Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto — gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole — è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento…”
Chi ha vissuto come un’esperienza di vita la lettura del ciclo di romanzi che ci racconta la storia di Lila Cerullo ed Elena Greco, dall’infanzia a Napoli negli anni Cinquanta del secolo scorso fino a oggi, ma anche, ancora prima, si è fatto trascinare e coinvolgere dal potente gorgo oscuro dei suoi libri precedenti (L’amore molesto , I giorni dell’abbandono) non poteva non aspettare con ansia l’uscita del nuovo romanzo della Ferrante.
E non si può dire che la lettura de La vita bugiarda degli adulti risulti meno coinvolgente. Eppure alla fine del romanzo non si può non concordare con le parole con le quali la protagonista, Giovanna, introduce la sua storia: “un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione”.
Il romanzo è ambientato sempre a Napoli, negli anni Settanta . Non è cambiata però la rappresentazione della città, con la netta separazione tra quartieri alti, Vomero, Posillipo e zone popolari, Poggioreale, l’Arenaccia, piazza Nazionale. Il padre di Giovanna viene dalla Napoli popolare e povera che ben conosciamo: Piazza Nazionale non dista che una ventina di minuti a piedi dal rione Luzzatti, celebre scenografia dell’ Amica geniale. Anche se sono passati circa vent’anni, la periferia est di Napoli ha conservato le stesse caratteristiche: povertà, scarsa scolarizzazione, ma anche una vivacità della vita di strada che ovviamente i quartieri borghesi non conoscono.
Il padre di Giovanna ne è uscito, grazie all’impegno e allo studio. E’ diventato professore di liceo, collabora con diverse riviste impegnate, “un intellettuale abbastanza noto in città”. Anche la madre è un’insegnante di liceo e redattrice di una casa editrice che pubblica romanzi popolari.
I rapporti con la famiglia di origine sono stati completamente tagliati: Giovanna, che frequenta il quarto ginnasio, non conosce neppure di vista gli zii e gli altri parenti paterni,che sono rimasti a vivere nel quartiere di origine del padre. La ragazzina è stata educata con cura, seguendo il modello pedagogico tipico degli intellettuali di sinistra degli anni Settanta: l’ hanno abituata a leggere, a informarsi sull’ attualià, le hanno dato una corretta educazione sessuale, l’hanno protetta e isolata dalla cultura popolare, arcaica e tradizionalista, che caratterizza la famiglia d’origine paterna.
A sua volta Giovanna idealizza i genitori: “quant’ero stata fortunata, non avrei potuto trovarne di migliori .Erano bellissimi e si erano amati fin da ragazzi”. Ma l’infanzia felice di Giovanna finisce quando una frase detta tra i genitori, che non sanno di essere ascoltati, spezza il rapporto idilliaco che unisce i componenti della piccola famiglia.
“L’adolescenza non c’entra: sta facendo la faccia di Vittoria.” È la frase che Giovanna sente per caso, dopo che uno dei genitori ha lasciato per sbaglio una porta aperta. “Fu così che a dodici anni appresi dalla voce di mio padre, soffocata dallo sforzo di tenerla bassa, che stavo diventando come sua sorella, una donna nella quale – gliel’avevo sentito dire fin da quando avevo memoria – combaciavano alla perfezione la bruttezza e la malvagità. .. Il nome Vittoria suonava in casa mia come quello di un essere mostruoso che macchia e infetta chiunque sfiori.”
Giovanna è in un periodo difficile, a scuola ha, per la prima volta, qualche difficoltà, ma la frase del padre trasforma un lieve disagio adolescenziale in un malessere profondo. Anche se i genitori cercheranno di rassicurarla, negando che il padre abbia detto quelle parole sul serio, lei deve assolutamente conoscere quella zia Vittoria che, tenuta sempre lontana, sta riemergendo, con la sua bruttezza e volgarità, nel suo volto di adolescente.
I genitori, dopo qualche resistenza, capiscono che il desiderio di Giovanna è incoercibile e , da persone tolleranti e aperte quali sono, accettano che la figlia incontri la zia, pur sotto la loro supervisione. L’incontro con Vittoria è l’incontro con un mondo antropologicamente del tutto diverso: Vittoria è povera, fa la serva, la sua casa è ben lontana dal modello di abitazione piccolo borghese a cui la ragazzina è abituata. Il mondo dei genitori è laico e razionalista, educato e formale. Qui si parla coi morti come se fossero vivi, le relazioni umane sono dominate dalla passionalità, il sesso entra nei discorsi con una brutalità lontanissima dalla asettica educazione che Giovanna ha ricevuto .” A casa mia era un obbligo nascondere i sentimenti, non farlo pareva cattiva educazione. Invece lei dopo ben diciassette anni – mi sembrò un’eternità – si disperava ancora, piangeva …”
Anche la lingua è diversa: non più l’italiano forbito dei genitori, ma un dialetto sanguigno e violento, che Giovanna neppure capisce. Ma l’incontro è sconvolgente anche per la narrazione diametralmente opposta che zia Vittoria fa delle motivazioni che hanno causato la fine del rapporto con il fratello, mostrando a Giovanna un ritratto del padre molto diverso da quello che lei si era creata e che si rivela poi, nel corso del romanzo, parzialmente vero (di qui il titolo)
Giovanna rimane sconvolta e, allo stesso tempo, affascinata dal mondo di Vittoria e delle persone che la circondano.Il desiderio dei genitori che Giovanna non riveda più la zia non si realizza. Giovanna cerca in quell’ambiente, apparentemente tanto meno ordinato e confortevole del suo, qualcosa che fa parte comunque di lei, che fino a quel momento è rimasto latente , ma che aveva cominciato ad emergere oscuramente proprio nel corso della sua crisi adolescenziale. Anche il lessico di Giovanna si modifica, il dialetto entra nel suo linguaggio, soprattutto con la volgarità dei riferimenti alla sfera sessuale, che la ragazzina adotta anche per descrivere in modo diretto ed esplicito le sue esperienze.
La sua formazione avviene attraverso una discesa volontaria verso quella bruttezza, non solo fisica, che il padre aveva constatato. E’ solo toccando il fondo di questo abbruttimento che Giovanna può trovare la forza di far riemergere le sue qualità positive, intellettuali e fisiche, che aveva completamente disconosciuto. Ma lo farà da sola, prendendo le distanze dall’ipocrisia e dalla falsità del mondo degli adulti, che viene simbolicamente rappresentato da un braccialetto, che passa continuamente di mano in mano, di cui tutti raccontano una diversa provenienza e una diversa storia .
Il garbuglio, altro simbolo, molto letterario ( difficile non pensare al manzoniano guazzabuglio del cuore umano) alla fine del racconto, però, come la stessa Giovanna afferma, non si scioglie. Forse perchè la protagonista è troppo giovane, e questa condizione di smarrimento è inesorabilmente connaturata all’età adolescenziale. Forse, come per Lila ed Elena, saranno altri romanzi che troveranno il bandolo del filo per scioglierlo.
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