Tra i personaggi dell’ Inferno due coppie di dannati restano impresse per sempre nella memoria del lettore e testimoniano che odio e amore hanno la stessa potenza, la stessa capacità di vincere il tempo e, in questo caso, anche la morte.

La prima, costituita da Paolo e Francesca, è il simbolo di un amore talmente forte da sopravvivere anche tra i tormenti dell’Inferno, ma il conte Ugolino della Gherardesca e l’ arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini  sono ugualmente inseparabili, legati da un odio che niente può attenuare. Come per Paolo e Francesca è solo uno degli appartenenti alla coppia a parlare, mentre l’altro rimane muto durante tutto il colloquio con Dante. Ugolino e Ruggieri sono incastrati fino al collo nella palude gelata formata dal fiume Cocito, dove, nel nono cerchio dell’Inferno, vengono puniti i traditori. Sono vicinissimi, la testa dell’uno, dice Dante, forma quasi un cappello per l’altra. Ugolino, posto sopra Ruggeri, ne mastica il collo,  l’attaccatura tra cervello e colonna vertebrale, come un animale.

(Inferno, canto XXXIII, vv.1-3)

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.

Il fiero ( feroce) pasto non è quindi  altro che la testa del suo acerrimo nemico.  Per poter parlare con Dante, il conte ripulisce la bocca dai capelli, usando per questo scopo la chioma dell’arcivescovo, e cessa per poco tempo di guastare cioè di rosicchiarne la nuca. Si tratta di due illustri protagonisti della storia toscana della fine del Duecento: entrambi appartenenti a nobili famiglie di Pisa, si alternarono al governo della città. La collocazione nel nono cerchio non lascia dubbi sul giudizio di Dante: sono entrambi dei traditori politici. Ugolino, signore di Pisa, ha tradito la sua città cedendo dei castelli pisani ai Lucchesi e ai Fiorentini, ha tradito il nipote Nino Visconti accordandosi con l’arcivescovo Ruggeri, che in seguito lo tradisce a sua volta e, dopo averlo catturato, lo rinchiude, insieme a due figli e due nipoti, nella torre della Muda, sulla piazza degli Anziani di Pisa. Uno dei tanti episodi della politica dell’epoca, che, due secoli prima di Machiavelli , non si caratterizza certamente per un eccesso di scrupoli morali. Ma perché Ugolino accetta di parlare con Dante e di rievocare un dolore indicibile? Per infamare il nome di Ruggeri, attraverso il resoconto che Dante farà del loro incontro. E’ spinto dallo stesso odio che lo costringe per l’eternità a rosicchiare il suo nemico. Il racconto di quanto è successo in quella torre è agghiacciante.

Comincia con un sogno, doloroso e premonitore

(Inferno, canto XXXIII, vv.22-36)

 Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ‘l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,

m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’ io feci ‘l mal sonno
che del futuro mi squarciò ‘l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ‘ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ‘ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.

Attraverso un piccolo foro nella torre, nella quale, dice Ugolino, verranno imprigionati altri dopo di lui, il conte ha visto passare più lune, sono cioè già passati più mesi. Ma una notte l’ orribile sogno turba il suo sonno. Il protagonista è  Ruggeri, a capo (maestro e donno) di una battuta di caccia che si svolge sul monte San Giuliano, che separa Lucca e Pisa. Con  altri cacciatori (sono gli esponenti delle famiglie pisane che l’arcivescovo è riuscito a coalizzare contro Ugolino) aiutati da cagne affamate, smaniose ed esperte ( studïose e conte)  è all’inseguimento di  un lupo e dei suoi cuccioli: non è difficile immaginare chi siano i lupi, che ormai stanchi, vengono dilaniati nei fianchi dai denti aguzzi delle cagne.

(Inferno, canto XXXIII, vv.37-48)

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ‘l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’ io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.

Prima dell’alba Ugolino sente piangere i suoi figli, che domandano del pane: evidentemente hanno fatto un sogno analogo. Ma perché Dante, si chiede il conte,  rimane impassibile davanti ad un dolore così grande? Arriva l’ora in cui, di solito, il cibo viene portato ai prigionieri. Ma in quel momento loro capiscono che la il sogno sta divenendo realtà: la porta della torre viene inchiodata, nessuno darà più loro da mangiare.  Ugolino, senza parlare, guarda in faccia i suoi figli, che hanno capito cosa li attende.

(Inferno, canto XXXIII, vv.49-75)

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.

Perciò non lagrimai né rispuos’ io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi

e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.

Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’ io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno».

Il racconto si fa sempre più drammatico. I figli piangono disperati, ma il cuore di Ugolino è ormai divenuto di pietra, non risponde alle loro domande, è incapace di confortarli, anzi, li terrorizza con un gesto rabbioso: si morde le mani, anticipando il gesto che ripeterà in eterno. Loro gli offrono addirittura di cibarsi dei loro corpi: lui li ha generati, lui può togliere loro la vita. Ma di nuovo il conte rimane in silenzio. Nei giorni successivi i figli muoiono uno dopo l’altro, senza un abbraccio, un gesto di affetto del padre, la cui voce  risuona inutilmente solo quando sono ormai sono tutti morti. Non necessariamente il verso che conclude il terribile racconto significa che Ugolino si è cibato dei cadaveri: può anche semplicemente alludere al fatto che la fame ha avuto il sopravvento su di lui, sopravvissuto al dolore.

Nessun tradimento può giustificare una morte così orribile, e ancor meno è giustificata l’uccisione dei figli e dei nipoti, colpevoli solo di essere parenti del conte. Eppure Dante, che in altri casi dimostra la sua pietà nei confronti dei dannati, senza ovviamente mettere in discussione il giudizio divino, in questo caso non reagisce, non commenta. Forse perché chi, in preda ad un odio furioso e totalizzante, non è stato capace di offrire una parola di conforto alle persone a lui più vicine, non merita la sua  pietà. E quindi, mentre il dolore di Paolo e Francesca lo aveva fatto piangere e lo aveva commosso al punto di perdere i sensi, qui non rivolge neppure una parola ad Ugolino. Auspica solo che le isole dell’arcipelago toscano, Capraia e Gorgona, sbarrino il corso dell’Arno e lo facciano straripare, in modo da annegare tutti i pisani, colpevoli di appartenere ad una città che ha scelto di uccidere, in modo atroce, dei giovani innocenti.

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