
Il cavaliere
del cielo
e degli eccessi
Ribelle
reazionario
provocatore
ed anche
un po’ eroe
Fu grande pilota di caccia, medaglie sul petto, ma girava spesso nudo. Passava ore, a volte dormiva, in cima a un albero, assieme all’inseparabile aquila ammaestrata. Era un guerriero, ma voleva insegnare la scienza dell’amore. Sul suo aereo da combattimento aveva un servizio da te con biscotti. Praticava lo yoga e organizzava orge, senza fare differenza tra donne e uomini.
Per lui si sono sprecate le definizioni: ribelle, provocatore, esibizionista, avventuriero, snob, guascone, don Chisciotte, esteta, goliardo, cocainomane, sognatore.
Guido Keller fu tutto questo e anche altro, affetto da superomismo, fors’anche un po’ confuso, ma certamente un personaggio unico. Anche se tutto dentro al suo tempo, prodotto di una manciata d’anni nei quali ribollivano i fermenti di un sovvertimento culturale, ideologico, esistenziale.
Era figlio di una famiglia aristocratica svizzera, i conti Keller von Kellerer, trafseritasi in Lombardia nel 700. Come era regola fu mandato in un collegio svizzero, ma ne fu espulso due anni dopo per indisciplina. Il giovane Keller era appassionato di letteratura, arti figurative, musica, filosofia, ma soprattutto dell’avventura e dell’azione. In quegli anni era l’aereo il simbolo massimo del connubio azione, romanticismo, modernità. Era il mito perfetto per un aristocratico alla ricerca dell’avventura solitaria, elevata sopra la moltitudine, tra le nuvole. Lo sapevano bene i futuristi di Marinetti e anche D’Annunzio. Erano pionieri del volo, che si lanciavano con un po’ di ferraglia ricoperta di tela e con l’elica di legno.
Così Keller prese il brevetto di pilota. Appena in tempo per partecipare alla guerra. Era inesperto, ma si rivelò subito un ottimo pilota, spericolato e coraggioso ed entrò nella pattuglia di Francesco Baracca. Ma a Keller più che la guerra interessava l’impresa, il bel gesto era quello che contava, era attratto dalla sfida e più il rischio era alto e più era eccitante. Lassù, così distante dalle putride trincee, si sentiva come un cavaliere solitario, aveva il massimo rispetto dei nemici, coi quali duellava secondo regole cavalleresche.
Nel 17 sfidò un pilota austriaco a un combattimento manovrato, senza uso delle armi. Chi per primo si fosse messo in coda all’avversario avrebbe vinto. La vittoria fu sua. Dopo di che venne scortato verso il confine da una pattuglia di aerei avversari.
Anche da militare era refrattario a ogni disciplina. Quasi mai indossava la divisa. Spesso volava in abiti succinti e in testa, invece del caschetto di cuoio, portava un fez da bersagliere, così che il fiocco sventolasse nell’aria come una coda. A volte, durante le missioni, si portava un libro da leggere, che teneva legato al ginocchio con una corda. Che c’era di meglio che leggere l’Orlando furioso andando in battaglia? E pare non fosse una posa, al ritorno si occupava più di commentare il libro che di relazionare sulla missione.
Anche a terra proseguiva nelle sue stramberie e nella ricerca degli eccessi. Non alloggiava con i signori ufficiali, ma in una tenda e spesso su un albero, sul quale saliva a volte completamente nudo.
Aveva una folta criniera di capelli arruffati, una lunga barba incolta e i baffi all’insù, come quelli di un moschettiere. Era trasandato nel vestire, quando vestiva. Sembrava più un barbone che un ufficiale. A volta indossava vestiti eleganti, ma spesso macchiati di olio e stazzonati, con l’aria però del vero dandy e modi raffinati.
Era un igienista e si era convertito al naturismo. Un movimento appena nato in Germania, come reazione all’industrialismo e all’inurbamento, una ritorno alla natura, ma anche un rifiuto dei tabù e dell’ipocrisia borghese. E se c’era qualcosa di antiborghese Keller non se lo faceva scappare. Con il bel tempo se ne andava in campagna, si denudava, prendeva il sole, faceva esercizi yoga, lunghe marce, corse, ginnastica.
Non resisteva al gusto della provocazione e dell’esibizione. Si faceva fotografare nudo, in pose bizzarre oppure vestito, ma a braghe calate e seduto su un vaso da notte.
Quando Baracca fu abbattuto, portò la bara a spalla insieme agli altri ufficiali. Poco dopo toccò a lui. Durante un’azione di mitragliamento sulle linee austriache fu colpito e precipitò. Rimase ferito a una gamba e fu catturato. Fu liberato dalle truppe italiane dopo Vittorio Veneto. Terminò la guerra con tre medaglie d’argento.
Senza aereo e imprese da compiere, si sentì un po’ perso. Ma per sua fortuna D’Annunzio occupò Fiume e lui corse alla corte del comandante. Del resto D’Annunzio era troppo simile a lui e l’impresa di Fiume era troppo bella e disperata, per non correre.
D’Annunzio si innamorò di lui, che per tanti aspetti pareva il figlio ideale. Era l’unico tra i giovani che poteva dare del tu al vate. Lo nominò suo segretario particolare. Ma Keller storse il naso e allora fu, seduta stante, rinominato segretario d’azione, a capo dell’Ufficio colpi di mano, di cui facevano parte gli uscocchi, ovvero i pirati del Carnaro. Nome che D’Annunzio aveva preso dagli uskok, briganti serbocroati, che saccheggiavano navi e porti di Venezia.
In pratica lui e questo manipolo di volontari dovevano assicurare i rifornimenti di armi, viveri e materiali con qualsiasi mezzo. Compito perfetto per Keller che infatti portò a compimento autentiche imprese da corsaro.
Un giorno, col suo biplano, sorvolò l’Italia fino a Roma per lanciare un mazzo di fiori sul Quirinale e sul Vaticano e un pitale con dentro carote e rape su Montecitorio, per protestare contro l’ordine di sgombrare Fiume. Durante il ritorno fu costretto dal maltempo ad un atterraggio di fortuna nella campagna romagnola, Grazie all’aiuto di alcuni contadini riuscì a rientrare a Fiume.
Propose poi di costituire una guardia del corpo del comandante, raccogliendo tutti i soldati che per motivi disciplinari erano stati scartati ed emarginati. Una specie di “Quella sporca dozzina” ante litteram. La proposta scandalizzò gli ufficiali, ma D’Annunzio l’approvò e Keller la chiamò “La disperata”. Più una combriccola di attaccabrighe esaltati che non un reparto militarmente efficiente. Ma a Fiume contava più l’estetica e il piacere della provocazione. La disperata fu poi il nome di una squadraccia fascista. Mussolini e il fascismo infatti saccheggiarono nomi, slogan e parole d’ordine coniate a Fiume.
Qui Keller conobbe Marinetti e lo scrittore Giovanni Comisso. Assieme a quest’ultimo fondò il movimento “Yoga, Unione di Spiriti Liberi tendenti alla perfezione”, che aveva come simbolo una rosa a 5 petali e una svastica (ancora i nazisti non c’erano, rappresentava il sole presso antiche popolazioni). Un movimento con tendenze esoteriche e trasgressive. Il manifesto del gruppo un po’ confusamente inneggiava alla “aristocrazia con le mascelle quadrate dal volere più forte della morte” e contemporaneamente alla “forza della gentilezza“, al naturismo, all’amore libero e all’mosessualità.
Ma non era certo il rigore ideologico che poteva interessare Keller. Che invece esprimeva bene l’esaltata contradditorietà dell’esperienza fiumana. Nata da una rivendicazione patriottarda e imbevuta di retorica nazionalista, ma arricchitasi poi di istanze, idee e comportamenti di tutt’altro genere.
Quei 15 mesi, sull’onda di un euforia un po’ anarchica, furono antiborghesi, anticonformisti, eversivi. Fiume fu anche l’illusione di un’utopia rivoluzionaria. La Costituzione del Carnaro fu scritta dal socialista rivoluzionario Alceste de Ambris, ed era molto avanzata e socialisteggiante.
Il movimento Yoga voleva contrapporsi all’ala moderata e conservatrice che premeva su D’Annunzio. E qualche risultato seppur effimero l’ebbe. Visto che l’Impresa fu anche un grande happening: tra i legionari la disciplina era poco apprezzata; circolava liberamente la droga, con in testa D’Annunzio e Keller che facevano abbondante uso di cocaina; e le serate erano spesso animate da feste decisamente alcoliche, che a volte finivano in orge.
Keller e Comisso pensarono anche ad una riforma dell’esercito che prevedeva l’abolizione di tutti i gradi superiori al capitano. Una specie di esercito del popolo guidato da nobili cavalieri.

Guido Keller assieme a D’Annunzio
Quando le cannonate del’Andrea Doria misero fine all’impresa fiumana, Keller deluso e senza più gesti eroici e beffardi da compiere, se ne andò in Turchia, dove tentò senza riuscirci di creare una compagnia aerea.
Rientrato in Italia aderì al fascismo. In fondo era un’aristocratico inorridito dalla massificazione della società e si riconobbe nell’anima antiborghese e sovversiva del fascismo. Partecipò alla marcia su Roma, ma Mussolini non l’aveva in nessuna simpatia. Fu nominato addetto aeronautico presso l’ambasciata a Berlino, Ma la diplomazia non era certo il suo mestiere, chiese così di tornare al servizio attivo e fu mandato in Libia.
Quando il fascismo divenne regime borghese e bigotto, cioè quasi subito, se ne allontanò e se ne andò in Sudamerica. Risalì il Rio delle Amazzoni fino in Perù come cercatore d’oro. L’oro non lo trovò e tornò in Italia. Il governo fascista, che lo aveva ormai bollato come soggetto inaffidabile, gli ritirò il passaporto. Visse gli ultimi anni in povertà, con l’aiuto dei pochi amici rimasti. Morì nel 1929 in un incidente d’auto, a soli 37 anni.
D’Annunzio telegrafò a Mussolini: <Guido Keller era una grande anima infelice, come tu sai. Meritava una morte violenta, ma gloriosa poichè non sapeva adattarsi alla vita comune. Ingiustamente disconosciuto da tanti, egli fu ieri tradito dalla sorte vile. Domando a te, combattente, che al suo feretro siano resi onori solenni>. Il Duce provvide.
E D’Annunzio lo fece seppellire al Vittoriale, dove anni dopo fu sepolto anche lui.
giorgio gazzotti