La “storia della colonna infame“ è il resoconto dell’assurdo processo che si svolge a Milano nel 1630 e che porta alla condanna e alla terribile esecuzione di due presunti “untori” (taglio della mano destra, le ossa spezzate dal supplizio della ruota, esposti al pubblico per ore ancora vivi, poi uccisi con il taglio della gola e bruciati, le ceneri disperse).
Ma come si arriva a una tale efferatezza?
Nei “Promessi Sposi” Manzoni dipinge magistralmente il quadro storico, nel quale si inserisce la vicenda. La guerra che vede Francia e Spagna impegnate per la successione al Ducato di Mantova e del Monferrato coinvolge anche il territorio di Milano e lo impoverisce. Tra la popolazione stremata dalla carestia si diffonde rapidamente la peste, portata in città, probabilmente, da un soldato che militava nell’esercito tedesco. Sono pagine attualissime di psicologia delle masse. Inizialmente il popolo si rifiuta di accettare la realtà: nonostante alcuni “scienziati” dell’epoca riconoscano i sintomi, la gente e, con più colpa, i governanti rifiutano di accettare una verità troppo spaventosa.
Poi, quando l’infuriare della malattia non permette più di negarla, si preferisce attribuirne la responsabilità ai famosi “untori”, che pagati dal nemico, diffonderebbero la malattia. Insomma cercare una causa esterna è in qualche modo consolatorio, permette di rivolgere rabbia e paura su un capro espiatorio.
Manzoni inizialmente pensa di includere la “Storia” nel romanzo, come ha già fatto con gli altri capitoli che sono in realtà dei veri e propri saggi storici. Poi si rende conto che sarebbe troppo lunga e decide di pubblicarla in appendice.
Il racconto è la cronaca del processo ai due untori. Guglielmo Piazza, commissario di sanità, una mattina piovosa (è il 21 giugno 1630) cammina rasente un muro. Una donna, Caterina Rosa, lo vede dalla finestra e lo scambia per un untore. L’uomo ha le mani sporche di inchiostro e le tracce sui muri sono nere. Si aggiungono altri testimoni.
È sufficiente perchè Piazza venga arrestato e interrogato. La perquisizione delle sua casa non dà ovviamente nessun riscontro. Ma il Piazza, sottoposto a tortura, confessa di aver ricevuto l’unguento pestilenziale da Giangiacomo Mora, un barbiere che vende, come è consuetudine in un periodo in cui i barbieri sono anche medici, balsami e unguenti
Il Mora viene subito arrestato, i poliziotti sequestrano il presunto liquido che serve all’unzione. Mora si difende dicendo che si tratta di una sorta di detersivo a base di cenere. Ma i giudici, sentiti gli “esperti”, pur con molti dubbi e incertezze, dichiarano che è la pozione con la quale si diffonde la peste.
A questo punto i due imputati non hanno scampo. I giudici promettono loro il perdono se denunceranno i loro “complici”. Per sottrarsi alla morte fanno altri nomi, ovviamente di innocenti, fra cui quello del figlio del comandante della guarnigione spagnola a Milano. Le continue e tremende torture generano un castello di accuse evidentemente false, ma che i giudici accolgono di buon grado, per le motivazioni che Manzoni spiega benissimo nell’ Introduzione.
Il 2 agosto tutti gli accusati vengono giustiziati, solo il figlio del comandante della guarnigione spagnola è riconosciuto innocente.
Se la “Storia “ è una cronaca dettagliata e documentatissima, l‘Introduzione “ è una riflessione profonda e attualissima. Quei giudici che condannarono uomini palesemente innocenti per compiacere l’opinione pubblica li rivediamo tutte le volte che qualcuno giustifica un comportamento sbagliato, appellandosi a ragioni superiori, come se, in ogni circostanza, non ci fosse la possibilità di scegliere, anche se la scelta che riconosciamo “giusta” può portare a pesanti conseguenze.
Scrive Manzoni:
<I giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile>.
Manzoni riconosce che l’argomento è già stato trattato in precedenza da Pietro Verri (Osservazioni sulla tortura, 1777), ma Manzoni vuole trattarlo con un” diverso intento”
<Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d’un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. E l’argomento era stringente, come nobile e umano l’assunto>.
Verri narra quindi questo terribile episodio per dimostrare, con un intento squisitamente illuministico, che la tortura è, oltre che moralmente esecrabile, anche inutile e dannosa: i torturati confessano per sottrarsi alla sofferenza e il ritenere veritiere le loro parole, senza altre prove, conduce facilmente a condannare innocenti e a lasciare in libertà i veri colpevoli.
Manzoni concorda ovviamente con Verri, ma ritiene che
<dalla storia, per quanto possa esser succinta, d’un avvenimento complicato, d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale>.
Se si attribuisce all’esistenza della tortura e all’ignoranza in campo scientifico la condanna degli autori si rischia di incorrere in un “errore dannoso”.
<L’ignoranza in fisica (campo scientifico) può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sè. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, nè che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell’atroce giudizio>.
Insomma si può credere che la peste sia diffusa dagli untori, la legge può prevedere il ricorso alla tortura, ma non per questo Piazza e Mora dovevano, anche in mancanza di prove, essere torturati e condannati come untori.
<I giudici con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, nè il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?>.
Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que’ giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sè le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace>.

I medici della peste vestivano così
Manzoni quindi condanna senza esitazione sia l’ignoranza sia una legislazione che prevede la tortura, ma i giudici, pur in condizioni difficilissime, hanno colpevolmente rinunciato all’uso della ragione e sono diventati preda delle passioni: abdicando alla loro funzione, sono diventati strumento della moltitudine (oggi si direbbe della gente o del popolo! In altri casi strumento del potere), hanno soddisfatto la sua rabbiosa voglia di vendetta determinata dalla paura, che si placa temporaneamente con l’accanirsi su sventurati innocenti.
Neanche il timore di gravi pubblici mali, sommosse o tumulti popolari, può giustificare il loro comportamento.
A questo punto Manzoni ci mette in guardia.
(…) <Ora, tali cagioni non furon pur troppo particolari a un’epoca nè fu soltanto per occasione d’errori in fisica, e col mezzo della tortura, che quelle passioni, come tutte l’altre, abbian fatto commettere ad uomini ch’eran tutt’altro che scellerati di professione, azioni malvage, sia in rumorosi avvenimenti pubblici, sia nelle più oscure relazioni private. (…) Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, nè abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle>.
L’abolizione della tortura e il progresso scientifico non sono sufficienti a garantire che chi detiene il potere, in questo caso i giudici, ma il discorso si può evidentemente estendere a tutti coloro che ricoprono ruoli di responsabilità, non si lasci trascinare dalle passioni, cioè non agisca per ottenere consenso e approvazione, senza escludere interessi più vili.
<E non temiamo d’aggiungere che potrà anche esser cosa, in mezzo ai più dolorosi sentimenti, consolante. Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi>.
Se le circostanze giustificassero il comportamento dei giudici non ci sarebbe speranza: in tempi ugualmente (anche per ragioni diverse ) atroci non ci sarebbe scelta. Leonardo Sciascia, nella sua interessantissima “Prefazione” alla “Storia “ del 1985 afferma, in modo a mio avviso del tutto condivisibile, soprattutto di questi tempi di essere più vicino al cattolico Manzoni che all’illuminista Verri.
“Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alla responsabilità individuale. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo un’analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. (…) Quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia,sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali . Quei giudici furono “burocrati del Male”: e sapendo di farlo.”
Se in qualche modo li giustifichiamo, attribuendo alla tortura e all’ignoranza l’accaduto neghiamo, come per gli artefici dello sterminio degli ebrei, la loro colpa.
Per il cattolico Manzoni è intollerabile: togliere la responsabilità all’uomo è negare il libero arbitrio, è attribuire la causa del male prodotto dagli uomini sugli uomini alla Provvidenza, al disegno divino.
L’illuminista Verri è in qualche modo giustificato, impegnato com’era nella sacrosanta battaglia per l’abolizione della tortura, se non ha sottilineato troppo “l’ingiustizia personale e volontaria de’ giudici”.
Manzoni spiega bene il perché:
<(e) aggiungo ora, che non l’avrebbe potuto fare senza nocere al suo particolare intento. I partigiani della tortura (chè l’istituzioni più assurde ne hanno finchè non son morte del tutto, e spesso anche dopo, per la ragione stessa che son potute vivere) ci avrebbero trovata una giustificazione di quella. — Vedete? — avrebbero detto, — la colpa è dell’abuso, e non della cosa>.
Ma questo non vale per chi ragiona sui fatti a mente fredda, senza specifiche motivazioni politiche e sociali. Cattolici o laici non sarebbe male che ci ricordassimo, in tante circostanze, più o meno gravi, che la responsabilità personale esiste e che le scelte che facciamo ricadono sulla nostra coscienza.
I giudici che condannarono gli untori
<se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori>.