. Alcuni mesi dopo conosce James Jesus Angleton, capo di un’unità speciale dell’Oss, il servizio informazioni dell’esercito Usa. All’americano questo napoletano cicciottello e dall’aria sveglia piace. E da quel momento inizia un sodalizio tra i due che durerà 40 anni. Angleton, un’anticomunista viscerale, diverrà vicecapo della Cia e da molti sarà considerato l’anima nera dell’Agenzia.
Appena arrivati gli americani, nella questura di Roma viene costituito un nucleo di controspionaggio alle loro dipendenze, e a capo c’è D’Amato, nonostante sia solo un ragazzo. Angleton lo manda, assieme ad altri, a Salò per convincere Guido Leto, il capo dell’Ovra, a passare agli americani il suo ricco archivio. La guerra sta per finire e subito dopo ne comincerà un’altra contro l’Urss e il Pci. Quei dossier saranno molto utili. La missione ha successo.

James Jesus Angleton, vicedirettore della Cia
D’Amato contribuisce anche a scoprire la rete spionistica dell’Abwehrluft a Roma e per questo viene insignito della Bronze Star. Finita la guerra continua a lavorare per Angleton fino al 47.
Si capisce subito che la sua carriera sarà rapida. Nel 57 è già capo dell’ufficio politico (l’attuale Digos ndr) della questura di Roma. Ma l’anno dopo Tambroni lo esilia a Firenze. Il ministro ha scoperto che qualcuno raccoglie informazioni su di lui e sulla sua relazione segreta con l’attrice Sylva Koscina e si è convinto che sia proprio D’Amato, per conto di Scelba, suo avversario nella Dc.
Ma i protettori di D’Amato entrano in azione e l’esilio dura poco, l’anno dopo è di nuovo a Roma. Intanto Tambroni, dopo aver messo in giro delle foto di Scelba assieme a una giovane fanciulla, ha piazzato i suoi uomini alla Dar. I quali hanno creato un nucleo segreto, una specie di polizia parallela personale del ministro, che in un appartamento privato fa intercettazioni.
Un bel giorno un telegramma di uno di costoro arriva per sbaglio sulla scrivania del questore, che invia un po’ di agenti nell’appartamento. Che ci fate qui, lo sapete che è illegale? Vengono portati tutti in questura, compreso un questore che ingloriosamente si è nascosto sotto il letto. La cosa finisce sui giornali, grande scandalo e il nucleo viene sciolto. Quel telegramma, Tambroni ne è certo, non è arrivato per sbaglio, dietro c’è la manina vendicativa di D’Amato. Non sappiamo se sia vero, ma è molto credibile, il personaggio è capacissimo di una cosa del genere.
Caduto Tambroni, si aprono per lui le porte della Dar. E si capisce subito che non ha il ruolo dell’ultimo arrivato. L’anno dopo partecipa a un’importante missione negli Usa. <…. La Cia ha fatto conoscere alla Commissione italiana tutto il complesso e delicatissimo apparato, sul quale si basa in gran parte l’azione politica e militare, aperta e clandestina, degli USA nel mondo>[1].
La delicatezza dell’incontro è evidente, e il fatto che ad essa, oltre al direttore, partecipi D’Amato, da poco entrato nel servizio, lascia capire la fiducia di cui gode nella Cia, grazie al legame che ha mantenuto con Angleton, per il quale D’Amato non nasconde la sua ammirazione: <…aveva un’intelligenza acuta e mostruosa….>.
Sono gli anni della cosiddetta “distensione” nei rapporti tra Usa e Urss. Ma negli Stati Uniti c’è un blocco politico-economico-militare che osteggia apertamente la nuova politica, che “indebolisce l’Occidente e favorisce i comunisti”. Angleton ne è uno degli uomini di punta e Kennedy ne è la prima vittima. L’Italia è ritenuta uno dei paesi più a rischio, il Pci sta guadagnando consensi e la sua politica democratica e moderata ha convinto molti che ormai siano “comunisti buoni”.
La risposta è la “strategia della tensione”. E D’Amato ne è uno degli strateghi. Non è il solo, anche i cugini del Sid sono impegnati su questo fronte. Ma lui ne è la mente politica, si muove con discrezione, manovra nell’ombra. Quelli del Sid si espongono di più, finiranno in manette e nei tribunali, anche se alla fine la faranno sempre franca.
La strategia non l’ha certo inventata lui, ci sono stati convegni che hanno partorito documenti e manuali, nei quali si spiega come creare tensione e paura in un paese. La Cia ha elaborato anche un piano dal nome esplicito, il “piano Cahos”.
Per metterne in pratica le direttive occorre una manovalanza ed a fornirla sono i neofascisti. D’Amato in persona intrattiene ottimi rapporti con Stefano delle Chiaie. Il capo di Avanguardia nazionale è di casa negli uffici del Viminale. D’Amato provvede anche a finanziare An con 300mila lire al mese [2].

Stefano delle Chiaie
Ed è proprio a Delle Chiaie che, nella primavera del 65, dà l’incaricò di affiggere manifesti inneggianti a Mao. L’idea è di accreditare l’esistenza di forti gruppi filocinesi e spingere il Pci, preoccupato da una concorrenza alla sua sinistra, verso posizioni più radicali. Non è una grande idea, infatti non avrà alcun effetto. Ma l’episodio contiene già tutti gli ingredienti della strategia della tensione che, qualche anno dopo, verranno replicati con effetti ben più drammatici: la Dar come regista di operazioni di provocazione; l’utilizzo dell’estremismo nero; il camuffamento politico; l’obiettivo di radicalizzare le posizioni del Pci; in particolare strumentalizzando i gruppi filocinesi e in seguito anarchici.
Arriva il 69 e non si tratta più di manifesti, ma di bombe. Anche i ragazzi del fido Delle Chiaie maneggiano esplosivo. Ma sono soprattutto i camerati di Ordine nuovo, su in Veneto, a mettere bombe. Ed anche qui arriva la longa manus di D’Amato.
Quando il commissario Juliano fa mettere sotto controllo il telefono di Freda, Molino, capo dell’uffico politico di Padova, lo avverte e poi farà sparire le bobine (che contenevano una prova chiave per risalire agli autori della strage di piazza Fontana), e Molino ha un filo diretto con D’Amato. Quando poi Juliano farà arrestare Fachini, da Roma arriva l’ordine di trasferirlo in Puglia, così che non ficchi più il naso in faccende più grandi di lui.
Poche settimane dopo la questura di Venezia segnala alla Dar Delfo Zorzi come <persona pericolosa per la Sicurezza dello Stato>, chiedendo che venga messo sotto controllo. Ma D’Amato risponde che <non si riteneva opportuno. dare seguito alla proposta nei confronti di Zorzi per mancanza degli elementi richiesti>. E questo nonostante che il nome e la foto di Zorzi compaiano già in una rubrica fotografica della Dar del maggio 69, come terrorista. La meraviglia del questore veneziano sarebbe ancora maggiore se sapesse che anche Zorzi frequenta gli uffici degli Affari riservati.
Del resto Ventura, un altro del gruppo, ai giovani camerati preoccupati della deriva bombarola, un giorno ha detto: <tranquilli, noi siamo ben protetti dietro catene e …catenacci>. Non sono catenacci, ma il questore Catenacci, che nel 69 è il direttore della Dar. E’ il direttore, ma il capo, tutti lo sanno non è lui. Dirà il capo della segreteria della Dar, Giuseppe Mango: <D’Amato era il vero direttore, lo sapevano tutti. Quando Vicari andava dal ministro portava con sè D’Amato, non Catenacci>.
D’Amato veglia sugli ordinovisti veneti, perchè hanno un compito delicato e importante da svolgere. In agosto, sempre loro, mettono 10 bombe su otto treni, facendo alcuni feriti, solo perchè i treni erano semivuoti. Le indagini puntano sugli anarchici, grazie a una soffiata di un infiltrato della Dar tra gli anarchici, ma non portano a nulla.
D’Amato intanto si è fatto spedire i reperti raccolti su uno dei treni: una pila, una lancetta, un quadrante deformato e un pezzo di carta con angeli e bimbi. Reperti importanti per le indagini, che però vengono fatti sparire (verranno ritrovati molti anni dopo in un deposito abbandonato)..
E poi invia una relazione al ministro nella quale spiega che, fino a quel momento, le bombe di matrice nera sono state rudimentali e azionate a miccia. Mentre quelle anarchiche sono state molto più efficienti, tese a colpire le persone e utilizzano orologi come timer. Dunque, conclude, le bombe sui treni sono chiaramente anarchiche. E indica anche in Feltrinelli il finanziatore e mandante, è l’inizio della sua guerra personale all’editore.
Si tratta di una relazione stupefacente, perchè basata su un perfetto ribaltamento della realtà. Come scriverà il giudice D’Ambrosio: tutte le bombe di matrice anarchica erano state innescate da micce, erano esplose di notte e in luoghi deserti. Mentre gli ordigni fascisti erano sempre azionati da orologi e facevano e avrebbero fatto molte vittime.
Che D’Amato possa credere alle sciocchezze che scrive non è pensabile, considerato anche che On è zeppa di informatori, infiltrati e suoi collaboratori. Ma che menta è rivelato anche da un dettaglio che potrebbe essere divertente se non si parlasse di bombe. Nella prima versione della relazione, a circolazione interna, si parla anche della carta con angeli e bimbi, con cui erano incartate le scatole esplosive, così che sembrassero regali. Solo che quella carta è stata fatta sparire. Nella seconda versione infatti della carta non c’è più traccia. D’Amato sarà anche “un mago”, ma stava per fare un’errore da dilettante, citando una carta ufficialmente mai esistita.
Una cosa è però chiara. Già da mesi si lavora a predisporre la pista anarchica. E non solo indirizzando le indagini. Sempre l’effciente Delle Chiaie ha infiltrato nel gruppo anarchico di Valpreda un suo uomo, Mario Merlino. Che appena arrivato si mette a proporre attentati, fidando sul fatto che Valpreda è una nota testa calda. Ma anche questa volta non è stata una sua pensata. Infatti Merlino è un informatore del vicequestore D’Agostino che è un altro uomo di D’Amato, infatti di lì a poco passerà alla Dar. E soprattutto i soldi per pagare Merlino vengono dagli Affari riservati.
Si sta preparando un piano in grande, non più solo qualche bombetta in qua e in là, occorre predisporre anche i colpevoli.
La strategia della tensione comincia a funzionare. L’autunno del 69 è caldissimo, università occupate e grandi scioperi, il governo in crisi e i vertici militari in fibrillazione. Le voci su un possibile colpo di stato si fanno insistenti. E a parlarne non sono i sessantottini, ma ministri democristiani.
Per il 12 dicembre è previsto il colpo decisivo che dovrebbe far precipitare la situazione, non verso un golpe coi militari al potere, ma verso la dichiarazione di uno stato d’emergenza, qualche provvedimento che limiti scioperi e manifestazioni e una decisa svolta a destra. Non è chiaro chi creda fino in fondo a questo progetto, si dice sia Saragat. Ma comunque il progetto c’è.
Questa volta gli avanguardisti e gli ordinovisti agiranno assieme. I primi a Roma i secondi a Milano. Poche ore dopo che le bombe sono esplose e in banca c’è stata una strage, i vertici della polizia annunciano che i colpevoli vanno cercati nell’area anarchica. Come era già stato predisposto.
Due giorni dopo Merlino termina il suo compito facendo il nome di Valpreda: prima di partire per Milano mi aveva chiesto dell’esplosivo. Il ballerino anarchico viene arrestato e portato a Roma. Non si sa perchè, la strage è avvenuta a Milano. La ragione è che le indagini e poi il processo debbono essere fatti a Roma, sotto il diretto controllo degli Affari riservati. Dei giudici milanesi non ci si fida.
Nel mirino di D’Amato c’è anche Feltrinelli, il mandante secondo lui. Ha ordinato di perquisirne la casa, ma il giudice ha bloccato tutto, perchè contro l’editore non c’è il minimo indizio. Ecco perchè non ci si fida.
Intanto Pinelli, al quale in questura viene detto che Valpreda ha già confessato, si rifiuta di ammettere il suo coinvolgimento. Poi finisce giù dalla finestra del quarto piano. Da Roma arriva l’ordine: dite che si è buttato, perchè era ormai incastrato.
Il giorno dopo spunta un tassista che dice di aver portato un uomo con una borsa alla banca, quasi certamente l’attentatore. Lo descrive, non assomiglia a Valpreda, ma gli viene mostrata una foto dell’anarchico poi viene portato a Roma. E qui lo riconosce: è lui!

L’anarchico Pietro Valpreda (a destra)
Il tassista non mente, ha davvero portato qualcuno che aveva una borsa, è sceso e dopo poco è tornato al taxi senza. Ma chi era? Dobbiamo fare un passo indietro. In estate a Milano è stata compiuta la stessa operazione fatta a Roma. Tra gli anarchici è stato infiltrato Nino Sottosanti, noto come Nino il fascista, un siciliano, ex legione straniera. A gestire l’operazione è stato Serafino di Luia, braccio destro di Delle Chiaie. C’è un particolare: Nino assomiglia molto a Valpreda.
Negli anni 90 alcuni collaboratori di giustizia hanno rivelato che fu proprio lui a prendere quel taxi, con lo scopo di incastrare Valpreda. Non sono stati trovati riscontri alla veridicità di questa diabolica messinscena. C’è però un fatto che la rende credibile. L’uomo misterioso prende un taxi per fare 300 metri, lo fa aspettare fuori dalla banca, torna senza borsa, percorre alltri 200 metri e poi scende e se ne va di corsa. Per un attentatore vero un comportamento folle, per uno che deve farsi notare e farsi ricordare una condotta perfetta.
E se le cose sono andate proprio così, qual è la mente sopraffina che può avere partorito il piano?
Molto interessante a questo proposito è quanto accade tre mesi dopo. Di Luia è scappato in Spagna, ma gli è giunta notizia che la polizia si sta interessando a lui, allora rilascia un intervista al Corriere, nella quale dice: <Merlino è stato mandato fra gli anarchici e la persona che lo ha plagiato è la stessa che fece affiggere il primo manifesto cinese in Italia>. Un avvertimento in codice, ma con un destinatario preciso. Pochissimi sanno chi è, ma D’Amato sì. Infatti, piuttosto preoccupato, va dal capo della Polizia e propone di organizzare un incontro con Di Luia, perchè potrebbe sapere delle cose sulla strage. Ma lo scopo è un altro.
A incontrarlo va Russomanno, l’uomo più fidato di D’Amato. Notizie sulla strage ovviamente zero, ma, dopo l’incontro, Di Luia può tornare tranquillamente in Italia e di lui non si parlerà più.
Sulla strage D’Amato è ricattabile.
La strage non ha sortito i suoi effetti. La reazione ferma e composta del Paese ha dissuaso dal dare il via alla fase due. La Dc non si è lasciata prendere la mano. Anche per questo, tre anni dopo, quelli di On tenteranno di uccidere Rumor, il capo del governo che avrebbe dovuto proclamare lo stato d’emergenza.
Tutto il resto invece va secondo i piani. Valpreda è l’assassino, gli anarchici i colpevoli. Non proprio tutto in realtà, perchè il Sid ha giocato uno scherzetto al “padrino”. Ha passato ai carabinieri una velina nella quale si indica come uno coinvolto nella strage proprio l’amico Delle Chiaie. I carabinieri indagano e scoprono che il capo di An e Merlino hanno mentito riguardo all’alibi.
Nel giro di 24 ore Delle Chiaie è già all’estero e ufficialmente non tornerà per 20 anni. In realtà verrà spesso in Italia, ma nessuno se ne accorge. Non poteva certo preoccuparsene D’Amato, visto che si recherà lui stesso in Spagna per partecipare ad una riunione con Delle Chiaie e Guerin Serac, capo di Aginterpress, organizzazione erede dell’Oas, finanziata dalla Cia, con il compito di supporto al terrorismo nero.
Poi succede qualcosa. C’è un braccio di ferro a livello politico. Ai carabinieri vengono tolte le indagini, che saranno condotte solo dalla polizia, sotto la supervisione di D’Amato. La pista Delle Chiaie è abbandonata e il Sid si allinea.
Molti anni dopo il gen. Falde del Sid dirà di aver saputo dal gen Aloja e dal gen. Jucci che la strage fu organizzata dal prefetto D’Amato e che poi il Sid coprì tutto. L’ex ministro Taviani non farà nomi, ma confermerà: <…nel crimine erano implicati anche uomini delle istituzioni>.
Il golpe non c’è stato, ma il progetto non è stato abbandonato. Per tutto il 70 Junio Valerio Borghese, ex comandante della “XMAs” lavora alla sua organizzazione con l’appoggio, almeno a parole, di alcuni politici e dei vertiti delle forze armate [3].
Borghese ha qualcosa in comune con D’Amato, entrambi sono molto legati ad Angleton. Fu infatti l’ufficiale americano che nel 45 lo salvò dai partigiani, travestendolo da soldato americano e facendolo sparire.
Il colpo di Stato è programmato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre. E, strana combinazione, qualche giorno prima Angleton arriva in Italia. Poco prima di mezzanotte una cinquantina di avanguardisti entra al ministero dell’Interno e si impossessa dell’armeria. Non hanno fatto fatica, le chiavi le ha date loro un maggiore di polizia.
Che il Viminale, il luogo più protetto d’Italia, sia in mano a un gruppo di neofascisti è qualcosa di clamoroso e incredibile. E nessuno può credere che un ufficiale si sia preso la responsabilità di un gesto da corte marziale. Il via libera deve essere venuto dall’alto. Non certo dal capo della polizia Vicari, visto che il piano prevede che nella notte sia ucciso da uomini della ‘ndrangheta. Sotto Vicari c’è D’Amato.
Ci sono molte tracce che convergono su di lui. Ad occupare il Viminale sono i camerati di Delle Chiaie, molto legato a D’Amato. Borghese indicherà Angleton come la mente americana del golpe e i rapporti con D’Amato sono noti. Uno degli organizzatori del golpe è un funzionario del Viminale, Salvatore Drago, che il Sid indica come “molto vicino a D’Amato”.
E poi c’è un’informativa del Sid, che giunge da un centro periferico e recita: <…elementi del Fronte nazionale introdotti nel ministero dell’Interno da ingressi secondari, sarebbero stati ricevuti da un maggiore di Ps. Questi a nome del vice del dottor D’Amato avrebbe provveduto alla distribuzione ai convocati di armi… degli avvenimenti… non sarebbero stati all’oscuro l’ammiraglio Birindelli i… il capo di Stato maggiore della Marina Roselli Lorenzini, il capo di Stato maggiore dell’Esercito Mereu, il comandante della III armata, il comandante delle fanterie del sud Europa e alcune personalità del Quirinale…>.
All’una arriva il contrordine: tutti a casa, il colpo di stato è rinviato. Non si è mai saputo chi ha dato l’ordine e il motivo. Pare che sia venuto meno l’appoggio dei carabinieri. Ma non è escluso che, all’insaputa di Borghese, che ha già preprato il discorso da pronunciare agli italiani in tv e ha in frigo una bottiglia di Dom Perignon, il dietrofront fosse previsto fin dall’inizio. Più che un vero golpe una messinscena per aumentare la tensione, un avvertimento soprattutto alla Dc, una minaccia a chi sta parlando di aperture al Pci.
Anche altre informative giunte al Sid indicano in D’Amato il regista del golpe, reale o fittizio che fosse
Il capo degli Affari riservati (ora lo è anche ufficialmente) ancora nel 72 continua ad attribuire a Feltrinelli la responsabilità di piazza Fontana, nonostante sappia benissimo che non è vero. L’editore finisce però per dargli una mano, perchè dopo la strage si è convinto che non ci sia altra strada che la lotta armata, ha fondato i Gap e si è messo a fare il guerrigliero.
Una notte di marzo, mentre sta minando un pilone dell’alta tensione, salta in aria e muore. Poco dopo D’Amato, in una sua relazione agli spioni di tutta Europa, se ne attribuisce il merito. Pochi mesi prima infatti aveva fatto pubblicare un libello intitolato “Feltrinelli, guerrigliero impotente“, nel quale denigrava il capo dei Gap, dandogli dell’impotente sessuale, accusandolo di giocare alla rivoluzione, ma di rimanere un miliardario che schifava i compagni pidocchietti e soprattutto di non avere coraggio: mandava gli altri a mettere bombe mentre lui se ne stava al sicuro nelle sue ville. Cosa del tutto falsa, ma il punto è un altro..
Nella sua relazione D’Amato scrive che: <Il libro è stato uno shock psicologico per Feltrinelli>. Probabilmente una millanteria, ma essendo i Gap abbondantemente infiltrati, è anche possibile che fosse in grado di controllare Feltrinelli passo passo. <Il libro – scrive ancora -voleva esercitare una vera e propria azione psicologica… ed ha funzionato>. Un’altra sbruffonata, tipica di D’Amato. Feltrinelli non è certo salito sul traliccio spinto dalla provocazione del supersbirro.
Ma questa relazione è molto interessante per un altro motivo. Il compito di un poliziotto è quello di impedire che si mettano bombe e non di spingere a farlo. Ancora una volta, e questa volta dalle sue stesse parole, emerge il ruolo di provocatore e fomentatore della strategia della tensione di D’Amato. Il neonato terrorismo rosso è perfettamente funzionale a questa strategia e va alimentato, non represso.
Un paio d’anni dopo, durante il sequestro Sossi, pronuncia un’altra frase abbastanza stupefacente e rivelatrice: <Noi i brigatisti rossi li conosciamo tutti, uno per uno>. Un’altra delle sue vanterie alle quali non riesce a resistere. Che li conoscano, forse non tutti ma molti, però è vero, perchè la polizia ha un infiltrato. Ma perchè allora non ne hanno arrestato neppure uno? Dovrà arrivare Dalla Chiesa per prenderli.
L’unica operazione della polizia, nel 72, fu condotta in un modo assurdo. Scoperto un covo e arrestati un paio di brigatisti minori, neanche mezz’ora dopo il questore aveva convocato le tv davanti al covo, consentendo così a Moretti e Franceschini, due capi delle Br, che proprio lì si stavano dirigendo, di squagliarsela. Franceschini stesso dirà: <Potevano prenderci tutti, ma non l’hanno fatto>.
D’Amato non riusce ad essere un perfetto uomo dell’ombra, un regista che mai appare. Forse lo frega il suo carattere partenopeo, ma soprattutto la sua presunzione di essere uomo colto, raffinato e furbissimo e quindi il suo bisogno di esibire tutto ciò in qualche modo. Infatti scrive anche su un giornale. Con lo pseudonimo di “abate Faria” collabora con il Borghese, settimanale di destra diretto dal suo amico Mario Tedeschi, ex repubblichino e deputato del Msi.
Tedeschi è più di un amico, è il suo tramite, spesso il suo rappresentante. E’ lui ad esempio che materialmente da i soldi a Delle Chiaie.

Il magistrato Sossi nella prigione delle Brigate rosse
Pochi giorni dopo la liberazione di Sossi, gli ordinovisti, sempre gli stessi di piazza Fontana, fanno esplodere una bomba a piazza della Loggia a Brescia. Ed è un’altra strage. Nemmeno 24 ore dopo il ministro Taviani chiude l’Ufficio affari riservati e rimuove D’Amato che viene messo a capo della polizia di frontiera. La decisione è clamorosa, anche se passa quasi sotto silenzio.
La motivazione ufficiale è che occorre creare un organismo che sappia combattere il terrorismo con più incisività. Più incisività di così ci vuole poco. Ma se in sei anni la Dar non è riuscita a fornire neppure una mezza informazione utile sull’attività del terrorismo nero, pur avendo tra le sue fila molti informatori e collaboratori e nonostante i suoi capi frequentino le questure e il Viminale, non può essere frutto di inefficienza. Questo la capisce chiunque.
E l’ha capito anche Taviani, è evidente che ritiene D’Amato uno dei buchi neri degli apparati dello Stato, uno che ha chiuso un occhio, anzi tutti e due e fors’anche ha guidato la mano degli stragisti. Ma D’Amato è troppo potente e dietro di lui ci sono troppi uomini dello Stato coinvolti, e strutture segrete che Taviani stesso ha messo in piedi, come Gladio, e ci sono gli americani. Non lo si può accusare nè cacciare, gli si toglie il suo giocattolo, ma resta ai vertici del Viminale.
Al posto della Dar viene creato l’Ispettorato generale antiterrorismo diretto da Emilio Santillo. Pochi giorni prima Taviani aveva creato anche il Nucleo speciale antiterrorismo comandato da Dalla Chiesa, per combattere le Br. Le mosse di Taviani hanno un significato chiaro: finora chi doveva combattere il terrorismo nero e rosso, non lo ha fatto.
Tra la primavera e l’autunno del 74 si gioca una partita sotterranea tra la Dc e gli apparati segreti italiani e stranieri e all’interno di questi. La strategia della tensione è stata un fallimento, il Pci e la sinistra ne sono usciti più forti. E’ ora di finirla con la stagione delle bombe, delle trame e dei golpi, tentati, progettati o solo messi in scena. Ma allo stesso tempo non si può e non si vuole smantellare quelle strutture occulte che sorvegliano la fedeltà atlantica dell’Italia.
Ciò risulta chiaro già pochi giorni dopo, quando si scopre che D’Amato ha conservato il comando dell’Ufficio Nato, presso il ministero dell’Interno. Ruolo che gli dà titolo a frequentare le riunioni dell’apparato sicurezza della Nato.
Ma è ancora poco. Evidentemente gli uomini che lo proteggono si sono mossi e alcune settimane dopo segretamente gli vengono rimessi in mano quei fili che nell’ombra lui sa muovere così bene. Così segretamente che quasi nessuno lo sa. Sarà D’Amato stesso a rivelarlo, nell’81, in una lettera inviata al ministro Rognoni. <Dal ministro e dal capo della polizia mi fu fatto presente che, pur nelle nuove funzioni, io non avrei potuto esimermi dal mettere al servizio dello Stato ….. il mio personale patrimonio di esperienze e di conoscenze….. ho svolto questo compito informativo e di consulenza nel corso degli ultimi 7 anni … non c’è stato argomento di rilevanza di cui io non sia stato chiamato a occuparmi: dal terrorismo al caso Moro>.
Rognoni preciserà che da D’Amato in realtà non ricevette mai una sola informazione utile. A conferma che il suo ruolo non era quello di servitore dello Stato. D’Amato continuerà ad essere per molti anni (fino all’84) il capo ombra degli affari riservati, anzi riservatissimi.
Continuerà a disporre di una rete di informatori che facevano capo solo a lui. Continuerà a muovere pedine, manovrare, controllare, disporre. Lo dimostrano anche i molti documenti segreti del ministero che verranno trovati nella sua abitazione privata, che evidentemente gli venivano regolarmente passati. E che lui chiamava allusivamente “la mia polveriera”.
La divisione affari riservati non c’è più, ma c’è una struttura ancor più potente, ramificata e interna a ministeri e forze armate: la P2, della quale D’Amato fa parte e non certo come semplice affiliato.
Ufficialmente prende la tessera nel 77. Lui ha sempre sostenuto di esservi entrato per svolgere compiti di tipo informativo. Peccato che non risulta abbia mai fornito informazioni sulle attività della loggia segreta. Sosterrà di averle fornite riservatamente agli americani e a un giornalista. Ma se tu sei un funzionario di polizia informa la polizia e con rapporti che restino agli atti. Ma non esistono.
Ed anzi cercherà sempre di dipingere Gelli come un pover’uomo, interessato solo a far un po’ di soldi. <Avrò visto Gelli 5, 6 volte in tutto: mi annoiava, era sostanzialmente un cretino. Diceva delle tremende banalità, però era persuasivo, rassicurante…. ma badava solo a fare affari>.
Passano solo due mesi dalla sua “defenestrazione”, che la pingue sagoma del prefetto D’Amato spunta dietro a una nuova strage. Il 2 agosto salta in aria il treno Italicus. A metà luglio erano stati predisposti controlli sui treni che attraversavano l’Appennino e sulla linea ferroviaria, a seguito di alcuni attentati avvenuti in primavera. Ma il primo agosto qualcuno ordina di sospendere i controlli.
Chi è stato? Il capo della polizia non ne sa niente, era in ferie. Il telegramma di revoca porta la firma di Parlato, vicecapo della polizia, che però dice di non saperne nulla e spiega: <era prassi firmare col nome del capo o del vice le direttive generali, anche se ad emanarle erano altri dirigenti>. E questi dirigenti, dice Parlato, possono essere o Santillo, capo dell’antiterrorismo, o D’Amato, capo della Polfer. I due negano ogni responsabilità. Ma Santillo non può essere, avendo predisposto lui il rafforzamento dei controlli.

Il corpo di Aldo Moro ucciso dalle Brigate rosse
Il braccio di ferro sulla strategia della tensione trova la sua soluzione in America. In estate Nixon, travolto dallo scandalo Watergate, si dimette. Di lì a poco Angleton viene cacciato dalla Cia, accusato di azioni illegali. E in Italia cessano gli attentati, le stragi e i progetti di colpi di stato.
Lo conferma il gen Maletti: <La fine di quella politica fu legata all’estromissione da parte della stessa Cia di James Jesus Angleton>. E, indicando in Angleton il terminale superiore della strategia della tensione, indirettamente indica in D’Amato il terminale italiano.
A partire dal 75 l’attività di D’Amato è ancor più riservata, informale e segreta, e se ne sa molto poco. Ma sempre nel suo stile. Ad esempio incontra personalmente Adriano Sofri , il capo di Lotta Continua, e gli offre impunità se collaborerà all’eliminazione degli ex compagni che hanno fondato i Nap. Una provocazione-trappola come quella con Feltrinelli. Ma Sofri rifiuta.
All’inizio del 78 arriva in Italia Francesco Pazienza, lo ha mandato il gen. Haig, ex comandante della Nato e braccio destro di Reagan, che ancora non è presidente, ma si prepara a diventarlo. A presentarlo al ministro Cossiga è Michael Ledeen, stretto collaboratore di Haig, quello che architetterà il Billygate, lo scandalo che farà perdere le elezioni a Carter. Non si può dire di no a gente così, non certo Cossiga, che lo piazza al Sismi.
Pazienza è stato mandato dagli uomini di Reagan ad affiancare Gelli e in particolare a fungere da collegamente o meglio controllo sui servizi segreti italiani. Ufficialmente è un consulente del gen Santovito, in realtà per tre anni sarà il capo-ombra del Sismi. Usa l’ufficio di Santovito come fosse il suo, risponde al telefono, dà ordini.
Sono gli anni nei quali la P2 controlla tutti i vertici dei servizi e non solo. Gli anni in cui, accanto ai rapporti storici coi fascisti, si sviluppano i rapporti con la criminalità, dalla mafia alla banda della Magliana.
E D’Amato? Lui è perfettamente al centro di questi rapporti, non solo perchè esponente di primissimo piano della P2, ma perchè da subito lui e Pazienza diventano come il gatto e la volpe. I due spesso si incontrano a casa di D’Amato, non possono certo vedersi al Viminale. L’amicizia è tale che Pazienza lo chiama Umbertino.

La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980
Quando rapiscono Moro, nell’ufficio di Cossiga fa la sua comparsa più di una volta Ledeen. E’ lui a consigliare di far venire dall’America un esperto di terrorismo, Pieczenik, anche lui uomo dell’entourage repubblicano. Cossiga lo mette a capo di un comitato semisegreto di esperti. Non si conosceranno mai i nomi di tutti coloro che ne fanno parte e i verbali delle riunioni saranno distrutti. Sappiamo però che ne fa parte anche D’Amato. E’ dunque vero che si occupò anche di Moro, ma anche questa volta senza portare una sola informazione utile a liberare l’ostaggio. Del resto non servivano, è questo comitato a decidere di abbandonare Moro al suo destino.
D’Amato muore il 2 agosto del 96, passato totalmente indenne attraverso venti anni di stragi, morti, intrighi, sui quali in un modo o nell’altro la sua ombra corpulenta si è allungata.
Solo 24 anni dopo la sua morte il suo nome compare tra gli accusati di un reato gravissimo. Pochi giorni fa la procura generale di Bologna lo ha indicato come uno dei mandanti, organizzatori e finanziatori della strage alla stazione di Bologna, insieme a Licio Gelli, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi. Ma non saranno mai processati, perchè tutti già morti.
Dunque questa breve biografia, dovrà essere aggiornata con un nuovo capitolo.
Dopo la sua morte, in una sua cassetta di sicurezza, è stato trovato il libro di Yukio Mishima, Sole e acciaio. Autobiografia e manifesto ideologico dello scrittore giapponese, nazionalista, tradizionalista, bisessuale e fondatore di una setta paramilitare che si suicidò col il rito dei samurai in diretta tv all’età di 45 anni.
giorgio gazzotti
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