cap precedente:  15) Il sequestro Costa e gambe crivellate

Scemo, scemo, scemo….

Risuona nelle assemblee e nelle manifestazioni il coro del movimento del 77, che da qualche mese ha cominciato a riempire di nuovo università e piazze. Sembra un ritorno di fiamma del 68, almeno a prima vista, ma in realtà è tutt’altra cosa.

I sessantottini erano consapevoli di appartenere ad un ceto privilegiato e volevano mettersi al servizio di operai, poveri e ultimi e guidarli verso la rivoluzione, dunque volevano fare politica. Cercavano di conquistare consenso, di esercitare un’egemonia. E ci sono anche riusciti, i loro temi, le loro parole d’ordine, le loro idee sono penetrate nella società, hanno avuto un seguito, hanno attraversato tutti gli strati sociali, condizionato partiti, sindacati e governi. Il loro modo di parlare, il modo di vestire, sono diventati anche moda.

Quelli del 77 sono diversi. Pensano di essere loro gli sfruttati e gli oppressi. Sono figli di una sensazione, più che di un mutamento sociale già avvenuto, la sensazione che le nuove generazioni avranno meno di quelle precedenti, che un ciclo si sta invertendo. Sensazione che Negri e compagni hanno teorizzato nella contrapposizione garantiti e non garantiti. E tra i primi ci sono anche gli operai che stanno col sindacato. Senza rendersi conto di assumere così il punto di vista che sarà del padronato, che accuserà gli operai con posto fisso e diritti di essere causa della precarietà dei giovani, quindi contrapponendoli e volendo togliere ai primi, per non dare ai secondi.

Sono figli di una strana situazione politica, dove la sinistra vuole governare con la Dc, che per loro è la quintessenza del male. Da qui la loro sensazione di isolamento, che traducono in volontà di isolamento e nella scelta del Pci e dei sindacati come i veri nemici. Non vogliono convincere e conquistare nessuno, se non loro stessi.

E’ un movimento impolitico, a cui interessa poco la politica e ancor meno la rivoluzione. Ma solo il rifiuto, la ribellione, l’antagonismo e lo sberleffo contro tutti. Tanti giovani che hanno pochi interessi e obiettivi comuni. L’unico denominatore che li unisce è la piazza. Le uova covate dall’Autonomia si sono dischiuse.

E’ il movimento dei circoli giovanili, delle radio libere e delle femministe. Dentro c’è l’ala creativa, gli indiani metropolitani, gli alternativi, più o meno pacifici e un po’ goliardi. Ma sono solo la massa di manovra degli autonomi, che a volte anche con la forza impongono il loro comando. E tra gli autonomi, ci sono i gruppi armati, accettati, protetti, che ora hanno anche una base di massa, nella quale nuotare e nascondersi. Perchè la violenza, anche da chi non la pratica, è accolta, condivisa,  mimata. E nessuno, anche quelli che durante i cortei ballano  e si esibiscono con orchestrine fricchettone pensando sia un grande sberleffo al potere, apprezzano gli slogan truculenti e le dita a P38.

E’ quello che Negri e compagni chiamano  il proletariato giovanile. Soggetti che esprimono il proprio antagonismo attraverso l’uso della marijuana e l’esproprio di merci, il sesso libero e gli scontri di piazza, il rock e lo sciopero selvaggio. Tra il 75 e il 76 a Milano sono nati i Circoli del proletariato giovanile, che si diffondono poi in tutta Italia. Sono i primi centri sociali. I loro militanti occupano case ed effettuano autoriduzioni nei cinema, non pagano ai concerti, saccheggiano negozi, rifiutano scuola e lavoro.  Molte radio trasmettono in continuazione Gianfranco Manfredi  che canta: <Sta nel sogno realizzato,  sta nel mitra lucidato / nella gioia nella rabbia / nel distruggere la gabbia / nella morte della scuola / nel rifiuto del lavoro>

Negri ha trovato il suo nuovo proletariato. Ma Prima linea non ci sta e va all’attacco dei cugini di Rosso. <Ci rifiutiamo di fare, oggi, del discorso sull’operaio sociale una teoria cialtrona del tipo “siamo tutti operai e proletari“>. E ancora: <Non crediamo che oggi la linea politica stia sul mirino della pistola, così come pensiamo che la lotta armata sia pur sempre una forma di lotta e non di per sé un programma>. Belle parole, peccato che finiranno esattamente dentro quel buco che dicono di voler evitare.

11 marzo

Forse non ce n’era neppure bisogno, ma un carabiniere di leva getta un bel cerino acceso su questa massa infiammabile. A Bologna, durante alcuni incidenti all’università, per rispondere al lancio di una molotov, scende dal camion, insegue gli studenti e spara ben sei colpi, per essere sicuro di colpire qualcuno. E lo colpisce, anzi l’uccide. E’ Francesco Lorusso, 25 anni, di LC, che in realtà si è già sciolta, ma nella quale molti militanti continuano a riconoscersi.

Qualche migliaio di giovani si raduna all’università e nel pomeriggio parte un corteo che devasta tutto ciò che

Università di Bologna

incontra, auto e vetrine. Non importa di chi, è la città del Pci ad essere nemica. La polizia è sparita e lascia fare. Interviene solo quando il corteo occupa la stazione. Quelli di Rosso, capeggiati da Bignami, che si autoproclama comandante di piazza, ne approfittano per andare a sparare contro un commissariato e per svaligiare un’armeria. La cittadella universitaria è occupata e dovranno intervenire i blindati due giorni dopo per sgomberarla.

L’incendio ovviamente si propaga. A Roma il giorno dopo un grosso corteo, irto di mani tese con le dita a forma di pistola, sfila per il centro ed anche qui lascia dietro di sè  una scia di devastazione, negozi saccheggiati, auto bruciate, due armerie rapinate. Un gruppo armato tenta un assalto alla sede della Dc in piazza del Gesù. A colpire sono gruppi organizzati dei Volsci, di Rosso e dei Cocori, in mezzo ci sono anche alcuni brigatisti. La massa del corteo assiste, ma non si dissocia.

A Roma la situazione era già precipitata un mese prima. Il 1 febbraio una settantina di fascisti aveva fatto un’incursione all’università, ferendo alla testa con un colpo di pistola uno studente di 22 anni e un altro più lievemente.

Un agente travestito da manifestante e pistola in pugno il giorno che fu uccisa Giorgiana Masi

Il giorno dopo alcune migliaia di studenti avevano dato fuoco alla sede del Fronte della gioventù. Quando il corteo si era ormai allontanato, due agenti in borghese, scesi da un auto, avevano sparato diversi colpi. Erano gli uomini messi in campo dal ministro Cossiga, che travestiti da manifestanti, seguivano i cortei (gli stessi un mese dopo uccideranno la militante del Partito Radicale, Giorgiana Masi). Dal corteo però avevano risposto al fuoco, una sparatoria breve ma intensa, un poliziotto ferito gravemente, un vigile e un passante in modo più lieve. Feriti anche due degli sparatori, che erano stati catturati. Tutti li conoscevano come Paolo e Daddo, due di Rosso-Brigate comuniste. Qualche tempo dopo Pancino e Ventura andranno a Roma per organizzare, appoggiandosi alle Ucc, l’evasione dei due, ma senza esito.

Il nemico è il Pci

Negri scrive: < I compagni di Roma…. hanno dimostrato tutta la forza e l’intelligenza che la classe operaia merita. È il momento dell’attacco!». Ma di operai in piazza neanche l’ombra. Andranno invece all’università per assistere al comizio di Lama, segretario della Cgil. Un’iniziativa di Pci e sindacato contro le violenze degli autonomi. Dubbia politicamente, disastrosa dal punto di vista organizzativo. Non si va dentro a una polveriera senza protezione, cioè con un servizio d’ordine massiccio e attrezzato.

L’assalto al camion da cui parlava Lama

Il Pci e la Cgil per i 77ini sono i nemici: < Il Pci – si legge su Rosso – non è più un partito indipendente del proletariato che sbaglia o che ha dei dirigenti stupidi: il P.C.I. è un partito della borghesia….>. Gli autonomi si sono mobilitati, all’università sono arrivati anche alcuni brigatisti, come Savasta e la Libera, si trascinano dietro un migliaio di studenti, dopo qualche scontro Lama è costretto a non terminare il comizio e gli operai debbono precipitosamente ritirarsi. Il palco da cui parlava il leader Cgil viene distrutto.

Il mucchio selvaggio apre il fuoco

A Torino il 12 marzo un gruppo di PL si stacca dal corteo e prende a pistolettate un commissariato. Anche a Milano i collettivi autonomi organizzano una manifestazione per Lorusso. Ci sono quelli di Rosso, di Prima linea, quel che resta di Lotta Continua e il collettivo del Casoretto, cioè la banda Bellini, dal nome del suo leader. Un personaggio molto noto e carismatico a Milano, tanto che Giusva Fioravanti verrà a Milano per ucciderlo, senza trovarlo. Su di lui e la sua banda verrà scritto anche un libro. A Roma direbbero che è un borgataro, il termine dispregiativo di banda glielo aveva dato Avanguardia operaia. Perchè per quelli del Casoretto, una quarantina, non di piu, la politica si riduce all’antifascismo militante, cioè picchiare i fascisti.

Non è un grosso corteo, un migliaio. Una buona parte col volto coperto, alcuni con giacche e spolverini rigonfi. Sotto ci sono molotov e armi. L’obiettivo è la prefettura, ma è circondata dai carabinieri. Quelli di PL propongono di attaccare, Rosso si oppone. Anche Bellini dice no. Ma ormai è chiaro che la deriva militarista sta prendendo il sopravvento e trascinando verso la sua fine il movimento. LC abbandona il corteo.

Però ci sono tanti che vogliono sparare, bisogna trovare un obiettivo. Tommei propone di andare all’Assolombarda, la sede degli industriali. Il corteo riparte in una Milano spettrale, non c’è polizia in giro. C’è però un corteo di Avanguardia operaia che decide di bloccare gli autonomi. Ormai quelli di Ao e della Statale li considerano dei volgari provocatori. I servizi d’ordine si fronteggiano. Bellini tratta e lo scontro è evitato.

Arrivati all’Assolombarda un gruppo si stacca. Villa e Roberto Rosso, due capi di PL, ordinano ai loro di fare fuoco. Un gruppetto di Rosso, nonostante Tommei cerchi di trattenerli, si aggrega. Coniglio spara con un winchester 44 magnum, gli altri con le pistole. Sono in una ventina, ci sono Barbone, Colombo, Mirra, Memeo, Villa, Rosso, Baldasseroni, Crippa, Bellini con un fucile. Le finestre, nonostante siano blindate, vanno in frantumi. La sparatoria dura un minuto, vengono sparati un centinaio di proiettili. Poi, armi in pugno il gruppo rientra nel corteo, che li accoglie senza problemi. Arriva un camion dei pompieri e Crippa detto Apache, lo blocca sparando alle ruote. Nel frattempo Memeo e Coniglio disarmano un vigile in moto.

Il corteo prosegue, della polizia non c’è traccia. Arriva davanti alla sede degli Agricoltori e quelli di PL decidono di fare irruzione, ci sono anche Laronga, Libardi e Tagliaferri detto il pazzo. Entrano e danno fuoco ai locali, le fiamme divampano così rapidamente che uno resta bloccato dentro. Esce a fatica ed è insegutio da due macellai armati di coltello. Tagliaferri aveva già fatto  parte del Superclan di Simioni. Lo chiamavano il pazzo per la sua propensione alla violenza. All’epoca del Superclan  aveva proposto di uccidere una del gruppo, perchè secondo lui poco affidabile.

Nessuno verrà identificato e arrestato. Quelli che hanno sparato li conoscono tutti. Partecipano a cortei e scontri da anni. Oggi sono mascherati, ma altre volte no. Di regola la polizia fotografa quelli che vanno ai cortei, in piu ha i suoi informatori, come è possibile che non ne venga identificato uno? Molti di quelli che hanno sparato a dei vetri, presto uccideranno.

Uccidiamo uno sbirro

Nonostante le critiche  a certi aspetti del fenomeno settantasettino, Prima linea esulta e si esalta e scrive: <il problema dell’armamento delle masse è all’ordine del giorno. Non possiamo non leggere questa fase che si sta aprendo come una fenomenale avvisaglia della guerra civile>.

 Ma a quelli di Pl a Torino la violenza per le strade, i colpi sparati alle case non bastano. I colpi vanno sparati, ma in un posto dove fanno più male. E’ ancora una volta Galmozzi che spinge per una vendetta più cruenta. Uno sbirro, ci vuole uno sbirro da colpire per vendicare Lorusso. C’è poco tempo, la risposta deve essere immediata. Chi ne conosce uno? E’ Donat Cattin a suggerirne uno: la mattina staziona davanti al liceo Ferraris, dove lui fa il bibliotecario. Roberto Sandalo lo conosce, è stato studente del Ferraris fino all’anno prima e abitano vicino. E’ lui a dare l’informazione giusta, l’indirizzo di Giuseppe Ciotta, un ragazzo di 29 anni con una figlia di due.  Sandalo ha 19 anni, il padre è capoofficina alla Fiat, ora è studente a giurisprudenza, è quello che chiamano Roby il pazzo.

L’obiettivo è trovato, uno che non sanno neanche chi è, ma nel volantino lo chiamano “killer di Stato”. La mattina del 12, alle 8, lo aspettano sotto casa in quattro capeggiati da Galmozzi. Altri due, Solimano e Iemulo sono stati assolti per insufficienza di prove. L’uomo esce dal portone, la moglie lo saluta dalla finestra, sale in auto. Galmozzi si avvicina e gli spara tre colpi. Muore tra le braccia della moglie scesa in strada.

La 500 col vetro in frantumi, all’interno il cadavere di Giuseppe Ciotta

L’azione, con una telefonata all’Ansa, non viene rivendicata come PL, ma con un’altra sigla: <L’esecuzione del carabiniere di stamattina è stata fatta dalle Brigate Combattenti, vi preghiamo di non fare confusione con le Brigate Rosse>. Ma non è un carabiniere, risponde il cronista. <Sì, quell’agente dell’Sds>. No, non è dell’Sds, è dell’Ufficio politico della questura. <A noi risultava diversamente. E comunque è sempre un nemico di classe… seguirà comunicato>. E’ stata un’azione improvvisata, senza discuterne con l’organizzazione. Una vera forzatura, perchè nella prima riunione nazionale si era deciso che PL, a differenza delle Br, non avrebbe compiuto azioni di annientamento. Che sarebbe a dire ammazzare un cristiano.

Nel volantino scrivono: <E’ in opera un vero e proprio progetto di annientamento delle avanguardie che si battono contro la tregua e il governo dell’astensione…. l’elenco dei nostri morti si fa troppo lungo e ora che i nemici comincino a pagare…. la dichiarazione di guerra dello Stato va raccolta…. organizzare e praticare la guerra di classe dispiegata>.
Strano progetto di annientamento, visto che un altro capo di PL commenterà: <In quei giorni la polizia ci ha lasciato fare, non si è fatta vedere>. Lo Stato non annienta, lascia fare.

E’ il gruppo di Torino a dettare la linea e a trascinare PL. Il primo nucleo è scresciuto ora ci sono tre squadre di quartiere e una operaia. Anche se la presenza nelle fabbriche è minima. Alla Fiat ci sono solo tre i piellini. A differenza di Milano dove invece la presenza nelle fabbriche è più consistente.

Ancora guerriglia

Solo cinque giorni dopo a Milano c’è un’altra manifestazione, che di nuovo diventa la base logistica per azioni armate. Rosso e PL si dividono gli obiettivi. I soliti Coniglio, Mascellone, Svampa, Terrone, Barbone, Pablo, Landi, attaccano la sede della Bassani-Ticino con lanci di molotov.

Nello spezzone Prima Linea c’è quasi l’intero vertice, che se ne frega delle elementari norme di sicurezza di un’organizzazione terroristica. Si fanno anche fotografare in posa, con le pistole in bella vista. Ci sono i milanesi Baglioni, Libardi, Crippa, Domenichini, Barbieri, che ha portato le armi per tutti. Son venuti anche i torinesi: Galmozzi, Sandalo, Donat Cattin, Solimano, Iemulo, Fagiano, Biancorosso. Fanno irruzione negli uffici della Marelli, sparando in aria costringono impiegati e dirigenti a consegnare soldi e documenti. E poi le solite molotov che appiccano il fuoco.
Intanto un centinaio di giovani bloccano corso di Porta Romana, per impedire alla polizia di intervenire, ma non interverrà.

Memeo-Terrone ne approfitta per rapinare a una guardia della Mondialpol un revolver 357 compresa fondina e cinturone. Una bell’arma, che il giovane, il più esuberante del gruppo, uno di quelli che fanno le tacche sulla pistola per ogni impresa, porta come un trofeo nel corteo. Ma Pancino e Ventura, i capi, gli impongono, sfiorando la rissa, di consegnarla, perchè le armi debbono essere di tutti.

<Tutto era casino e noi correvamo come cavalli pazzi alla ricerca della felicità. E’ una sensazione simile a quella che provi quando leggi i Ragazzi della via Pal per la prima volta. E’ tutto molto romantico, molto potente, siamo in tanti, decisi a giocarci la vita, con allegria>. Sono le parole di un ragazzino, appena 21enne, Giuseppe Crippa. Una famiglia modesta, ma per bene, come avrebbero detto i vicini. Ha fatto vita di parrocchia, allestiva spettacolini teatrali sotto la supervisione del parroco. Prima le scuole private, poi l’istituto tecnico, negli anni delle occupazioni, degli scioperi, delle bombe. Dalla parrocchia a Lotta continua, come tantissimi. Finita la scuola fa l’educatore di bambini subnormali.

Rosso esce con in copertina una foto di tre giovani con in mano una molotov, un bastone e una pistola e il titolo: “Avete pagato caro… non avete pagato tutto“. Inneggiando alla <capacità di esercitare violenza in alcuni punti della città, individuando alcuni nodi di potere>.
E ancora una volta. Nessun fermato, nessuno identificato, nessuno indagato.

Cossiga

L’illustre professor Colletti, alcune settimane dopo, va al Viminale, vuol parlare col ministro Cossiga.  Vuol chiedere perchè la polizia non interviene nelle università, alcune delle quali, soprattutto Padova e Roma, ma anche altre, sono in mano agli autonomi, con professori e studenti vittime della loro violenza squadristica.

Il ministro Cossiga amava vestirsi da carabiniere

Cossiga, dietro la sua scrivania su cui spiccano alcune statuine di carabinieri, non si perde in giri di parole alla democristiana, a lui piace la provocazione e risponde, lasciando di stucco il professore: <quelli sono gli unici in grado di portare in piazza decine di migliaia di persone contro il Pci>.

Non è una battuta. Colletti non sa chi ha difronte. Non sa che Cossiga non è quel democristiano di seconda fila che tutti conoscono. E’ il braccio operativo della P2 nel governo. Prima di prendere ogni decisione importante, solleva il telefono a chiama Gelli.,

E non è un caso. Cossiga insieme ad Andreotti è il dc piu legato alle gerarchie militari. Per diversi anni è stato sottosegretario ai servizi segreti. E’ dunque il referente di quegli ambienti più preoccupati della crescita e della forza del Pci, che ora, con il trucchetto della solidarietà nazionale, è arrivato a un passo dalle stanze di governo. E che bisogna far di tutto per tenerlo sotto tiro e logorarlo. Questi che vanno in giro a sparacchiare e gli altri, i brigatisti, sono perfetti, sono manna dal cileo.

Il 77 brigatista

E le Brigate rosse che fanno, mentre le piazze sono riempite e incendiate dal movimento del 77? Osservano, tenendosene fuori, ma pronte a far reclutamento, non appena il movimento rifluirà lasciando a parlare solo le armi. <Per me e non solo per me quel movimento è stato un oggetto sconosciuto fino alla fine – dirà Moretti – Le Br erano figlie del movimento precedente, quello che aveva nella classe operaia il cuore e il cervello, non ci adattammo mai ai mutamenti sociali di quegli anni>.

Alle Br le teorie sul proletariato giovanile fanno venire l’orticaria e non può essere altrimenti. La condanna è senza appello.

<Gli emarginati possono esprimere una coscienza rivoluzionaria soltanto sotto la direzione della classe operaia, della sua ideologia e della sua avanguardia: la rivoluzione degli emarginati non è altro che un’utopia piccolo-borghese, reazionaria e antiproletaria. Il fatto poi aberrante è l’aspetto pratico di questa concezione errata della violenza, che porta questi compagni ad esaltare fattori tutti interni al capitalismo, come la delinquenza, il teppismo e la droga, quando non addirittura ad organizzare saccheggi di negozi (oltretutto di beni voluttuari e di lusso come cineprese, pellicce, liquori, ecc) spesso condotti da studenti e “figli di papà”>

Dirà Curcio: <Il 77 fu un movimento «piombatoci addosso come una slavina di giovani selvaggi». Del resto le Br non si sono accorte delle profonde trasformazioni che il post fordismo sta covando. Sono ancora ancorate alla centralità della classe operaia delle grandi fabbriche e a uno schema tardo-leninista.
Il proletariato giovanile non è roba da Br.  Loro non amano la piazza, ma agiscono in silenzio alla mattina presto. Meno caciara e più fatti, cioè più gambe crivellate. Il 15 marzo, in pieno dopo Lorusso, un commando di quattro persone spara a Guglielmo Restelli, che alla Breda non è neanche un dirigente, ma un capo squadra saldatori, alle 8 di mattina,  all’uscita della “metro” di Sesto San Giovanni.

g.g.

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