“Il tramonto della luna” non è una delle liriche di Leopardi che si leggono normalmente a scuola. Il tema è infatti la vecchiaia, che il poeta considera, come scrive nei Pensieri <il male sommo: perchè priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti>. Giustamente: un(a) diciottenne può capire certamente il senso letterale dei versi, ma non sentirne l’angoscia, la tristezza profonda, la desolazione. E’ una delle ultime, forse l’ultima, delle liriche leopardiane, scritta probabilmente nel 1836 e pubblicata postuma dall’amico Ranieri. E’ una canzone libera, cioè senza uno schema rigido che si ripete nelle quattro strofe.
Quale in notte solinga,
sovra campagne inargentate ed acque,
Là ‘ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
La prima strofa è un notturno dalla musicalità dolce e mesta, che pian piano si spegne. La natura è ammantata da una veste fiabesca, la luce è argentea, il vento primaverile. L’oscurità che incombe ci fa scorgere immagini illusorie e per questo tanto più affascinanti. Il paesaggio gradualmente perde tutti i suoi colori e la notte resta orfana della luce lunare. Scopriamo che in quel paesaggio che rapidamente si dilegua c’è qualcuno: è un carrettiere che saluta cantando mestamente la luna ormai prossima al tramonto.
Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a se l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.
Eccoci alla seconda strofa. Come nella maggior parte delle liriche di Leopardi alla descrizione sognante del paesaggio subentra il ragionamento. Quel dolce paesaggio descritto nella prima strofa è un simbolo della vita terrena. La luna che tramonta è la giovinezza che, quando finisce, porta con sé i dilettosi inganni. Sono tutte le belle speranze che da giovani ci permettono di vivere senza pensare alla vera natura della condizione umana, inesorabilmente segnata dalla sofferenza e dalla morte. Da giovani si vive proiettati nel futuro, che si immagina sempre migliore del presente.
Certo è un futuro ingannevole, non solo perché molti dei sogni che abbiamo non si realizzeranno, ma perché anche quando crederemo di aver raggiunto ciò che abbiamo tanto desiderato non saremo comunque appagati, probabilmente resteremo delusi. Ma quando la luce della speranza/giovinezza (la stessa che Leopardi aveva identificato in Silvia) si spegne, noi, confusi viandanti, ci troviamo di fronte all’insensatezza della vita, non sappiamo che farcene del tempo che ci resta. Capiamo che la natura non è fatta per noi. Noi siamo degli estranei ed essa è estranea a noi.
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.
Dalla riflessione scaturisce il sarcasmo: chi ci ha messo al mondo non si è accontentato di renderci penosa tutta l’esistenza, di farci sudare ogni bene che raggiungiamo e di condannarci a morte. Gli dei hanno trovato un’altra pena, ancora più dura della morte: la vecchiaia. Non è un’età anagrafica: è una condizione psicologica ed esistenziale. E’ la fine delle speranze, l’esaurirsi delle fonti di piacere, ma il perdurare dell’aspirazione al piacere stesso.
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
Nella quarta strofa si torna alla descrizione del paesaggio. Le colline e i declivi non saranno privati della luce per molto tempo. Dopo poche ore sorgerà il sole e la sua luce, non argentea e velata come quella lunare, ma chiarissima e quasi spietata, si riverserà come un luminoso torrente sulla campagna. Ma per l’uomo che percorre l’ultima parte del suo cammino non ci sarà un nuovo giorno. Alla fine della notte ci saranno solo, come ultimo regalo degli dei, la morte e la tomba.
Non è facile accettare il pensiero di Leopardi, anzi, per i giovani, è quasi impossibile. Le cause del suo pessimismo furono addebitate alla deformità fisica, all’impossibilità di vivere una vita normale. Ma chi può affermare che non sia vero quello che dice? Fu osteggiato dai suoi contemporanei che, in età romantica, erano tornati allo spiritualismo e alla religione, dopo il razionalismo settecentesco che Leopardi non rinnegherà mai. E anche per noi, forse meno religiosi, non è facile accettare le sue parole. Eppure sono incontestabili.
Chi non ha la fortuna di essere assistito da una fede religiosa non può non chiedersi il perché della sofferenza insita nella condizione umana. Senza trovare risposte. Leopardi non si accontenta di una spiegazione meccanicistica della Natura, ma cerca delle risposte sul senso della vita che sa non possono essere trovate. Anticipa quindi temi che saranno affrontati dalla cultura e dalla filosofia del Novecento, il grande tema di tutta la cultura del Novecento, da Nietzche all’Esistenzialismo.
Sa che non ci sono più certezze metafisiche a regolare i comportamenti umani, ma che le ragioni del vivere vanno trovate faticosamente ogni giorno, da ogni uomo. Molti si chiedono, per esempio, perché Leopardi, nonostante abbia tante volte dichiarato la sua totale infelicità, non abbia scelto il suicidio. Da grande filosofo morale qual è risponde che chi si suicida compie un atto di estremo egoismo, facendo soffrire i propri cari e aggiungendo altro dolore alla condizione umana, già così piena di sofferenza.
Ma la solidarietà umana non è il solo motivo per vivere. La poesia, l’arte, la creazione e la contemplazione della bellezza sono state per lui una ragione sufficiente. E noi non possiamo non essere grati a chi ci permette di leggere una poesia bella e disperata come questa, di godere delle meravigliose immagini e dell’armonia dei versi, dimenticando, per qualche minuto, i nostri affanni.
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