Cap. precedente:  14) La colonna romana. Le Ucc. La morte di Walter

1977

La facile fuga di Gallinari

Domenica 2 gennaio carcere di Treviso, un carcere tranquillo. Un detenuto simula un malore e con altri nove riesce a prendere in ostaggio una decina di guardie. Vengono aperte alcune celle e si unisce a loro Prospero Gallinari. In tredici evadono. Gallinari raggiunge Padova dove viene ospitato da uno dei “Collettivi politici padovani”, che è la filiale veneta di Rosso. Poi va a Milano, sempre aiutato da quelli di Rosso. Qualche settimana dopo l’esecutivo lo spedisce a Roma. Sarà il numero due della nuova colonna.

Un’evasione sin troppo facile. In effetti pare che ci sia lo zampino di Dalla Chiesa, che avrebbe favorito l’evasione proprio per far scappare Gallinari e, attraverso lui, giungere al vertice delle Br e soprattutto a Moretti.  Ma il piano fallisce, i carabinieri perdono le tracce di “Giuseppe”.

Il sequestro Costa

Se fai la lotta armata i soldi non bastano mai. Ce ne vogliono tanti per tenere in piedi un’organizzazione come le Br, che per di più sta crescendo. Si devono comprare appartamenti, meglio che affittarli come si faceva all’inizio. Soprattutto a Roma, dove la colonna è appena nata. L’acquisto è affidato a compagni insospettabili, simpatizzanti fidati. Ci sono anche le armi da acquistare, soprattutto all’estero. E le attrezzature per riparare e modificare le armi,  per falsificare i documenti, le stamperie clandestine. E poi gli stipendi per i regolari, che sono un po’ più di venti, che significa quasi cento milioni l’anno.  E i soldi per le famiglie dei detenuti  e per i rimborsi spese e altro ancora.

Si fanno rapine, ma non sono sufficienti. I soldi non bastano mai. Allora si decide di riprovarci con un sequestro. Il compito è affidato alla colonna genovese, perchè l’obiettivo è Pietro Costa, rampollo della storica famiglia di armatori.

Dopo settimane di pedinamenti, la sera del 12 gennaio, un furgone aspetta il passaggio dell’auto di Pietro Costa, in un punto semideserto. Da Roma è venuto Moretti a guidare l’operazione, anche se è un gioco da ragazzi fermare  l’auto, invitare Costa, un giovane di 41 anni alto e robusto ma di fronte a cinque uomini armati che può fare, a salire sul furgone. Con il capo ci sono Riccardo Dura, Livio Baistrocchi, Piancone, Azzolini e Leonardo Bertulazzi.

Il prigioniero viene incatenato a una brandina, sotto un tenda canadese, al centro di una stanza insonorizzata, in una casa di Genova. Nessuno parla di Br e di sequestro politico, anche se la famiglia e quindi la polizia sa da subito di cosa si tratta. Il sequestro dura 81 giorni, durante i quali anche il suo carceriere, Dura, non si muove dall’appartamento. Praticamente non viene fatto nulla per trovarlo, come per quasi tutti i sequestri di quegli anni.

La famiglia paga il riscatto e il 3 aprile i br gli ridanno vestiti, orologio e portafoglio. Lui controlla, e chiede che fine ha fatto un biglietto del bus ancora buono.  Dura sta per prenderlo a schiaffi, ma non è il caso. Lo lasciano vicino allo svincolo dell’autostrada alle 6 del mattino. Lo trova una donna che porta a spasso il cane.

E il riscatto? Una cifra enorme: un miliardo e mezzo, consegnato a Roma alla Faranda, che si presenta con un poncho, perchè sotto ha il mitra, mentre Morucci controlla a breve distanza. I brigatisti passano sette giorni a lavare e stirare le centinaia di banconote, perchè ci avevano messo sopra una polverina fosforescente. E Gallinari, che nelle stalle del reggiano non aveva mai visto più di qualche banconota,  preso dall’entusiasmo si rotola su quel mucchio di bigliettoni, come fa Paperone. Ora con i soldi sono a posto per qualche anno. Le  prime spese sono l’acquisto di un appartamento in via Montalcini a Roma, che servirà per un altro sequestro, e una tipografia.

La strana tipografia brigatista

Una delle prime cose di cui si occupa Moretti è proprio di impiantare una tipografia a Roma, una cosa seria, che servirà tutte le colonne. Così incarica Enrico Triaca, uno dei tiburtaros, di affittare un locale, di ristrutturarlo e di acquistare le macchine. I soldi, quasi un milione, glieli dà Moretti, sono i soldi dei Costa.

Poi il Triaca si mette a fare il tipografo, gli danno una mano anche Marini e Stefano Ceriani Sebregondi, fratello del più noto Paolo che sta in Rosso.

Ma succede una cosa strana. Una delle stampatrici, che Moretti ha trovato, era dei servizi segreti. Il Sismi spiegherà che, essendo vecchia, l’aveva venduta come rottame, ignorando dov’era finita. Ma è una balla, la stampatrice di cui parla il Sismi fu venduta molto dopo. Anche Moretti racconterà balle, dicendo che era un catorcio inutilizzabile, invece aveva solo tre anni. La prova che il Sismi abbia fornito consapevolmente a Moretti la stampatrice non c’è. Ma se tutti raccontano balle, un motivo ci sarà.

Vianale e Salerno evadono

L’agguato al vicequestore Noce è stato un mezzo fallimento. Il processo ai Nap si avvia a conclusione. Bisogna fare qualcos’altro, non si possono mollare i compagni al loro destino.

L’ideale sarebbe farli evadere, ma da Poggioreale non è possibile. Però c’è un carcere meno sorvegliato, quello femminile di Pozzuoli. E dentro c’è quella che è diventata la donna simbolo dei Nap, Maria Pia Vianale, assieme alla sua inseparabile amica, Franca Salerno.

Maria Pia Vianale

La notte del 22 gennaio due uomini, uno si chiama Antonio Lo Muscio, Tonino,  scavalcano il muro di cinta con una corda del tipo che usano i pompieri, una ragazza resta fuori con un’auto.  Poi con una scala salgono su un secondo muro alto più di 5 metri. Arrivano alla cella, segano le sbarre e liberano le due donne. Rifanno il percorso a rovescio e se ne vanno. Una fuga clamorosa, quasi incredibile. Dov’erano e cosa facevano le guardie? Un mistero o forse semplicemente dormivano. Ma tant’è, prima di dover incassare una pioggia di condanne, i Nap hanno dato un sonoro ceffone allo Stato. Il secondo in pochi giorni, dopo la fuga di Gallinari

Br, gambe e organizzazione

Dopo la crisi tra 75 e 76 le Br ora godono buona salute. Le colonne sono quattro e tra poco sarà rimessa in piedi quella veneta. L’emorragia degli arresti è stata bloccata e alla porta bussano giovani che vogliono entrare. Moretti è il capo indiscusso e le casse sono piene.  L’organizzazione si è perfezionata. Ogni colonna è divisa in brigate di quartiere o di fabbrica, non più di 4 o 5 persone. A Roma bisogna accontentarsi del terziario, c’è quella degli ospedalieri e dei ferrovieri. Ogni brigata ha un capo ed ogni brigatista coltiva 3 o 4 simpatizzanti. Ogni colonna ha una direzione, di numero variabile, di solito i capi dei fronti, più qualcun altro.

La compartimentazione è rigida ed efficiente. Tutte le attività minori: rubare auto, procurare documenti, pedinare gli obiettivi, raccogliere informazioni sono affidate a irregolari che di norma non sanno a cosa serve ciò che fanno. Gli irregolari non conoscono più di un paio di clandestini, anche se la regola non è sempre rispettata.

E la linea politica? Qui tutto è fermo all’attacco al cuore dello Stato. E il cuore dello stato è costituito, oltre che da polizia e magistratura, dalla Dc. In concreto? Perforare cosce, polpacci, glutei, tranciare vene, far esplodere arterie, spaccare femori, sbriciolare tibie. E, quando è il caso, semplicemente uccidere.

Ora la mattanza inizia davvero e sarà un crescendo, come i torrenti in primavera, ma niente acqua, solo sangue.

Franco Bonisoli

Il 13 febbraio è l’esordio della colonna romana, nei mesi precedenti ci si era limitati a dar fuoco a qualche auto. In verità ad agire sono due della colonna milanese, Bonisoli e la Brioschi, che ancora per qualche settimana affiancano Moretti. Assieme ad altri due, una è la Faranda, molto attiva come si vede, aspettano Valerio Traversi, dirigente del ministero di Giustizia, che si occupa di carceri. Sanno che passerà di lì. Quando arriva gli si fanno incontro i due, gli altri stanno di copertura. Bonisoli, senza dire una parola, gli spara 5 colpi nelle gambe con una pistola silenziata. Non lo guarda in faccia quando spara, perchè dice che gli dà fastidio, evita sempre di incrociare gli occhi delle sue vittime, gli viene più facile sparare. <Una volta dovevamo gambizzare uno, lui mi guardò e disse: non sparatemi alle gambe. Bastò questo contatto umano a mettermi in difficoltà Allora dissi a quello che doveva sparare: sparagli solo un colpo>.

A Torino il cuore dello Stato è lontano e la colonna è più legata agli obiettivi tradizionali, quelli della prima ora. Solo quattro giorni dopo l’agguato a Roma, in quattro aspettano sotto casa Mario Scoffone, capo del personale alla Fiat Rivalta. Lui si accorge dell’agguato e scappa, cerca di rifuguarsi nel garage, ma quelli lo inseguono, lo raggiungono e gli scaricano nelle gambe 10 colpi. Tanti, forse per punirlo di averli fatti correre.

Ma chi decide gli obiettivi? Di solito sono le brigate a proporre  i bersagli. La direzione di colonna discute e sceglie. E decide anche la pena: solo gambizzazione, ferite più gravi o esecuzione. In quest’ultimo caso o nel caso di obbiettivi eccellenti, deve esserci l’ok dell’esecutivo. A volte si vota, la democrazia innanzitutto

… e anche Prima linea

Appena 24 ore dopo tocca a Bruno Diotti, caporeparto Mirafiori. Anche lui gambizzato mentre va al lavoro. Ma questa volta non sono state le Br. Bensì Prima Linea, che non vuol essere da meno, che però si firma con una sigla diversa, Squadre armate operaie, che poi diverrà il nome del secondo anello dell’organizzazione. Ad agire è stata la Squadra della Fiat, quattro operai più Marco, che è uno dei capi. L’obiettivo l’ha scelto Felice Maresca, perchè era stato multato dal Diotti. Per tre di loro è la prima volta. Lo aggrediscono quando  esce di casa alle 5,15. Uno lo colpisce con una chiave inglese. A quello che deve sparare trema la mano, non ce la fa. Allora Maresca gli prende la pistola e spara due colpi. Il fallito sparatore lascia PL.

La cattura di Enzo Fontana

Altre 24  ore e questa volta c’è il morto. Siamo nel milanese, ma non è un agguato. E’ il solito povero e ignaro poliziotto che chiede i documenti ad un uomo, un normale controllo. Ma questo invece del documento estrae la pistola e lo uccide, e ferisce anche l’altro agente. Questa volta però ce ne sono altri due poco più in là che riescono a bloccare lo sparatore e lo catturano. E’ Enzo Fontana, uno dei fondatori dei Gap, ora passato nelle Br.

Contro il lavoro nero

A Rosso la mattanza di gambe non interessa. Il gruppo di Negri cerca di mantenere un barlume di senso politico, seppure con i metodi loro. Anche se, a dire il vero, il 17 gennaio a Bologna qualcuno ha sparato alle gambe di un noto fascista. E a Bologna l’unico gruppo armato attivo è quello di Rosso, capeggiato da Bignami. Nessuno però ha mai rivendicato.

All’inizio del 77 viene lanciata la campagna contro il lavoro nero. Il 22 gennaio a Milano in una decina, alcuni armati, fanno irruzione alla ditta Rosy. Non usano le armi, ma lanciano bottiglie incendiarie e rubano soldi. Una telefonata rivendica a nome delle “Ronde contro il lavoro nero”. A guidare il gruppo i soliti Barbone, Coniglio e Pasini-Gatti. Con loro c’è anche Paolo Morandini, un ragazzetto di 17 anni, figlio di un noto giornalista e critico cinematografico.

Pochi giorni dopo stessa procedura contro un grosso negozio di elettrodomestici. Questa volta sono molti di più, ci sono anche Colombo, Mascellone, Federica Sorella e quelli del collettivo Barona. All’uscita Mascellone deve estrarre la pistola, perchè alcune persone gridano: <Acchiappiamone uno>. E poi ancora contro un centro vendita di materie plastiche. Una ditta di cerotti, dove Barbone porta via dalla cassa 60mila lire. Una ditta di distribuzione bibite, dove viene dato fuoco a un camion. E alla Fratelli Fabbri editore, dove Barbone si è portato dietro anche due ragazzini del Cattaneo.

Il lavoro nero è un buon obiettivo anche per quelli di Prima linea, che non rinuncia alle azioni di massa. Addirittura quelli di PL sfilano nei cortei a volto scoperto, cosa che fa rabbrividire le Br.
E dunque mentre i militari Zanon, Laronga, Mazzola e Pessina, ad esempio, rapinano un’armeria a Gallarate, portandosi via 65 pistole, con le quali armare un piccolo esercito. Il 4 febbraio Libardi, Pietro Villa, Tognini e Giuseppe Crippa detto Apache, fanno irruzione alla Pubblilabor, rapinano e danno fuoco. E si firmano Sao.

Oppure a Torino dove, nell’arco di un paio di settimane: fanno irruzione allo Iacp e bruciano le bollette degli affitti; in una decina lanciano molotov e sparano contro tre sedi della Dc; sempre in folto gruppo fanno irruzione nella sede della Confapi, chiudono tutti gli impiegati in bagno, rubano documenti e danno fuoco. Tra un’azione e l’altra la Ronconi, Iemulo, la Borelli e, uno che chiamano “Roby il pazzo”, che di cognome fa Sandalo, perchè quand’era nel servizio d’ordine di LC, prima di esserne espulso, ci provava proprio gusto a picchiare, ci infilano anche una rapina a una banca di Palazzolo.

Guerriglia a rischio zero

A Milano le azioni di guerriglia sono ormai quotidiane. Auto incendiate, irruzioni in uffici e sedi di aziende o enti, attentati contro caserme dei carabinieri. L’8 febbraio, sei delle Brigate comuniste di Rosso, armati di pistole, entrano negli Uffici  della Face Standard e, dopo aver immobilizzato la guardia, collocano alcuni ordigni, che provocano ingenti danni.

Il giornale Rosso dà ampio risalto all’impresa: “Questi atti di guerra aperta devono essere generalizzati. Insubordinazione, sabotaggi,  assenteismo, lotta contro la militarizzazione dei quartieri sono e devono essere sempre più pratica di massa, e sono l’unico sostegno dell’estendersi della lotta armata… Costruiamo il Fronte Proletario Armato“. E accanto foto che ritraggono giovani che esibiscono le loro pistole. Più o meno le stesse cose pubblica Senza Tregua. Ma non succede nulla, nessuno apre un’indagine, i due giornali continuano ad uscire senza problemi.

Un enorme incentivo per tanti ragazzini attratti dal brivido dell’impresa guerresca. Quando il rischio è quasi zero, perchè non provarci?

Distruggere il carcere di Bergamo

Ma le Brigate comuniste vogliono fare qualcosa di più eclatante, che ne parlino i giornali. A Bergamo stanno costruendo un nuovo carcere, quale obiettivo migliore? Facile colpirlo perchè non è sorvegliato. A casa di Barbone, lui, Alunni e uno detto Minchia preparano gli ordigni e i timer fatti con delle sveglie e delle pile. Il 12 febbraio Alunni con l’esplosivo dentro una valigia prende il treno per Bergamo assieme ad Antonio Marocco, che è appena evaso.

Marco Barbone

Ha solo 24 anni, ma già una lunga vita spericolata. Nel 73 a Torino Marocco faceva l’elettricista, ma anche qualche rapina e finì in carcere per qualche mese. Lì si politicizza come tanti e quando esce entra in LC, ma poi viene espulso perchè favorevole alla lotta armata. Così si lega a Rosso, qualche attentato e finisce di nuovo dentro. Il 5 gennaio evade da Fossombrone assieme a sei comuni. <Andai a Roma, feci una rapina da 100mila lilre, dormii sui treni per 20 giorni>. Poi arriva a Milano, contatta Tommei ed eccolo nelle Brigate comuniste, praticamente il vice di Alunni, vista la sua esperienza.

Gli altri arrivano in auto. Alunni, Marocco, Barbone, Minchia, Carcano, Francesca Bellerè e Laura Motta entrano nell’edificio in costruzione. Maria Teresa Zoni resta fuori di guardia all’auto imbracciando una lupara.

La Motta, figlia di un industriale, è uno dei dirigenti di Rosso. La Bellerè 24 anni è una delle più esperte sul piano militare. La Zoni, magrolina, graziosa, appena 22 anni, fa la maestra e fino a pochi anni prima, assieme alla sorella Marina era tutta casa e chiesa, ancora adesso ogni tanto va a messa, a volte trascina con se in chiesa anche il compagno Marocco.

Piazzano gli ordigni e se ne vanno, dopo aver scritto sul muro Brigate comuniste. Le esplosioni distruggono in buona parte il carcere.
Ma sfortuna vuole che lo stesso giorno il fascista Mario Tuti uccida due carabinieri a Empoli e così i giornali quasi ignorano l’attentato, con grande disappunto dei capi di Rosso. Lo spettacolare battesimo delle Brigate comuniste è praticamente fallito.

Lo stesso giorno, giusto per non rimanere con le mani in mano, Coniglio, Mascellone, Terrone e Pablo fanno esplodere una bomba nello scantinato della scuola vigili urbani di Milano.

 g.g.

Cap successivo: 16) Il ’77. Guerriglia. Uccidiamo uno sbirro.