Estate 1970
La vigilia di Ferragosto del 70 qualcuno lascia un pacco di volantini in un reparto della Sit-Siemens. Il contenuto è piuttosto terra terra: insulti e minacce a dirigenti, capi e capetti dell’azienda, chiamati bastardi e aguzzini. Il succo è: ogni volta che colpirete un operaio, noi colpiremo voi. La firma è Brigate rosse.
Il funzionario di polizia lo archivia nel faldone dell’estrema sinistra, zeppo di altri volantini. Brigate rosse? Mai sentite, sarà l’ennesimo gruppuscolo filocinese.
La settimana dopo altri volantini vengono lanciati all’ingresso della fabbrica da un motociclista. Questa volta, oltre alle minacce, ci sono nomi, indirizzi e targhe degli obiettivi da colpire.Volantini analoghi vengono trovati alla Pirelli. Nelle fabbriche di Milano sono in corso dure vertenze sindacali e le Br si presentano come difensori e vendicatori degli operai in lotta.

La notte del 17 settembre Alberto Franceschini e Mara Cagol cercano di dar fuoco al garage di Giuseppe Leoni, capo del personale della Sit-Siemens. Dicono che fa fotografare quelli che partecipano ai picchetti e poi li licenzia.
Poco più di un mese dopo, un altro commando delle Br (con Franceschini questa volta c’è Maurizio Ferrari, operaio della Pirelli) brucia l’auto di Ermanno Pellegrini, capo della sorveglianza della Pirelli. L’8 dicembre va a fuoco l’auto di Enrico Loriga, capo del personale sempre della Pirelli. Entrambi colpiti come responsabili del licenziamento, a seguito di un diverbio con il suo capo reparto, di Giovanni Della Torre, delegato della Cgil ed ex comandante partigiano.

Le azioni vengono ignorate dalla stampa. In quegli anni non sono un fatto eccezionale. E’ esploso il 68, poi c’è stato l’autunno caldo del 69, in Italia c’è un clima pesante ed entusiasmante allo stesso tempo. Si è messo in moto qualcosa che nessuno aveva previsto e nessuno ha idea di dove possa portare. E’ una rivoluzione, perchè non c’è bisogno di prendere il Palazzo d’inverno, perchè ci sia la rivoluzione.

Il gruppo di Sinistra proletaria in corteo

Il Cpm
Questi che siglano i loro volantini con una stella a 5 punte dentro un cerchio fatto con la moneta da 100 lire, appartengono ad uno dei tanti gruppi della sinistra extraparlamentare nati dopo il 68: Sinistra Proletaria, che in origine si chiamava Collettivo politico metropolitano.

Nel 69 gli studenti si erano spostati, dalle università occupate, davanti alle fabbriche. Erano nati comitati di base e collettivi operai-studenti in molte aziende. In alcune avevano un discreto seguito e si erano trovati spesso a guidare le lotte più dure, su obiettivi nuovi: normative egualitarie, la salute, l’orario, i ritmi di lavoro.
Il Cpm (Collettivo politico metropolitano) era nato dalle lotte della Pirelli e della Sit-Siemens. Era un gruppo minoritario rispetto a quelli ben più numerosi, come Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia e altri.
La matrice politica era un guazzabuglio ideologico, un misto di marxismo-leninismo, guevarismo, operaismo. Ma poco importava, perchè l’essenza della loro linea politica era la lotta armata. Sulla base di un ragionamento elementare: senza la forza delle armi non si fa la rivoluzione. Del resto nei cortei non si gridava che “Il potere nasce dalla canna del fucile” e “Vietcong vince perchè spara“? Certo, la grande maggioranza sapeva che era una provocazione per spaventare i bravi borghesi, ma qualcuno ci aveva creduto.
Del resto non è frutto di una assurda devianza, perchè la stessa cosa stava accadendo in Germania con la Raf e in misura minore in Francia.

I tupamaros uruguaiani erano il modello e Carlos Marighella, comunista brasiliano che aveva scritto “Piccolo manuale della guerriglia urbana”, un maestro. Ignorando però che Marighella parlava di lotta ai regimi dittatoriali e quella cubana era stata una rivoluzione democratico-nazionalista, non socialista.

Nell’estate del 69 avevano fatto un convegno a Chiavari, ospiti della Curia. Nel gruppo c’erano diversi cattolici.
Quelle che erano state solo disquisizioni teoriche assunsero una drammatica concretezza il 12 dicembre, con la strage di piazza Fontana. I fascisti di Ordine nuovo, appoggiati, protetti e guidati dai servizi segreti italiani e americani, avevano messo le bombe. Dovevano innescare una svolta autoritaria nel Paese, che riportasse le cose a posto. Ma la Dc disse di no.
Nella strage quelli del Cpm videro la conferma delle loro tesi: lo Stato non si fa problemi ad usare le bombe per fermare le lotte. Non possiamo rimanere disarmati.
Nell’estate del 70 si unisce al Cpm un gruppetto di ragazzi di Reggio Emilia, capeggiato da Alberto Franceschini, molti provenienti dalla Fgci. E così si cambia nome: “Sinistra proletaria”. La cui linea è chiara già dal simbolo con cui sfilano nelle piazze: falce, martello e fucile incrociati.

Mara e Renato
I leader sono due: Renato Curcio e Corrado Simioni. Due che più diversi non si può.
Curcio ha 29 anni. Un’infanzia non facile la sua. Figlio di una ragazza madre, messa in cinta dal fratello di un noto regista, fino ai 10 anni vive a Torre Pellice coi nonni di religione valdese. Poi viene affidato ad una famiglia di amici. Adolescente torna con la madre a Sanremo e si diploma perito industriale. Pare che abbia simpatie di destra. Va all’università a Trento, dove hanno da poco aperto una facoltà nuova: sociologia e dove abita assieme a Mauro Rostagno, uno dei fondatori di Lotta Continua. Partecipa al 68, ma non è un vero leader, dedica molto tempo allo studio dei sacri testi. Infatti aderisce al Pcd’i, micropartito vetero-marxista-leninista-maoista. Una sorta di setta la cui principale attività è pubblicare foto di proprie delegazioni in visita in Cina. Curcio gira con una grossa patacca di Mao sul petto. In un articolo di quel periodo attacca gli avventuristi che propongono azioni armate, qualificandoli come piccolo borghesi in cerca di avventura. Fa tutti gli esami ma non si laurea. Intanto conosce Mara Cagol, anche lei studentessa di sociologia.

Mara Cagol

Tutt’altra storia la sua. Famiglia perfetta, cattolicissima, benestante. Mara ha anche una guida spirituale, un padre gesuita. Fa volontariato per i poveri. Studia chitarra classica e diventa una delle più brave chitarriste in Italia. Gioca a tennis e scia. E’ molto legata alla famiglia, anche negli anni brigatisti continuerà a scrivere lettere alla madre, nelle quali racconta della sua scelta politica. Fa parte del gruppo cattolico “Mani tese”. Ma anche lei è travolta dal 68, come molti ragazzi cattolici che coniugano l’amore evangelico per i poveri con il marxismo. Si laurea con 110 e lode e saluta la commissione col pugno chiuso. Le ingiustizie, scrive alla madre, non si possono combattere solo a parole, ma con i fatti, con l’impegno in prima persona. Sull’esempio di quei preti laggiù in America latina, decide con determinazione missionaria che è l’ora dell’azione.

Nell’agosto del 69 i due si sposano, in chiesa per far contenti mamma e papà di lei. Poi si trasferiscono a Milano, dove Mara ha vinto una borsa di studio e Renato lavora alla Mondadori. A Milano nell’autunno del 69 grande è la confusione sotto il cielo. Il clima è caldissimo: scioperi, cortei, assemblee, occupazioni, scontri con la polizia e con i fascisti, picchetti all’alba davanti alle fabbriche in sciopero, riunioni, discussioni, ta-tze-bao, volantinaggi, un fiorire di giornali, fogli unici tirati a ciclostile, le comuni, un’improvvisa libertà sessuale, un vivere collettivo frenetico, si dorme poco e si sogna molto.
Renato e Mara le loro le giornate le passano davanti ai cancelli della Pirelli. Lei scrive ai suoi: <Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo, questo io credo sia il senso della nostra vita>.

Il provocatore
Corrado Simioni, è un personaggio che dire ambiguo è poco. Più anziano degli altri, ha 36 anni, è indubbiamente uomo di cultura, per accrescere l’aura di grande intellettuale racconta di aver letto il Capitale in tedesco. Viene dal Psi, da cui è stato espulso per indegnità morale nel 65. Cosa abbia fatto non si sa, lui accenna a una questione di donne con Craxi. Dopo di che si trasferisce a Monaco, per studiare latino e teologia e, secondo alcune voci, collabora con Radio Free Europe, organo di propaganda degli Usa. Tornato in Italia, si occupa di attività culturali-ricreative gestite dall’USIS (United States Information Service) e lavora alla Mondadori, dove conosce Curcio. Arriva il 68 e si getta a capofitto nel movimento. Propone ai vari leader di metter su un giornale, ai soldi penserà lui, ma non dice come. Poi fonda il Cpm con Curcio.
Curcio è un leader di assemblea, è capace di infiammare. Lui invece è di poche parole, lavora nell’ombra, è sfuggente e pare avere una seconda vita misteriosa. Ma, a chi li conosce bene, appare lui come il vero capo. Simioni si assume il compito di organizzare il livello clandestino del Cpm. Comincia con un servizio d’ordine, che lui personalmente dirige, dedito ad azioni di pura provocazione. Escono dai cortei, colpiscono qualche obiettivo e rientrano. Per alzare il livello dello scontro, dice.

La sua specialità è quella di tessere rapporti strettamente personali e di manovrare le persone. Indubbiamente ha carisma e fascino e, oltre a una moglie, anche diverse amanti. Così mette in piedi una rete di fedelissimi che rispondono solo a lui. Tutti rampolli della buona borghesia. Con alcune presenze un po’ sospette. Come Duccio Berio, figlio di un grande massone e collaboratore del Mossad, che nel 72, mentre fa il militare entra in contatto col Sid. O Sabina Longhi, che aveva lavorato con Manlio Brosio, segretario della Nato, che Simioni presenta come sua segretaria, ma per quale attività non si sa. Si vanta anche di averla infiltrata lui negli uffici atlantici come spia.
Tra lui e Franceschini c’è subito antipatia. Una volta Simioni si presenta ad un incontro a bordo di una Maserati. Figurarsi Franceschini, che veniva da una famiglia operaia e dalle sezioni del Pci reggiano, <Gli chiesi dove prendeva i soldi. Mi rispose che faceva rapine in banca. Non ci ho mai creduto, era troppo fifone per cose del genere>.
Un’altra volta chiede ad ogni compagno di compilare un questionario, con strane domande, anche sulle abitudini sessuali. Ma quella che appare una cosa strana diviene inquietante, quando si scopre che le schede vengono consegnate a un certo Roberto Dotti. Ex partigiano ed ex Pci, ma nel 70 è diventato il braccio destro di Edgardo Sogno, uomo dei servizi segreti, che nel 74 organizzerà un colpo di stato. In pratica Simioni passa i nomi delle nascenti Br a Sogno .
Insomma, la sua è la tipica attività del perfetto infiltrato, in linea con le indicazioni contenute nel piano Cahos della Cia, che prevedeva di spingere i gruppi dell’estrema sinistra a compiere azioni violente ed alimentare così il disordine. Come spiega bene una velina del Viminale del febbraio 71: <almeno all’origine si deve rilevare la spinta di qualche servizio segreto americano che ha finanziato elementi estremisti in campo studentesco>.

La spaccatura
Nell’agosto 70 si tiene una specie di congresso vicino a Pecorile sull’Appennino reggiano, nella sala da ballo del ristorante Gianni. Lì la rottura tra Simioni da un lato e Franceschini e Curcio dall’altro, viene alla luce. Ora la questione è di linea politica.
Il primo propone di entrare in clandestinità, iniziare davvero la lotta armata, ma agire nell’anonimato, colpendo obiettivi importanti. Uccidiamo due ufficiali americani a Napoli e Junio Valerio Borghese, sono le proposte di Simioni. Scelta strana, quest’ultima, e molto sospetta. Borghese non è personaggio particolarmente in vista, ma proprio in quelle settimane sta preparando il golpe dell’8 dicembre. E Simioni sembra quasi saperlo. Contemporaneamente una parte del Cpm si sarebbe dovuta infiltrare nei gruppi extraparlamentari per spingerli alla lotta armata.
Curcio e Franceschini rifiutano la clandestinità, l’infiltrazione e la fuga in avanti. Vogliono rimanere un’organizzazione politica, che fa politica anche con le armi se è il caso, ma in modo pubblico e dentro le lotte, soprattutto operaie. Rivendicando le azioni che compie, cercando adesioni e consenso. La maggioranza sta con loro, la separazione è vicina.

E diviene inevitabile quando il 2 settembre ad Atene due giovani saltano in aria mentre collocano una bomba davanti all’ambasciata americana. Simioni ammette di averli mandati lui, la ragazza era un’amica di sua moglie, nonché sua amante. E’ chiaro che continua a gestire una propria organizzazione segreta. Si scopre anche che aveva proposto la missione a Mara Cagol, che aveva rifiutato.

Renato Curcio

Curcio e Franceschini lo mettono fuori. E avvertono Pietrostefani e Scalzone, i leader di Lotta Continua e Potere Operaio a Milano: attenti a Simioni, è un agente della Cia.
Con Simioni se ne vanno i suoi fedelissimi: Berio, Mulinaris, Troiano, Salvioni, Tushcer, ma anche Prospero Gallinari, uno dei reggiani, appena diciannovenne, che poche settimane prima aveva lasciato le mucche da mungere nella stalla di famiglia per correre a Milano a fare la rivoluzione.
Il gruppo, chiamato in vari modi, la Ditta o Superclan, scompare dalla scena, ma continua ad agire, suddiviso in cellule, con regole tipo setta segreta. Senza compiere in realtà clamorose azioni: un certo numero di rapine e un sequestro di persona, ma col sequestrato consenziente. Nessuna rivendicata ovviamente. Lo scopo principale rimane quello di infiltrare suoi uomini nelle varie organizzazioni, in particolare nelle nascenti Br. Ma anche in LC, a Torino uno di questi viene allontanato con modi molto convincenti.
L’organizzazione dispone di quattro case di campagna, dove ci si esercita a sparare e, così riferirà Gallinari, si pratica l’amore collettivo, cioè scambi di coppia diretti da Simioni. Aveva introdotto nel gruppo anche riti esoterici della tradizione Maya, di cui lui era ovviamente il sacerdote.

Dopo un anno o poco più la Ditta si scioglie, almeno ufficialmente, e un gruppo ristretto si ritira in una villa nel Veneto. In realtà continua ad operare dietro la copertura di Centri studi ed attività commerciali. Poi, nel 76, i capi si trasferiranno a Parigi dove aprono la scuola di lingue Hyperion. Ma nessuno di loro è un insegnante di lingue.
Portano via anche la cassa, diverse decine di milioni.

Brigate rosse
Gli altri invece diventano le Brigate rosse. E si mettono a dar fuoco alle auto. Con l’uscita di Simioni è Alberto Franceschini a diventare un capo, al fianco di Curcio. Uno l’ideologo e l’altro il politico. Ha 23 anni, famiglia operaia, il padre è stato partigiano, il nonno uno dei fondatori del Pci. Studia ingegneria a Bologna, con buoni risultati. A Reggio ha messo su un collettivo operai-studenti. La febbre del 68 lo ha contagiato e appena può corre a Milano. Nel dicembre 69 viene radiato dal Pci. Nel 70 molla l’università e si trasferisce definitivamente a Milano. Nel febbraio 71 arriva la chiamata dell’esercito, non risponde e diventa il primo clandestino delle Br.

Il 25 gennaio 71 le neonate Brigate rosse passano dalle auto ai camion. In quattro si introducono nello stabilimento di Lainate della Pirelli e collocano ordigni incendiari sotto otto camion carichi di gomme. Solo tre prendono fuoco. Nel volantino di rivendicazione ammettono una certa inefficienza, ma assicurano: <la prossima volta faremo meglio>. Il commando è di nuovo guidato da Franceschini, con lui ci sono quattro operai della Pirelli: Ferrari, uno con tessera Cgil e Pci in tasca e altri due.
Per la prima volta i giornali parlano delle Br. L’Unità e la Cgil varano l’appellativo di “sedicenti Brigate rosse”, sostenendo che in realtà si tratta di provocatori camuffati, giudizio che manterranno per alcuni anni, pur sapendo la verità. Pensano in questo modo di isolare e spegnere la pericolosa miccia. Lotta Continua, che nei confronti delle Br avrà all’inizio posizioni oscillanti, riconosce la matrice di sinistra, ma definisce l’azione <sbagliata>, funzionale ad <un disegno di provocazione antioperaia> .

Le Br, in un comunicato spiegano il senso dell’azione negli stessi termini delle precedenti: intimorire i padroni per renderli più deboli. E, allo stesso tempo, propagandare tra le masse operaie la lotta armata.
L’azione è stata possibile grazie alle indicazioni fornite da un sindacalista, un certo Raffaele, forse un nome di battaglia. Solo che dopo qualche tempo le Br scoprono che era un confidente della questura. Dunque la polizia sa e lascia fare?
La cosa non è inverosimile, come numerosi altri episodi confermeranno. L’Ufficio affari riservati e il Sid hanno messo in piedi la strategia della tensione a suon di bombe, con lo scopo di addossare alla sinistra la responsabilità della violenza, degli attentati e dei disordini. La strategia si sta rivelando un flop. Ma ora spunta gente, davvero di sinistra, che si arma e compie attentati e violenze. Una fortuna insperata, perchè fermarli?.
Del resto è certo che le Br sono tenute d’occhio. Le forze dell’ordine conoscono molti degli aderenti. Al convegno di Chiavari c’era anche la Digos. E i carabinieri avevano l’elenco dei partecipanti a quello di Pecorile.
Ed è davvero una strana coincidenza, che, un paio di settimane prima dell’attacco ai camion, era stato dato fuoco al deposito copertoni della Pirelli, che aveva causato la morte di un operaio. L’attacco fu rivendicato come Br, ma era stato il Mar di Fumagalli, organizzazione di destra controllata dal Sid, che compirà altri attentati firmandosi Brigate rosse. E’ un altro indizio che qualcuno ha tutto l’interesse che le Br crescano.

In marzo le indagini portano ai primi mandati di cattura contro Curcio, Franceschini e Cagol (che ha appena perso il bambino che aspettava, per una caduta dal motorino, qualcuno poi metterà in giro la voce che era stato a seguito di tafferugli con la polizia). Curcio e la Cagol si nascondono ed entrano anche loro in clandestinità.

Torna Moretti
Ad aprile si rifà vivo Mario Moretti. Era stato uno dei più attivi nel Cpm, ma prima di Pecorile se ne era andato, accusando i compagni di essere solo «un branco di parolai, di fare solo chiacchiere>. Secondo Mara Cagol era una «messa in scena organizzata da Simioni per dare copertura a Moretti», visto che i due andavano molto d’accordo. Cosa abbia fatto per quasi un anno non si sa. A chi glielo chiede dà risposte vaghe.
Prima di accoglierlo nelle Br si decide di metterlo alla prova. Viene incaricato di una rapina. Ingenuamente pensano: se è un infiltrato, la polizia non consentirà che commetta un reato. Assieme a lui andrà anche un altro che chiede di entrare. Pietro Morlacchi, un tipografo milanese, sei fratelli e una famiglia comunista doc. Uscito dal Pci già da anni, è stato anche in Cina ed ha sposato una tedesca dell’Est, Heidi.

A Pergine vanno in quattro. Moretti e Morlacchi entrano in banca con le armi spianate, ma senza colpo in canna. Sono agitati, è la prima volta, ma scoprono quanto è facile rapinare una banca. Fuori ad aspettare c’è Heidi con la carrozzina. I soldi, 9 milioni, li nascondono sotto il bambino di pochi mesi.
Ora Moretti è nelle Br. Ha 25 anni, è nato nelle Marche da una famiglia piccolo borghese. Il padre è morto che lui aveva 16 anni, la madre tornò a fare l’insegnante per mandare avanti i tre figli. Soldi pochi, tanto che i ragazzi furono aiutati a proseguire gli studi dalla marchesa Casati (presso la quale lavorava una zia). Nel 66, dopo il diploma di perito, era andato a Milano, perchè, grazie alla raccomandazione della marchesa, era stato assunto in una aziendina. Poi passa alla Sit Siemens come tecnico.
Fino ad allora non si era mai interessato di politica. L’arrivo del 68 e dell’autunno caldo sono per lui una folgorazione. Gli studenti davanti alle fabbriche, con i loro slogan, la loro carica, lo attraggono, tanto che si iscrive all’università. Poi entra nel “gruppo di studio” della Sit-Siemens, così si chiamava, composto dai tecnici, che in buona parte aderirà al Cpm. E va a vivere in una “comune”, dove fa un figlio con la sua compagna. E visto che anche altri fanno figli e i bambini sono numerosi, organizzano una specie di asilo nido.

Il 68
Strana faccenda il 68. In quella che si è appena conquistato il nome di società del benessere, migliaia di giovani e poi anche meno giovani, sono presi da una febbre rivoluzionaria. Vogliono cambiare il mondo, ma non partendo dalle loro condizioni e bisogni, ma da quelle degli altri, di chi sta peggio. Il 68 è un lampo fosforescente, una febbre travolgente, un desiderio, un sogno e un’esaltazione collettiva. Il 68 è estremista e gli estremismi non possono essere pacifici. Per cui il 68 è anche violenza, del resto la rivoluzione non si fa chiedendo il permesso. Come tutti ripetevano: “Non è un pranzo di gala”, parola di Mao.
E’ una violenza spontanea, di massa. Sono le occupazioni, i picchetti duri davanti a scuole e fabbriche, gli scontri con la polizia e i fascisti. E’ fatta di bastoni, sassi, qualche molotov. Sono le uova tirate sulle pellicce dei ricchi che vanno a godersi la prima della Scala. Ma soprattutto la violenza è accessoria, utile e a volte necessaria, ma non è il cuore, la sostanza, la misura e il metodo della lotta politica. Come invece sarà.

La bomba e i morti
Poi arriva il 12 dicembre del 69 e la scoperta che il gioco si è fatto più duro di quanto si immaginava. L’età dell’innocenza è finita.

Ad Avola la polizia spara su un corteo di braccianti, due morti e molti feriti

La strage dentro la banca in realtà non è l’inizio e non sarà la fine dell’altra violenza. Ne è solo l’apice. Tutto il 68/70 è costellato di bombe e di violenza neofascista e poliziesca.
Nel dicembre del ’68, ad Avola, la polizia aveva sparato sui braccianti in sciopero, uccidendone due. L’ultimo dell’anno un gruppo di giovani era andato davanti alla Bussola di Viareggio a lanciare ortaggi ai signori che spendevano la metà dello stipendio di un operaio per un biglietto, ma qualcuno dei signori ha sparato e un ragazzino di 16 anni resterà su una sedia a rotelle per tutta la vita.
Il 27 febbraio, nell’università occupata di Roma, uno studente, per sfuggire all’incursione dei fascisti, è morto cadendo da una finestra. In aprile la polizia ha sparato di nuovo sui braccianti a Battipaglia, altri due morti. In ottobre, a Pisa, uno studente di 22 anni è ucciso da un candelotto sparato ad altezza uomo. Due giorni dopo la strage, l’anarchico Pinelli è volato dalla finestra della questura. Una morte ancora più insopportabile di altre. Non si saprà mai cosa è successo in quella stanza piena di poliziotti. Di certo c’è che il questore racconta un cumulo di balle. Dice che Pinelli si è buttato perchè ormai incastrato, ma lui non c’entra nulla con la strage e quindi non può essersi ucciso.

L’anno dopo, anniversario della strage, a Milano un altro giovane viene ucciso da un candelotto in pieno petto. Due mesi dopo una bomba lanciata dai fascisti contro un corteo sindacale a Catanzaro, uccide un operaio. Pochi giorni dopo l’ennesimo bracciante è ucciso dalla polizia in Puglia. A Milano un pensionato è ucciso da un candelotto. Nel maggio del 72 l’anarchico Serrantini, manganellato dalla polizia, è portato in caserma a Pisa. Ne esce cadavere. In agosto i fascisti a Parma uccidono a coltellate Mariano Lupo di Lotta Continua.
Questi sono solo i morti e questo è solo l’inizio. E’ una catena di sangue che non si spezzerà mai, per anni. La violenza è nelle cose e ormai nella testa di migliaia di giovani. <Tutti quei morti – scriverà Segio, uno dei capi di Prima linea – erano pezzi della mia vita, liquido incendiario per il mio impegno politico giovanile>.
E’ il terreno fertilissimo sul quale i semi della rabbia e le illusioni rivoluzionarie germoglieranno frutti avvelenati e una violenza infinita.

La paura del golpe
E poi c’è il colpo di stato. Non è una fantasia, non è un timore inventato, perchè la notte dell’8 dicembre 1970 il ministero dell’Interno è per alcune ore nelle mani dei fascisti di Avanguardia nazionale. Le porte gliele hanno aperte i poliziotti e gli hanno dato anche le armi. Poi è arrivato il contrordine. Da quel momento la minaccia di un golpe resta pesante e presente.
E intanto vengono alla luce i depistaggi, le spudorate menzogne e le complicità di chi dovrebbe rendere giustizia alle vittime delle bombe nere. Lo stato appare agli occhi non solo dei giovani sessantottini, ma di buona parte dell’opinione pubblica, come corrotto, falso e violento.

Junio Valerio Borghese (a destra)

No, non è che stragi e trame hanno generato il terrorismo. Che è il frutto di una mitologia esaltata e di un’allucinazione ideologica. Ma hanno creato le condizioni che ne favoriscono la nascita e il contagio. Convincono molti giovani che lo Stato è un soggetto criminale, contro il quale le buone idee non bastano. E abbassano di molto la soglia della violenza ritenuta praticabile.

Nel corso del 70 e poi del 71 i gruppi della sinistra extraparlamentare decidono di attrezzarsi per rispondere. Innanzitutto per non farsi trovare impreparati in caso di un colpo di stato o di una messa fuorilegge. Crescono i servizi d’ordine e nascono alcune strutture segrete, che debbono predisporre basi clandestine, qualche arma e reti di contatto per garantirsi la sopravvivenza.
La struttura illegale di Lotta Continua compie alcune rapine per autofinanziarsi e procurarsi un discreto numero di armi. Il responsabile politico del livello illegale è Giorgio Pietrostefani e il capo militare Ovidio Bompressi, trasferitosi da Pisa a Torino. Ma l’esistenza e l’attività di questa struttura, composta da un numero limitato di persone, è un segreto anche per il grosso dei militanti di LC.

Ma c’è anche chi, il giorno dopo la strage, pensa che si sia già allo scontro finale, che occorra entrare in clandestinità e iniziare una nuova resistenza.

g.g.

Continua….     2) Feltrinelli, la 22 Ottobre, Potere Operaio