Capitolo precedente: 17) Le Br sconfiggono lo Stato. La guerriglia dilaga.

Arresti

Improvvisamente la polizia infligge un duro colpo a Prima Linea. Ma un po’ per caso e un po’ per errore. A Torino il dc Notaristefano, sfuggito all’agguato delle Br, aveva riconosciuto in una foto di Giulia Borelli la donna che gli aveva sparato. Si era sbagliato, la donna era Nadia Ponti, ma ora le volanti della Ps girano con la foto della Borelli sul cruscotto. Da qualche giorno la polizia sta tenendo d’occhio il piellino Marco Scavino, è un volto noto, perchè è il volto legale o semilegale di PL. E, guarda un po’, il 12 maggio, si incontra per strada proprio con la Borelli. Gli agenti intervengono e li arrestano. Girato l’angolo c’è un altro giovane, che aspetta i due. Non vedendoli arrivare, gira quell’angolo e si trova davanti la polizia. E’ Galmozzi, il marito della donna e, di fatto,  il capo di PL. Arrestato anche lui. Per Galmozzi e Scavino la carriera nella lotta rmata è finita. La Borelli uscirà dopo due anni e tornerà subito in PL.

Giulia Borelli e Enrico Galmozzi

Venti giorni prima era stato arrestato Baglioni e in giugno finisce in manette Pietro Villa. Le accuse sono abbastanza generiche e non rimarranno dentro a lungo. Villa è accusato di essere un brigatista e questo dà il segno di quanto poco o nulla la polizia sappia delle nuove formazioni armate. Ed è una cosa ben strana: i gruppi della sinistra extraparlamentare erano stati abbondantemente infiltrati. Tra gli anarchici di Valpreda, quattro gatti, c’erano ben tre infiltrati. Va bè, quello era un caso speciale. Ora non ce n’è più uno? Neppure uno straccio di informatore in gruppi aperti e permeabili come quelli dell’Autonomia, nel cui seno si sono andate formando le organizzazioni armate?

Dirà Francesco D’Ursi: <Io ero così figura “scoperta”, cioè riconosciuto un po’ in tutte le situazioni politiche come “uno delle squadre di PL”…. nelle situazioni derivate dalla esperienza di movimento ben pochi ignoravano la mia attività nella lotta armata>. Già, ma polizia e carabinieri a quanto pare, sì.

Prima Linea comunque si trova a dover risolvere qualche problema. Dopo i falliti attentati di giugno, con conseguenti arresti, molti pensano bene di cambiare aria e di entrare necessariamente in clandestinità. Donat Cattin , che fino a questo momento ha fatto tranquillamente il bibliotecario, presso l’Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate, lascia il lavoro e  va a Milano; Solimano e Fagiano a Firenze; la Ronconi, Sandalo, Milanesi e Maresca a Napoli, dove PL sta muovendo i primi passi.

Non avendo delle basi, per i piellini è anche complicato fare delle riunioni. <Ci si trovava nei bar o nei parchi e a volte le riunioni duravano 15/30 minuti>. E’ ormai inevitabile porsi il problema di un’organizzazione più efficiente ed impermeabile e inevitabilmente scivolare verso quel militarismo che volevano evitare.

Avvocati

Anche la magistratura dà qualche un piccolo segno di vita, ed emette tre mandati di cattura. Per due legali di Soccorso rosso, Spazzali e Cappelli, che oltre a fare gli avvocati sono militanti uno delle Br e l’altro di Rosso. E per Pancino, uno dei capi di Rosso,  che non si sa da chi avvertito, riesce a sparire.

Tony Negri si prende una gran paura e se la squaglia. Si fa accompagnare in moto da Fabio Brusa, uno di Varese, oltre il confine. E di lì raggiunge Parigi.
I ragazzi di Rosso non la prendono bene. Lora stanno sulla strada, rapinano banche, corrono dei rischi e lui, il grande capo, invece ora se ne sta nei salotti della buona borghesia parigina a pontificare sulla lotta armata.  E non è la prima volta che il cattivo maestro molla gli allievi.

L’uccisione di Custrà

Il 13 maggio, a Roma, gli agenti travestiti da manifestanti, voluti da Cossiga, uccidono durante una manifestazione la militante radicale Giorgiana Masi.

Il giorno dopo a Milano quel che resta della sinistra extraparlamentare e gli autonomi  organizzano un corteo, alcune migliaia di persone. Ma gli autonomi hanno già deciso che ad un certo punto sse ne andranno per conto loro per puntare su San Vittore, dove sono rinchiusi i due avvocati. I capi dell’Autonomia hanno deciso che sarà una manifestazione disarmata. Scalzone e Bellini guidano  il corteo. Ma non Rosso, o meglio alcuni suoi capi e in particolare il collettivo Romana. Dentro Rosso c’è insofferenza nei confronti dei capi, della loro ambiguità. Hanno incitato i giovani ad armarsi, all’illegalità e alla violenza, a sparare anche.  Ma poi tirano indietro, hanno paura della galera, fanno i professorini, non hanno il coraggio di oltrepassare davvero il confine della lotta armata.

Quelli del Romana, d’accordo con Mancini e Ventura, han deciso di portarsi le armi. Non ne hanno molte allora Alunni ha dato a Barbone anche un fucile e una cal. 38. Gli autonomi sono qualche centinaio, arrivati davanti al carcere c’è troppa polizia, si cambia percorso. Il clima è quello delle ultime manifestazioni, strade deserte, serracinesche abbassate, la maggior parte ha il volto coperto e agita le dita a forma di pistola. La polizia si è schierata in via De Amicis, ma il corteo non deve passare di lì, non è un problema, continua a sfilare plumbeo e rabbioso, ma pacifico.

Scalzone ha anche creato un cordone per evitare che qualcuno, alla vista della polizia con caschi e scudi, si faccia prendere da cattive idee.
Ma è proprio quel che accade. Per il collettivo Romana è l’occasione buona per alzare il tiro. Ferrandi grida: <Romana fuori!>. Poi lui e Memeo sfondano il cordone e, seguiti da una ventina, si spingono su per via De Amicis.  L’intento a quanto pare è quello di lanciare delle molotov. Il cordone del Terzo Celere è a 150 metri, fermo e non da segni di voler fare alcunchè.

Barbone estrae da sotto l’impermeabile il fucile a canne mozze e, assieme a De Silvestri, blocca un filobus e fa scendere i passeggeri, così da bloccare l’incrocio. Qualcuno da fuoco al filobus.

Ferrandi e Memeo corrono verso la polizia, seguiti da tre o quattro che lanciano le bottiglie incendiarie. La polizia risponde con i lacrimogeni. Improvvisamente Memeo, che è appena a 30 metri dagli agenti, impugna la pistola e fa fuoco, quattro o cinque colpi, poi corre indietro. Ferrandi che è poco più indietro, spara anche lui.

A sentire il rumore degli spari, anche gli altri che sono più lontani sparano. Barbone col fucile a canne mozze, Colombo e  De Silvestri con le pistole. Pasini spara in alto. Con loro ci sono anche i ragazzini del Cattaneo, anche uno di loro, Azzolini, spara. Gli altri due lanciano molotov. Un paio di agenti rispondono al fuoco. Secondo alcuni anche Ventura spara. Memeo, dopo essere arretrato, si ferma e torna a fare fuoco, immortalato dai fotografi.

Il giorno dopo la foto sui giornali ritrae un giovane magro, col passamontagna, in mezzo alla strada le gambe larghe e piegate, le braccia protese in avanti a impugnare la pistola con due mani. Diverrà la foto simbolo degli anni di piombo. Tutto è durato non più di un minuto poi il gruppo si ritira e rientra nel corteo. Prima però Memeo punta la pistola alla tempia di una fotografa e si fa dare il rullino.

Non si sono neanche accorti che un colpo della Beretta di Ferrandi ha perforato la visiera del casco del brigadiere Custrà e gli è entrato nella fronte. Un altro colpo ha fratturato lo zigomo di un altro poliziotto. E un pallettone del fucile di Barbone ha centrato l’occhio, che gli verrà asportato, di un passante.
Alcuni autonomi raggiungono piazza S.Stefano dove il corteo principale si è sciolto e dove la notizia della morte del poliziotto è già arrivata. Polizia e carabinieri non ci sono, paradossalmente è il servizio d’ordine del Mls di Capanna ad intervenire. A suo modo, prendendo a sprangate quelli di Rosso e mandandone due all’ospedale.

Le indagini porteranno all’arresto solo dei tre del Cattaneo, due sono minorenni, che erano al loro primo scontro. Gli unici riconoscibili in foto. Ma ancora una volta le indagini vengono fatte male, quasi controvoglia. C’erano diversi fotografi, ma gli inquirenti si accontentano delle foto pubblicate sui giornali. Anzi no, sequestrano un rullino, ma gli fanno prendere luce. Raccolgono i bossoli alla rinfusa, senza registrare dove li hanno trovati. Si dimenticano di far trascrivere la registrazione fatta da una radio, nella quale si sente Ferrandi dare l’ordine dell’attacco. Indagherà seriamente 15 anni dopo il giudice Salvini, trovando altre foto e, riuscendo ad identificare tutti quelli che spararono. Ancora una volta il comportamento di polizia e magistratura lascia ampio spazio a molti sospetti.

I capi di Rosso, già preoccupati dal mandato di cattura per Pancino, ora hanno paura. La sera radunano quelli del Romana e li accusano di aver disubbidito alle disposizioni e di comportarsi in modo provocatorio. Quelli replicano che sono stati loro a dire di prendere le armi. Alunni difende i ragazzi. L’organizzazione comunque non li molla. Pancino dà 300mila lire a Ferrandi e Pasini e li manda a Roma. Dove Ceriani Sebregondi li fa ospitare a Velletri in un attico lussuoso del padre medico di una militante. Altri si nascondono in una villa sul lago di Como.
Ma ormai la rottura tra militari e politici è nelle cose.

Nascono le Fcc

Sono Alunni e Marocco a guidare la scissione. Non si può predicare la lotta armato e poi, se c’è un morto, prendersi paura. E non possono convivere un livello occulto e un’organizzazione pubblica. La lotta armata ha delle sue regole di segretezza, di compartimentazione e di gerarchie. In una parola deve basarsi su una organizzazione militare, che non fa cortei ed espropri di jeans. Le accuse ai capi di Rosso sono spietate: <trionfalismo parolario, … inconsistenza di progetto e nullità organizzativa>.

Per loro il militare è la massima espressione del politico, per i professorini è l’inverso. Occorre “strutturarsi come partito combattente per la guerra civile di lunga durata ormai matura”. E’ la strada che porta ad essere come le Br. Scrive Maria Teresa Zoni: <è finito il momento della mediazione, al militante va chiesto tutto, la vita e la morte e quindi la clandestinità è la prima scelta politica>.

Militanti delle Fcc

Dopo due rapine, il 26 e il 28 luglio, una in banca e l’altra in un’armeria, che frutta una trentina di pistole, guidate l’una da Marocco e Barbone e l’altra da Alunni, viene formalizzata la separazione.

Il nuovo gruppo, prende il nome di Formazioni comuniste combattenti (Fcc). Aderiscono quelli del collettivo Romana, tranne Ferrandi, Memeo e Mirra che si avvicinano a PL. Un’altra decina di milanesi, tra cui Carcano e la Bellerè. I varesini, che sono un folto gruppo. Maria Teresa Zoni si tira dietro la sorella Marina, più vecchia di lei, già sposata con una figlia e un posto da insegnante. Una vita tranquilla, ma a spingerla ad abbandonare tutto, figlia compresa, non è solo la sorella, ma una specie di colpo di fulmine non appena incontra Alunni.  Il Casanova del terrorismo colpisce ancora. Poi ci sono i bolognesi: Bignami, Zambianchi, i fratelli Azzaroni, Paolo Klun, Marzia Lelli e altri tre o quattro. Infine il gruppo romano di Sebregondi e un gruppetto di Avellino. In tutto poco più di un centinaio. Il comando è composto da Alunni, Marocco e Barbone.

L’organizzazione ricalca quella di Prima linea. Accando alle Fcc vere e proprie ci sono le Squadre  armate proletarie (Sap), che sono gruppi di base legati a un quartiere, quasi sempre giovanissimi, abbastanza autonomi, ma coordinati da qualcuno delle Fcc.

La linea politica  rimane imperniata sulle tematiche dell’autonomia. Tre i fronti di attacco: 1) le forze di occupazione e repressione: carabinieri e polizia ovviamente, ma anche vigili urbani e vigilanza privata. 2) le forze di controllo territoriale: giornalisti e magistrati, ma anche medici, Inam e persino i presidenti dei Comitati di quartiere. 3) la ristrutturazione e le gerachie di fabbrica, compresi i sindacati.

In realtà Bignami non arriva subito, un po’ perchè è ancora in carcere. E’ stato arrestato in marzo a casa di Negri, perchè in possesso di carte d’identità rubate, uscirà in novembre. Un po’ a causa di un dramma sentimentale. Scrive una del gruppo ad Alunni: <…. è disperato, fa lo sciopero della fame che lo ha ridotto uno scheletro. Non so se sa che la sua donna (Barbara Azzaroni ndr) sta con te. Per questo motivo è rimasto in Rosso. Dobbiamo recuperarlo>.
Verrà recuperato appena torna in libertà, anche perchè nel frattempo il bel Alunni ha fatto un’altra conquista.

Le formazioni armate ora sono otto

Ora le organizzazioni combattenti attive sono otto: le Br, Prima Linea, le Ucc, i Nap, le Fcc, Azione rivoluzionaria, Rosso (che a Milano dopo la scissione delle Fcc è ormai poca cosa, ma è forte in Veneto) e poi ci sono i Cocori. Più qualche altro gruppuscolo legato a situazioni locali.

Già, i CoCoRì. Nati a fine 76 dalla scissione di Senza Tregua, di loro si sà e si saprà sempre poco. Non perchè si muovano nell’ombra, anzi hanno un livello pubblico piuttosto attivo, capeggiato da Scalzone e Del Giudice. E’ che hanno un’organizzazione molto frastagliata e poi la sigla CoCoRi non viene mai usata. Il livello militare non ha nemmeno un nome e firma le sue azioni con sigle sempre diverse, tanto che per lungo tempo si ignorerà che sono opera di una stessa organizzazione

L’attività militare finora è stata scarsa e in generale sarà concentrata soprattutto su rapine, azioni di guerriglia e attentati.
Ma qualche gamba bisognerà pure bucarla, altrimenti neanche si accorgono che esisti. E così il 19 maggio in tre si presentano nello studio del professor Giuseppe Ghetti, ufficiale sanitario del comune di Seveso. Lo accusano di aver nascosto la pericolosità dell’azienda chimica Icmesa,  e poi di aver minimizzato le conseguenze della nube di diossina che, un anno prima, aveva fatto evacuare centinaia di persone, ammalare decine di bambini, ucciso migliaia di animali. Un disastro ecologico che i padroni dell’azienda avevano per qualche tempo nascosto.

E’ un’azione diversa da quelle solite della Br, non viene colpito un simbolo, un ruolo, chi sia ad incarnarlo poco importa, qui viene colpito un uomo accusato, a torto o ragione, di essersi macchiato di una grave colpa, che la gisutizia borghese ha fatto finta di non vedere. E’ il filone giustizialista.

Ma al giovane che deve sparare si inceppa la pistola, il medico la afferra per il silenziatore e cerca di strappargliela. Una situazione imprevista. Interviene il secondo che con una raffica di mitra alle gambe atterra Ghetti. Il primo disinceppa l’arma e spara altri due colpi a segno.  Erano inesperti, dirà Balducchi uno dei capi militari.

Fuoco sui “pennivendoli di regime”.

Giugno mese record. Mai tante carni lacerate, vene tranciate e ossa spezzate dal piombo. Un record provvisorio, ma impressionante. Dodici ferimenti, praticamente un giorno sì e uno no. Alle Br spetta la parte del leone.

La direzione strategica ha lanciato una nuova campagna, in aggiunta a quelle contro la Dc, lo Stato e quella della prima ora, contro dirigenti e capi di fabbrica. I nuovi nemici sono i giornalisti, “i pennivendoli di regime“.

Indro Montanelli a terra ferito

Il primo giugno viene ferito, mentre sta entramdo al giornale, Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX di Genova. Il giorno dopo in due aspettano Montanelli nei giardinetti davanti all’hotel Manin, dove il più noto giornalista d’Italia alloggia. Per lui si sono mossi due membri dell’esecutivo. Azzolini, che è anche il capo della colonna milanese, che ora si chiama Walter Alasia, e Bonisoli. Due reggiani e tra i pochi ancora liberi del nucleo storico. Appena Montanelli, che ha 68 anni, passa loro davanti, Bonisoli lo segue e gli spara due colpi alle gambe. Si accascia, per sua fortuna sono ferite lievi. In auto ad aspettare i due brigatisti c’è Calogero Diana, che era già insieme ad Azzolini quando, qualche mese prima, questi uccise un poliziotto che li aveva fermati.

Il 5 giugno tocca alla colonna romana e al direttore del Tg1, Emilio Rossi. Lo affrontano in due, appena sceso dall’autobus, un uomo e la Faranda. Sparano entrambi, una dozzina di colpi che gli spezzano i due femori e una tibia.
Manca solo Torino, la vittima designata è già stata scelta, ma per vari intoppi l’esecuzione è stata rinviata.

….per Rosso meglio quelli di sinistra

Ai capi di Rosso il ferimento dei giornalisti è piaciuto e decidono di seguirne l’esempio. Gli obiettivi scelti dalle Br però sono sbagliati, non vanno colpiti quelli di destra, ma quelli di sinistra. L’idea si risolve in un fiasco, l’unica azione messa a segno è il danneggiamento dell’auto di Corrado Incerti, giornalista di Panorama. Alunni forse ha ragione.

Più efficienti si mostrano i cugini veneti, che Il 7 luglio possono fare la prima tacca sul calcio delle loro pistole. Ad Abano Terme, sparano alle gambe del giornalista del Gazzettino, Antonio Garzotto. E’ un semplice cronista, ma occupandosi di giudiziaria, narra le violenze e lo squadrismo dei Collettivi politici padovani. Per questo viene punito. La firma è quella del Fronte Comunista combattente, che già aveva incendiato i vagoni a Padova

Ancora pochi giorni e anche i Cocori tornano a colpire, ferendo un capo reparto della Breda. La vittima l’ha scelta Balducchi, il capo militare dei Cocori, che lavora proprio alla Breda. A sparare è stato il Sergente (Palmero).

E PL dà fuoco alle fabbriche

Il 19 giugno due carabinieri si presentano all’ingresso della Marelli a Quarto Oggiaro. La guardia apre, ma si ritrova un mitra puntato alla schiena. I due, Segio e Mazzola, aprono il cancello ed entrano in cinque, tra cui una ragazza, Marina. Mentre i primi incatenano ad un palo la guardia, gli altri, con alcune taniche di benzina appiccano il fuoco.

Pochi minuti dopo stessa tecnica alla Sit Siemens, un carabiniere si fa aprire. La guardia viene legata e caricata su un auto. Il resto del commando (Libardi, Tognini, Coda e Crippa) colloca tre taniche con un timer. Gli incendi sono devastanti, occorrono 24 ore per spegnere le fiamme. Danni per 50 miliardi e 5mila operai in cassa integrazione. I due attentati sono firmati da Prima linea “contro la ristrutturazione“.

Il giorno dopo un caporeparto della Siemens, appena uscito di casa, si accorge che due giovani lo seguono. Capisce al volo e si mette a correre, entra in un portone, ma i due lo raggiungono e lo feriscono alle gambe. L’agguato è firmato dalle Squadre operaie combattenti. Pare che la gambizzazione sia la risposta alla messa in cassa integrazione conseguente agli incendi, anche se PL non l’ha mai rivendicata, potrebbe essere anche l’iniziativa di qualche altro gruppetto armato. Ognuno vuole il suo gambizzato.
Lo stesso giorno a Prato, sempre quelli di PL danno fuoco a una decina di auto Fiat in un concessionario.

Continua la strage di gambe

Passano solo tre giorni e Prima linea colpisce di nuovo. A Pistoia Giancarlo Niccolai viene gambizzato mentre si reca al lavoro. Chi è? Un impiegato della Breda, dove è anche delegato Cisl. Un cattolico di sinistra, attivo nella Dc pistoiese, ma non con una posizione di vertice. Che ruolo può avere nel sistema di dominio capitalistico quest’uomo, tale da essere un obiettivo? Nessuno. La verità è che spesso le vittime vengono scelte a caso.  L’agguato è stato deciso e compiuto dal gruppo di fuoco di Firenze, i cui capi sono Solimano e Zanon, trasferitisi da Milano. Ma l’uomo è stato indicato da qualche simpatizzante pistoiese e tanto è bastato.

Ma è stato un errore più errore di altre volte. Nel giro di un paio d’ore lo stabilimento della Breda si svuota e gli operai vanno tutti in piazza, tra loro probabilmente anche chi lo ha condannato a mesi di ospedale.

Il giorno prima le Br erano tornate a colpire a Roma. Il prof Cacciafesta, preside di Economia e Commercio, esce di casa alle 7,30 e si trova di fronte due donne. Una estrae la pistola e gli spara alle gambe, ma non lo prende, lui scappa e riesce a rientrare nel portone. Ma l’altra lo raggiunge e lo ferisce. Le due  se ne vanno, seguite da una terza donna che aveva fatto da copertura. Le tre sono Balzerani, Faranda e Brioschi. Poco distante ci sono Seghetti e Morucci, che si allontanano. Le donne salgono su un auto, al volante c’è Moretti.
Cacciafesta è un uomo di un certo peso dentro la Dc, legato ad Andreotti diverrà poco dopo presidente dell’Italcasse.

Ormai c’è un agguato al giorno. Br e Prima linea si alternano nelle azioni.
Il 24 giugno un commando di PL aspetta il dott. Anzalone, presidente dell’Ordine dei medici di Milano, all’uscita del suo ambulatorio. E’ Max Barbieri a scaricargli nelle gambe 7 colpi, provocandogli 13 ferite e due fratture. Con lui ci sono Rosso, che ha scelto l’obiettivo e deciso l’azione, la moglie Alba Magnani e Maurizio Baldasseroni, un operaio di 27 anni. PL aveva già compiuto altre azioni contro medici e Ordine dei medici, la motivazione è che i medici mutualistici sono i guardiani dei padroni contro gli assenteisti.

Il 27 giugno per la prima volta anche una fabbrica del Sud entra nel mirino. E’ ancora un commando di Prima Linea a ferire Vittorio Flick, capo del personale dell’Alfa Sud. L’azione viene rivendicata dagli Operai Combattenti per il Comunismo. E’ la prima azione di PL a Napoli, «Solo a posteriori – dirà Flick – ho capito che nell’ambito del gruppo di fuoco c’erano delle persone che conoscevo e che i fiancheggiatori erano dei delegati sindacali con cui mi confrontavo quotidianamente». In fabbrica lavora come impiegato Bruno Russo Palombi, uno dei capi di PL a Napoli.

Nicolotti, delegato Fiat, bravo, serio, equilibrato.

Luca Nicolotti

Il giorno dopo è il turno delle Br. A Genova viene ferito Sergio Prandi, dirigente dell’Ansaldo. Ad affrontarlo per strada è un uomo solo, a volto scoperto, che gli spara 4 colpi. Ma di certo non è solo, ci sono almeno altri tre brigatisti in appoggio. Le Br, ma anche le altre organizzazioni armate, non compiono mai un ferimento in meno di quattro persone. E quelle coinvolte sono in tutto almeno una dozzina: ci sono quelli che hanno pedinato e studiato la vittima, quelli che hanno rubato le auto, quelli che ritirano le armi dopo l’agguato e quelli che ascoltano le radio della polizia e infine quelli che scrivono il volantino e quelli che lo diffondono.

A sparare è stato Luca Nicolotti, nome di battaglia Valentino, entrato in clandestinità neanche un mese prima. Ha 24 anni, torinese, famiglia medio borghese. Studiava ad Architettura, ma si è fatto assumere come operaio alla Fiat, dove diviene delegato sindacale della Cisl e milita in Avanguardia operaia. <Era uno dei migliori delegati di Mirafiori, se c’era un intervento da fare in modo equilibrato era uno di quelli, cioè uno dei più bravi>[1]. Nel 75 si avvicina alle Br e altri due o tre operai lo seguono. Quando nel 77 deve partire per la leva, entra in clandestinità e viene mandato a Genova. Si mostra subito molto deciso, convinto e diverrà presto uno dei capi colonna, oltre ad essere uno dei “militari” più attivi. Non si pentirà nè dissocerà mai dalla lotta armata.

Gli operai Fiat coinvolti nelle organizzazioni armate, nell’arco di dieci anni saranno in tutto una sessantina, la maggior parte con ruoli minori o di fiancheggiatori.

“Lavoro ai disoccupati non agli ortopedici”

Il 30 giugno è record: due gambizzazioni in un giorno. Una a Torino, obiettivo un dirigente della Fiat. Sono in quattro, Peci, che comanda il gruppo. Pietro  Panciarelli, 22 anni, operaio Lancia, detto quartino, perchè mangia e beve molto, <aveva una forza incredibile>.  Il già noto Piancone. Andrea Coi, 26 anni sardo, studia ingegneria nucleare, piccolo con due folti baffi, passa per un intellettuale. Vive in una mansarda con una compagna tedesca, anche lei Br. Ha il compito di istruire le inchieste sulle potenziali vittime. Ma stavolta è lui che deve sparare. Prima o poi tocca a tutti. Si è messo un cappello a larghe falde e un giubbotto, visto il caldo che c’è, non passa inosservato. Infatti il geom. Franco Viscaj, appena uscito di casa,  lo nota e quando Peci estrae il mitra e dà il segnale e Coi gli si fa incontro, lui si mette a correre verso casa. Coi spara ma lo manca. Quello apre il portone ed è quasi in salvo, quando il brigatista lo raggiunge e gli spara di nuovo, colpendolo oltre alle gambe anche alla milza.

A Milano invece viene ferito, Luciano Maraccani, dirigente della  OM-Fiat. In due, un uomo e una donna,  gli sparano da dietro, a pochi metri dal portone di casa, da dove è uscito per andare al lavoro. Fortunatamente è colpito solo a un polpaccio, saltellando si rifugia in un bar e i brigatisti fuggono, in auto li aspettano due capi, Diana e Savino, che è evaso poche settimane prima.  Uno dei due che ha sparato è Rino Cristofoli, la donna resta ignota. Maraccani è stato fortunato, ma anche maledettamente sfortunato, perchè l’biettivo non era lui, ma un dirigente della Sit-Siemens che sta nello stesso portone. I due si assomigliano vagamente e il commando si è sbagliato. Ma un dirigente vale l’altro, viene cambiato il volantino e si fa finta che fosse lui la vittima designata.

Lotta Continua titola: “Lavoro ai disoccupati non agli ortopedici“. E molti di coloro che si ritengono potenziali obiettivi girano ormai con due lacci emostatici, per bloccare le eventuali emorragie.

Ma non è finita. A Bologna le Fcc compiono attentati contro la sede dei vigili urbani e contro l’Associazione industriali. Le Br mettono una bomba al carcere Spoleto. E I Nap sparano contro una caserma dei carabinieri a Catania.

g.g.

[1] D’Alessandri, segretario della Fim alla Fiat.

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