Una disputa simile a quella tra San Francesco e il nero cherubino avviene tra un diavolo e un angelo al momento della morte del figlio di Guido, Bonconte da Montefeltro, anche questa volta per il possesso della sua anima.
Bonconte, condottiero come il padre, muore nella battaglia di Campaldino del 1289, a cui anche Dante aveva partecipato (nello schieramento opposto: Dante era tra i guelfi, Bonconte tra i Ghibellini. L’incontro tra i due nell’aldilà avviene nel quinto canto del Purgatorio, dove il Montefeltro si trova tra i negligenti, anime che hanno atteso il momento della morte per pentirsi, morti di morte violenta.
Alla domanda di Dante che gli chiede dove si trovi il suo corpo, mai ritrovato dopo la battaglia, l’anima risponde, svelando il mistero della sua sepoltura.
(Purgatorio, canto V, vv. 94-108)
«Oh!», rispuos’ elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.Io dirò vero, e tu ‘l ridì tra ‘ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”.
Bonconte, ferito a morte, lasciando una scia di sangue sul terreno, arriva alla foce dell’Archiano, uno degli affluenti dell’Arno che nasce sopra l’eremo di Camaldoli. Non ha ovviamente tempo e modo di confessarsi (e un guerriero dei peccati ne commette!), ma in punto di morte si pente, si affida a Maria e questo basta per salvarsi l’anima. Il diavolo è furente: come può bastare una lagrimetta per sottrarsi all’Inferno? Il confronto con il destino di Guido è evidente. Non è la forma a contare (Guido era stato assolto da un papa!), ma la sincerità dei sentimenti e delle intenzioni, che solo Dio conosce davvero.
Al diavolo, scornato e rabbioso, non resta che vendicarsi sul suo povero corpo.
(Purgatorio, canto V, vv. 124-129)
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la crocech’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
Il maligno scatena una tempesta: la pioggia gonfia i fiumi della vallata, l’Archiano, divenuto impetuoso (ma rubesto richiama con grande efficacia la rabbia che dal diavolo si è trasferita nella natura), trascina nell’Arno quel povero corpo, sciogliendo la croce che Bonconte aveva fatto sul petto con le braccia e il fiume, dopo averlo trascinato e rigirato sul fondo, lo seppellisce tra i detriti. Per questo il suo corpo non è mai stato ritrovato.
Sulla terra si pensa che Bonconte, evidentemente non troppo dedito alle pratiche religiose, sia all’Inferno, al contrario del padre, frate francescano, che tutti credono salvo. E se Guido da Montefeltro non vuole che si sappia la verità sulla sua ultima sorte , Bonconte chiede a Dante di riferire ai vivi la sua storia, soprattutto alla moglie e ai familiari, che credendolo dannato, non pregano per lui.
Anche quella di Bonconte è una storia emblematica, che Dante racconta non solo per il gusto di ricostruire con la fantasia quello che nessuno sa (come accade per esempio con Paolo e Francesca).
La sua missione gli impone di mostrare attraverso la vicenda di personaggi famosi il disordine e la brutalità della sua epoca, le guerre continue che gettano nell’infelicità i suoi contemporanei e, soprattutto, distogliendoli dalla cura della propria anima, possono portare a una sorte ben più tremenda: la perdizione eterna.
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