Vasilij Semënovič Grossman, certamente uno degli autori più importanti del Novecento, non poté gioire della pubblicazione dei suoi romanzi mentre era in vita.
Tutto scorre, scritto tra il 1955 e il 1963 fu pubblicato postumo, nel 1970 nella Germania occidentale. Eppure il suo autore aveva pensato che dopo la morte di Stalin e con l’avvento di Chruščëv in Unione Sovietica si fosse aperta un’epoca di libertà.

Più lineare del monumentale ed estremamente complesso Vita e destino (anch’esso pubblicato postumo in Svizzera nel 1980), Tutto scorre è l’odissea di Ivan Grigor’evič, tornato libero, in seguito alla morte di Stalin, dopo trent’anni trascorsi nei gulag sovietici, ma è soprattutto un’appassionata elegia per quella libertà che il popolo russo non è mai riuscito a conquistare.

Al contrario di Ulisse, nessuno aspetta Ivan o gioisce per il suo ritorno. D’altra parte uno che all’università aveva dichiarato che <la libertà è un bene equivalente alla vita, che una sua limitazione mutila l’uomo come un colpo d’ascia che faccia saltar via dita e orecchie; abolire poi la libertà, equivaleva a un assassinio> non può essere che un matto destinato a mettere a disagio tutti coloro che, mentre Ivan viveva l’orrore dei gulag, si sono creati un’esistenza confortevole.

La prima tappa dopo la liberazione è a Mosca, dal cugino, uno scienziato di scarso valore che, pur non essendo un delatore, ha fatto carriera grazie alle purghe dei suoi colleghi ebrei, alle quali non si è mai opposto. Evidentemente non c’è posto per uno come Ivan in quella casa piena di agi borghesi, dove la presenza dell’ex internato risulta come un monito sgradito. Ivan non accetta l’ospitalità del cugino e si sposta a Leningrado, ma scopre che la donna che gli aveva giurato amore eterno si è risposata. Il viaggio continua e, almeno temporaneamente, Ivan trova un po’ di tranquillità e di affetto nella casa di una povera vedova di guerra, in una piccola città nel sud della Russia.

Ma i ventisette capitoli del romanzo non raccontano solo la storia di Ivan. C’è spazio per il ricordo di altre vite, incontrate nei gulag, che permettono a Ivan Grigor’evič (la cui voce è evidentemente inscindibile da quella dell’autore) di indagare la storia dell’Unione Sovietica nei suoi aspetti più tremendi, come la persecuzione delle minoranze etniche, la collettivizzazione forzata, la deportazione dei kulaki, la terribile carestia che portò allo sterminio di milioni di contadini (molti in Ucraina <fu più di tutto con l’Ucraina che se la presero>) a partire dal 1929.

E poi la corruzione a tutti i livelli, la diffusissima pratica della delazione, descritta prendendo spunto dall’incontro a Leningrado con il compagno di università che lo aveva denunciato e che adesso è un agiato burocrate. Ma Ivan non condanna gli individui. <Non sapete che i campi di forza creati dal nostro Stato, la sua massa pesante trilioni di tonnellate, il super-terrore e la super-ubbidienza da lui suscitata in questa piuma che è l’uomo, sono tali da rendere assurda qualsivoglia accusa, indirizzata contro un debole essere indifeso? È ridicolo accusare una piuma di cadere>.

E allora non c’ è una grande differenza tra la vita fuori e dentro i lager <La gente del lager aiutava ora Ivan Grigor’evič a capire gli uomini in libertà. Egli vedeva, in libertà, la stessa miserevole debolezza e crudeltà, l’avidità e la paura, esattamente come nelle baracche dei lager. La gente era fatta tutta allo stesso modo, e lui ne aveva compassione…>

Grossman, che in gioventù aveva aderito convintamente al comunismo, che aveva trascorso più di mille giorni al fronte, corrispondente di guerra per il quotidiano dell’esercito sovietico “Stella Rossa”, documentando gli orrori dei territori occupati dai nazisti e dei campi di concentramento, arriva gradualmente a denunciare gli orrori dello stalinismo con la stessa veemenza.

Fa dire al suo personaggio: <Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. Negli anni sovietici poi, aveva veduto formidabili vittorie militari, grandiosi cantieri, nuove città, dighe che sbarravano il corso del Dnepr e della Volga, un canale che univa i mari, e possenti trattori, e grattacieli… Una cosa sola la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà>.

Ma perché con la rivoluzione le cose sostanzialmente non sono cambiate rispetto all’epoca zarista?
La colpa non è solo di Stalin: nel movimento rivoluzionario russo prevalgono sui molti intellettuali animati da un sincero amore per il popolo, altri intellettuali, in primo luogo Lenin, in cui dominano <il disprezzo e l’inflessibilità verso la sofferenza umana, il culto del principio astratto, la ferma volontà di sterminare non solo i nemici, ma anche i compagni di causa, se appena appena si fossero allontanati anche solo di uno scrupolo dalla interpretazione di quei princìpi astratti>.

Sono questi intellettuali che si comportano come quei chirurghi che, dimostrando apparentemente interesse per i malati e per i familiari, hanno un’unica fede: l’operato del bisturi. E per Lenin il bisturi è l’irremovibile volontà di ottenere il potere cancellando inesorabilmente ogni opposizione e immolando quella libertà che la Russia sembrava aver conquistato otto mesi prima, con la rivoluzione del febbraio 1917, ma che era ancora fragilissima in un paese di schiavitù millenaria.