Un vero
capolavoro
tutto da riscoprire

Raffaele De Roberto ha scritto i Vicerè nel 1894

Per un lettore di oggi è forse Il più bel romanzo dell’Ottocento italiano. E’ un’affermazione un po’ apodittica? Provo a giustificarla. E’ un romanzo in cui le vicende dei personaggi e la grande storia si intrecciano con una naturalezza straordinaria, senza bisogno, come accade, per esempio, nei “Promessi Sposi” di interrompere la narrazione per dedicare interi capitoli al racconto degli eventi storici.

La narrazione procede velocemente coinvolgendo moltissimi personaggi, che vengono presentati al lettore gradualmente, ognuno dei quali potrebbe essere protagonista di un romanzo a parte. Verga, l’autore che più si avvicina a De Roberto, aveva progettato, per un affresco di questa portata, un intero ciclo di romanzi ( Il ciclo dei vinti), che lascerà incompiuto.

Anticipando i grandi capolavori del primo Novecento ( “Il fu Mattia Pascal”, “La coscienza di Zeno”, per limitarsi alla letteratura italiana) , il romanzo mette a nudo in modo implacabile l’ipocrisia dell’istituzione familiare, che schiaccia l’individuo, lo sottomette a disegni che nulla hanno a che fare con la sua indole e i suoi sentimenti, provocando la disperazione e la morte dei più deboli, la rabbia e la follia di quelli che in qualche modo riescono a ribellarsi. (Come non ricordare il “piano di famiglia” , che prevedeva l’adesione al clero del giovane Leopardi, perché malaticcio e quindi non adatto a tramandare il titolo di conte o la famosissima “lettera al padre” di Kafka?).

Poi lo stile: pubblicato nel 1894, dopo una lunghissima revisione, il romanzo applica con grande maestria le “regole “ del Verismo: il narratore tende a scomparire, getta il lettore in mezzo alla vicenda, non fornisce indicazioni o quadri di riferimento. Tutti i giudizi appartengono ai personaggi, anche se, come accade per tutti i Veristi, il pensiero dell’autore emerge con spietata chiarezza. Tanto più spietata perché sono le cose, i personaggi, le azioni a suggerirlo, non una voce narrante che, come accade per Manzoni, non si fida del giudizio del lettore, e lo vuole indirizzare verso una corretta comprensione degli eventi.

Così accade per i personaggi. Inizialmente ci viene detto quasi solo il nome e il ruolo che hanno nella famiglia, poi la storia ritorna ciclicamente su di loro e il lettore gradualmente conosce la loro storia, il loro carattere e capisce le ragioni del loro comportamento.

Tutti personaggi estremamente credibili, appartenenti alla nobiltà catanese, discendenti, appunto da una stirpe di Vicerè spagnoli ai tempi di Carlo V. Il libro è una descrizione vivacissima della nobiltà siciliana dell’ Ottocento, di cui vengono raccontati con efficacia cinematografica costumi e consuetudini. Una vita fatta di obblighi sociali ripetitivi e formali: visite reciproche tra le famiglie della nobiltà, passeggiate in carrozza, cerimonie religiose. In occasione di questi incontri nessuno esprime mai opinioni o sentimenti autentici.

D’altra parte nessuna formazione culturale è prevista per i nobili. Per un aristocratico la cultura è inutile, quasi disonorevole, perché destinata a coloro che devono lavorare per vivere dignitosamente. Come i protagonisti del “Gattopardo , I “ Vicerè” appartengono ad una aristocrazia che si fonda sul possesso terriero , che deve passare di generazione in generazione il più possibile integro ed indiviso (nonostante la legge sul maggiorascato sia stata ormai abolita). Per questo chi detiene il potere nella famiglia non si fa scrupoli di piegare la volontà dei figli alla conservazione del patrimonio e, quindi, del prestigio della famiglia.
Come avveniva da secoli, (non si può non ricordare la Monaca Di Monza ), solo il maschio primogenito dovrebbe sposarsi, ovviamente con una moglie fornita di una sostanziosa dote, e al massimo una delle figlie femmine, di solito la maggiore. Gli altri sono tutti destinati alla carriera ecclesiastica, o, comunque, a vivere da celibi o da nubili, con un modesto appannaggio.

A questa dura consuetudine, comune da secoli, come si diceva, a tutta la nobiltà, la principessa Teresa Uzeda di Francalanza, capo della famiglia dopo la morte del marito, di cui ha recuperato grazie alla sua dote e alla sua abilità il patrimonio che il consorte aveva dilapidato, ha aggiunto una particolare crudeltà. Crudeltà motivata da un incomprensibile odio per i suoi stessi figli, tranne che per il favorito, il terzogenito Raimondo. Nessuno di essi può seguire i propri sentimenti e le proprie inclinazioni, anche quando queste sarebbero compatibili con la trasmissione del prestigio e del patrimonio familiare.

Alla sua morte, con la quale il romanzo si apre, comincia, da parte di molti dei suoi figli, soprattutto di Giacomo, il primogenito, un lungo percorso gelidamente pianificato, per smontare il disegno della madre. Ma è non soltanto la trama, che pure è un congegno perfetto, quasi da romanzo giallo, che incatena l’attenzione del lettore.

Alla seconda lettura, a distanza di anni, ho apprezzato ancora di più la maestria di De Roberto nella costruzione dei personaggi, anche quelli “minori”. Per esempio Don Blasco, zio del principe Giacomo: monaco benedettino, maligno e crapulone, non accetta per tutta la vita la decisione della famiglia che lo ha destinato al convento. Il suo scopo principale è suscitare discordie fra i i nipoti per l’eredità della madre, dalle quali lui stesso non trarrà alcun beneficio. Oppure la sorella, zia Ferdinanda, mascolina zitellona, impicciona e maligna quanto il fratello, che ha come unico scopo nella vita accrescere, soprattutto con l’usura, il magro appannaggio che le è stato riservato.

Anche la descrizione degli ambienti è magistrale. Il palazzo di città degli Uzeda è stato talmente rimaneggiato da ogni principe che si è succeduto a capo della famiglia che è divenuto una specie di labirinto privo di ogni razionalità. Poi il convento dei Cappuccini (oggi patrimonio Unesco) residenza suntuosa dei rampolli della nobiltà destinati alla vita ecclesiastica, di una magnificenza straordinaria, nella quale i nobili frati vivono serviti e riveriti, si cibano di una spropositata quantità delle migliori pietanze che la fantastica cucina siciliana ha inventato.

Il racconto della vita in convento merita una citazione un po’ più lunga, perché è lo specchio più evidente dell’ipocrisia di una società e di un’epoca descritta impietosamente. <Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità; e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell’acciottolìo delle stoviglie e del gorgoglìo delle bevande mesciute e del tintinnìo delle argenterie, il Lettore biascicava, dall’alto del pulpito, la Regola di San Benedetto:”… 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: nondormiglione; 38°: non pigro.”..>. E poiché <potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata>. E i padri, poi, non potevano certo lamentare una vita troppo monotona < giuoco,gozzoviglie, il quartiere popolato di ganze, i bastardi ficcati nel convento in qualità di fratelli – dei Padri – nuovo genere di parentela!>

Straordinaria anche la descrizione delle grandi cerimonie, che hanno conservato tutto il fasto e il fascino dell’epoca barocca: il funerale della principessa Teresa, che apre il romanzo, ne è un esempio sublime.

Ma attraverso le vicende della famiglia Uzeda ( che vanno dal 1855 al 1882) De Roberto, come Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, ci racconta anche come la classe dirigente siciliana, almeno quella che proviene dalla nobiltà, si inserisca nella vita del nuovo stato italiano, che intanto si è formato, avendo come unico scopo la creazione di clientele che possano conservare ancora intatto l’antico potere e privilegio.

Barcamenandosi fino alla spedizione dei Mille tra Borboni e fautori del Risorgimento, appena consolidata l’unificazione, troveranno modo di farsi eleggere nel parlamento con il consenso e il voto di tanti loro concittadini che fino ad allora consideravano come sudditi. <Anche una buona quantità dei postulanti spiccioli cominciavano a vedersi esauditi; l’Onorevole (lo zio duca) aveva fatto accordare impieghi, sussidi, croci di San Maurizio ai patriotti del Quarantotto e del Sessanta, e riconoscere il diritto alla pensione dei vecchi impiegati della rivoluzione siciliana, e ammettere nell’esercito regolare i volontari garibaldini, e spingere la causa dei danneggiati dalle truppe borboniche i quali presentavano la nota del loro amor di patria> . Come afferma Consalvo, ultimo erede della casata <Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo….(…), e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo… o anche la testa!…>.

Federico De Roberto, nacque a Napoli nel 1861. Tra i maggiori scrittori veristi italiani, con Verga e De Roberto, fu autore di numerosi romanzi e racconti. Morì a Catania nel 1927