I romanzi della Von Arnim sono stati per me una piacevolissima scoperta: di facile lettura ma mai banali, trame avvincenti, personaggi credibili e ben delineati. Nata in Australia da una famiglia della borghesia coloniale inglese, educata in Inghilterra, sposa prima un aristocratico prussiano, del quale conserva il cognome, poi, in seconde nozze, il duca John Francis Stanley Russell (fratello del filosofo Bertrand).
Non sono matrimoni felici, ma Elizabeth è una donna indipendente, che non ha bisogno di un marito per sentirsi realizzata. Colta e spregiudicata, vive tra l’Inghilterra, la Svizzera, la Costa azzurra e ,alla fine della sua vita, gli Stati Uniti. Ha un circolo di amicizie intellettuali, tra cui gli scrittori inglesi Edward Morgan Forster e Herbert George Wells, con il quale ha una relazione amorosa, è anche cugina dell’altrettanto famosa scrittrice Katherine Mansfield.
Nei suoi 21 romanzi, pubblicati tra il 1898 e il 1940 descrive la società a cui appartiene, la ricca borghesia inglese, nella quale vigono codici di comportamento molto formali e in cui le donne sono ancora considerate appendici del marito, magari indipendenti dal punto di vista economico, ma non psicologico. Una condizione femminile che, a distanza di cento anni, forse non è del tutto mutata.
Elizabeth (come amava farsi chiamare, senza cognome, quasi a sottolineare la sua indipendenza) descrive le protagoniste dei suoi romanzi con affetto e ironia, mentre agli uomini riserva spesso un sarcasmo tagliente. A volte le sue creature femminili hanno caratteri autobiografici, come accade per “ Vera” del 1921, che la scrittrice considera il suo romanzo migliore.
E’una storia con venature noir, ispirata dal suo secondo matrimonio. La giovane Lucy, in vacanza in Cornovaglia, perde all’improvviso il padre, a cui è legata da un profondo affetto. In modo del tutto casuale incontra, proprio lo stesso giorno della morte del genitore, il quarantenne Everard Wemyss, da poco vedovo, che si insinua rapidamente nella sua vita e la sposa dopo pochi mesi. Inizialmente premuroso e protettivo, Everard, già durante la luna di miele, si rivela un despota intollerante e rabbioso e Lucy, innamorata, è costretta non solo a subire le sue imposizioni, ma anche a giustificarlo di fronte a se stessa, come fanno anche oggi tante donne che subiscono senza ribellarsi le violenze del compagno.
Al termine della luna di miele la coppia va a vivere nella lussuosa residenza nella quale la prima moglie, Vera, si è appena suicidata. E’ una casa inospitale, senza calore, che rispecchia le ossessioni e la mania di controllo del suo proprietario. La povera Lucy, abituata ad una vita molto più libera e serena, è costretta ad adattarsi e, ancora una volta, a giustificare le manie del marito; non solo, il fantasma di Vera è incombente e ossessionante. Scritto diciassette anni prima di “Rebecca, la prima moglie“, “Vera “ anticipa le atmosfere inquietanti del thriller di Daphne du Maurier.
Anche “Colpa d’amore”, pubblicato nel 1929, non è privo di aspetti autobiografici: Milly, una signora di 45 anni considerata dai componenti della sua grande, facoltosa e altolocata famiglia, i Bott , una moglie esemplare perché devota e sottomessa, rimane vedova a causa di un incidente stradale. All’apertura del testamento si scopre che il marito Ernest l’ha quasi completamente diseredata. Il motivo, non esplicitato, ma intuito da tutta la famiglia, è una relazione clandestina che Milly, insoddisfatta dal gelido rapporto coniugale, aveva allacciato con Arthur, uno studioso di Oxford, e della quale il marito era venuto a conoscenza, senza averne mai fatto parola in vita.
Inaspettatamente Milly si scopre dotata di una grande forza e desiderio di autonomia. La morte del marito l’ha in fondo liberata da un rapporto solo formale, privo di affetto e calore e la modesta cifra che le ha lasciato potrebbe rappresentare l’occasione buona per liberarsi di una casa lussuosa che non sentiva sua (che dovrà comunque lasciare a breve), per rifarsi una vita lontano dalla soffocante famiglia, ossessionata dallo scandalo che il testamento rischia di provocare. Ernest, in mancanza di figli, ha lasciato il suo ingente patrimonio ad un’opera pia che si occupa di donne perdute, per non lasciare dubbi sulla moralità della moglie. Milly, con spavalda incoscienza e una buona dose di autoironia, fugge nottetempo dalla casa e dai familiari….
Un’altra vedova è la protagonista di Amore, del 1925. Più fortunata di Milly, Catherine è stata anch’essa in parte diseredata dal marito George, che non voleva (bontà sua) che un altro uomo la sposasse per interesse. Il generoso George le ha però lasciato una piccola rendita, che non le consente certo il tenore di vita precedente, ma le permette di vivere a Londra dignitosamente, nell’appartamento che il marito usava come pied à terre. Il castello e la tenuta di famiglia sono state ereditate dalla figlia Virginia, che ha sposato un ecclesiastico che ha oltre trent’anni più di lei.
Ma Catherine è serena: deve usare i mezzi pubblici, fare attenzione a non spendere troppo per il cibo e il riscaldamento, non può sostituire i mobili dell’austero salotto di George, ma si è fatta nuovi amici, è libera di andare a teatro tutte le volte che vuole, dopo una vita passata nell’ascolto e nell’obbedienza del marito. Ed è al Regent Theatre , assistendo per l’ennesima volta alla rappresentazione del dramma in musica L’Ora Immortale, che Catherine incontra l’uomo che sarà l’unico vero amore della sua vita. Ma Catherine è una bella e giovanile signora di quarantasette anni, Christopher, impetuoso e vigoroso giovanotto, che si innamora perdutamente di lei, invece di anni ne ha venticinque.
Se la differenza di età tra la figlia Virginia e il marito non desta nessuna riprovazione sociale, non altrettanto accade per il rapporto tra Catherine e Christopher, che vengono regolarmente scambiati per madre e figlio o per zia e nipote. Per Catherine comincia una terribile lotta contro il tempo, fatta di costose sedute dall’estetista e di una ancor più costoso, ma del tutto inutile, trattamento estetico di un ciarlatano. Anche in questo caso, dietro Catherine, c’è Elizabeth. Anche lei ha avuto una relazione con uomo più giovane di trent’anni, anche lei si è sottoposta ad un devastante intervento di chirurgia plastica che le lascia il volto pieno di cicatrici.
Bellissima, molto ricca, grazie ad un generoso trattamento di divorzio concesso dal marito, un ricco uomo d’affari, troppo attirato dalle segretarie, è Fanny Skeffington, protagonista del romanzo Mr. Skeffington, pubblicato dalla Von Arnim nel 1940, poco prima della sua morte. Fanny ha ottenuto il divorzio più che ventenne ed ha avuto numerosi amanti, che ha sempre rifiutato di sposare, gelosa della sua libertà. Ma all’inizio del romanzo di anni ne ha cinquanta, è appena guarita da una grave malattia, che ha accentuato i segni dell’età sul suo volto, si sente depressa, teme la solitudine e soffre di allucinazioni (le appare spesso il marito).
Pur indipendente e senza problemi economici, non trova più una ragione di vita: non ha una professione, figli o nipoti a cui dedicarsi, una formazione culturale che le permetta di coltivare qualche vero interesse. La sua vita è stata interamente dedicata a sedurre uomini diversi per età e condizione sociale, ma la sua stupefacente bellezza è ormai svanita e con essa il suo fascino.
Commenta Natalia Aspesi: <Consiglierei chi ha trasformato “Femminile irregolare” (di Anna Maria Mori) nel suo “livre de chevet”, di metterci accanto una storia femminile molto irregolare, che è “Mr Skeffington”) romanzo scritto alla fine degli anni ’30 da una geniale dama pure lei molto irregolare, Elizabeth von Arnim. Nella sua lussuosa vita (pare di essere a Gosford Park, maggiordomi, valletti, cuoche, sguattere, segretarie, cameriere personali, autisti), la bellissima Fanny ha preso e scartato amanti pazzi di lei in continuazione, e arrivata a 50 anni, terrorizzata dalla perdita della sua mitica bellezza, va a rintracciarli uno per uno. Protofemminista senza saperlo, bisogna vedere come l’autrice, ironica e crudele distrugge allegramente gli uomini, in generale e in particolare: per non parlare delle signore, poverine anche loro, in un certo senso allora come adesso.> (Natalia Aspesi, «Donne irregolari», La Repubblica del 10 aprile 2002)
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