Capitolo precedente: 20) Le Br uccidono Casalegno. Piellini giustizieri

1978

Dalle dita a P38 alla P38

Il movimento del 77 è già morto. E per decine di giovani, che mimavano la pistola con le dita, si apre una sola via d’uscita dalla resa e dalla rinuncia, quella delle dita sul grilletto di una pistola vera. Non è un salto poi così difficile da fare, da un paio d’anni la violenza è diventata la forma e la dimensione del loro impegno politico. Resta però una domanda.

Come è possibile che centinaia di giovani, in buona parte figli della borghesia medio-alta o comunque, anche se operai, ben lontani da situazioni di degrado ed emarginazione sociale, con buoni livelli culturali, abbiano deciso di mettersi a sparare alla gente? E continuino a farlo per anni? E’ vero: il terrorismo nella storia è quasi sempre una faccenda di ceto intellettuale, ma in situazioni di assenza di democrazia oppure come espressione di irredentismi o nazionalismi esasperati o anche di fondamentalismi religiosi. Ma in Italia non c’è nulla di tutto questo. La lotta armata in Italia è un fenomeno anomalo per dimensioni, intensità e durata.

Sotto il profilo psicologico indubbiamente c’è una componente di esaltazione collettiva, la pistola in pugno ti fa sentire eccezionale e potente, l’aspetto avventuroso e trasgressivo della vita da combattente è eccitante. Roba da giovani, infatti i soggetti sopra ai 35 anni sono rarissimi. Se poi si aggiunge la motivazione ideologica (e qui si misura tutta la potenza del 68 nel creare un’aspettativa e un’illusione), la miscela diventa ancora più tossica. Perchè, se sei convinto di essere dalla parte del giusto, tutto diventa più facile. Se fai del male, ma per far trionfare il bene, è tutto ok. Un argomento ricorrente è: cosa sono in fondo qualche buco nelle gambe di fronte a tutto il male che il sistema capitalistico produce, alle migliaia o milioni di morti che ha fatto, allo sfruttamento e alla miseria che i proletari patiscono tutti i giorni? Poi il passo dalla gambizzazione a uccidere è piu breve di quanto si pensi.
A dar forza è anche la convinzione che la scelta della lotta armata sia segno di coerenza e coraggio. Lo dicono in tanti: in migliaia per anni abbiamo parlato di rivoluzione poi la maggior parte si sono tirati indietro, si sono scavati la loro nicchia nel formaggio del sistema. Noi no, noi andiamo fino in fondo, anche a rischio di distruggere noi stessi. Un briciolo di presunto eroismo non guasta mai.

Ma possibile che non ci sia un ragionamento politico? Una strategia? Vale a dire una valutazione degli obiettivi raggiunti e raggiungibili? No, non c’è. Per molti esiste l’etica e l’estetica dell’atto in sè e il disegno politico non interessa. E per tutti c’è il totale distacco dalla realtà. Su quella china è inevitabile, anzi indispensabile finire rinchiusi in una vescicola impermeabile di miti e illusioni, nella quale ogni lucidità si spegne. E quando dopo anni qualche barlume di lucidità affiorerà, subentrerà un’altra barriera difficilissima da penetrare: la solidarietà di gruppo, l’incapacità di rompere il meccanismo nel quale sei preso. Il timore, di fronte anche solo a dubbi e distinguo, di essere trattato da traditore. Che diverrà anche paura di essere ammazzato. E ci vuole molto più coraggio che a sparare.

Sebregondi

Le Fcc, staccatesi da Rosso, sono nate da qualche mese, ma per ora hanno messo a segno solo rapine. Di nuovo sono i romani di Sebregondi i primi a compiere il salto verso la china senza ritorno dell’omicidio.
Il 78 comincia con il suo primo morto il 4 gennaio. A Cassino un commando, guidato dal nobile Sebregondi e da Fausto Genonino, blocca l’auto sulla quale viaggiano Carmine De Rosa e Giuseppe Porta, il primo è il capo della sorveglianza alla Fiat e l’altro il suo omologo a Torino. Sono entrambi ex carabinieri, sommando così due colpe agli occhi dei terroristi.
Il primo viene ucciso, il secondo solo ferito, non è chiaro se per scelta o perchè, buttatosi fuori dall’auto, è finito in un fosso. L’agguato non viene rivendicato come Fcc, ma con una delle tante sigle di comodo, “Operai armati per il comunismo”. Non risulta che nel commando ci siano operai.

Acca Larenzia

Tre giorni dopo a Roma viene messa in atto una specie di mattanza, che sorprende molti. Verso le sei del pomeriggio ci sono cinque o sei giovani appostati poco fuori dalla sezione del Msi di Acca Lanrenzia, nel Tuscalano. E’ una delle più turbolente, in zona c’è stato qualche pestaggio, ma niente di che, ordinaria amministrazione nella Roma di quegli anni.

Quando cinque giovani missini escono dal portone, il gruppo che li aspetta apre il fuoco. Uno, Massimo Bigonzetti 20 anni, muore sul colpo. Altri tre riescono a rientrare e chiudere il portone blindato. Il quinto, Francesco Ciavatta solo 18 anni, cerca la fuga, viene inseguito e ucciso con un colpo alla schiena. Qualche mese dopo il padre, che faceva il portiere di uno stabile, si suicida bevendo acido muriatico.

Uno dei givani colpiti davanti la sede del Msi

Nel giro di breve tempo un centinaio di giovani di destra si raduna davanti alla sezione. C’è molta tensione e confusione. Pare che parta un colpo verso i carabinieri che presidiano la zona. Questi caricano e un tenente spara, gli si inceppa l’arma e se ne fa dare un’altra, spara di nuovo e uccide un fascista con un colpo in fronte. Il carabiniere verrà poi assolto, come sempre.

L’agguato viene rivendicato dai “Gruppi armati per il contropotere territoriale”. <Un nucleo armato ha colpito i topi neri… Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d’Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell’accordo a sei>. Chi sono? Non si sa e non si saprà mai. La sigla ricomparirà un paio d’anni dopo, usata dall’area dei Cocori, ma questo significa poco.
Probabilmente è un gruppo del cosiddetto spontaneismo armato. Le formazioni principali di norma non si dedicano ai fascisti. Anzi le Br non hanno gradito affatto. Nel calderone dell’autonomia e dei collettivi di quartiere girano molte armi e l’odio per i fasci ribolle nelle vene di migliaia di giovani. E può anche essere che qualcuno abbia pensato di compiere un’azione che possa servire da biglietto da visita per i gruppi maggiori.

Resta un particolare strano. E’ stata usata una mitraglietta Skorpion, un arma abbastanza costosa, non tipica della truppa di periferia. Che tra l’altro ha anche una strana storia: questa Skorpion finirà alle Br che la useranno per alcuni omicidi negli anni 80. Quindi potrebbe essere che qualcuno delle Br l’abbia prestata al gruppo che ha sparato ad Acca Larenzia oppure che qualcuno degli assalitori sia poi entrato nelle Br. Prima era stata proprietà del cantante Jimmi Fontana, appassionato di armi, poi fu acquistata da un poliziotto e qui se ne perdono le tracce per poi ritrovarla davanti ad Acca Larenzia. Come sia passata da un poliziotto a un “guerriero” rosso non è dato sapere.

Sulla base delle rivelazioni di una giovane del movimento, vengono arrestati quattro ex di Lotta Continua, uno di loro si impicca in carcere. Ma al processo verranno assolti per insufficienza di prove.
Quel che è certo è che Acca Larenzia porta a un’impennata della spirale di sangue nella guerra di strada tra rossi e neri.

E segna anche la nascita dei Nar, davanti alla sezione del Msi quella sera c’è anche la Mambro. I Nar non sono una vera e propria organizzazione, ma una sigla utilizzata da diversi gruppi, più o meno coordinati tra loro. Il capo diverrà presto Giusva Fioravanti.
Nel panorama dell’estrema destra segnano una svolta. Sono il corrispettivo di destra dello spontaneismo armato di sinistra. Non sono dei nostalgici, non hanno legami con gli apparati dello stato, anzi sparano anche loro su polizia e carabinieri. In realtà tutto ciò non è vero del tutto, Fioravanti diverrà un uomo di Signorelli capo di Ordine nuovo e sodale di carabinieri e piduisti, ma qui non possiamo occuparci di loro.

Macelleria brigatista

Non c’è neanche il tempo di interrogarsi su Acca Larenzia che si torna alla “normalità” brigatista. Il 10 gennaio i soliti Piancone, Acella, un tipo che nessuno conosce fuori delle Br, nel senso che non ha mai fatto attività politica, e Andrea, una delle due reclute che Peci portò ad un altro agguato, un ex dipendente della Regione, aspettano sotto casa Gustavo Ghirotto, un altro dirigente Fiat. A sparare è proprio Andrea, è il suo battesimo del fuoco. Cinque colpi nelle gambe a segno.

Nella telefonata di rivendicazione fanno il nome di Giancarlo Ghirotto della Fiat Rivalta, ma il ferito lavora a Mirafiori. Hanno sbagliato persona, non è la prima volta, volevano sparare al gemello. Nel volantino ammettono l’errore, ma dicono che non importa, uno vale l’altro.

Filippo Peschiera

E’ vero, le azioni delle Br (ma non solo le loro) sono sempre più staccate da qualunque obiettivo politico o rivendicazione. Sparare è una routine, ogni tot giorni si deve colpire qualcuno. Come dirà Peci: <sparare alla gente era diventato un mestiere>.
E infatti tre giorni dopo a Roma la macelleria brigatista continua. Questa volta tocca a un dirigente della Sip, lo aspettano nell’androne di casa. Una scelta strana perchè la vittima è solo l’addetto alle pubbliche relazioni a un passo dalla pensione, non proprio un capo. Chissà come è stato scelto.
E continua dopo altri cinque giorni, il 18 gennaio, a Genova. Questa volta le modalità sono diverse, non è il solito agguato sotto casa o nel garage. Si torna un po’ all’antico.

L’obiettivo è Filippo Peschiera , docente di diritto del lavoro, ma anche un uomo di De Mita. Sta facendo lezione in una scuola di formazione, quando entrano quattro brigatisti. Per l’occasione è tornato a Genova Micaletto, c’è anche Baistrocchi. Gli studenti vengono rinchiusi nella toilette. Al professore viene messo un cartello al collo con la stella delle Br e viene fotografato con le mani alzate. Con sorpresa dei brigatisti, Peschiera li apostrofa, li interroga, cerca di avviare una discussione. Ha coraggio il prof: «So che mi dovete sparare: fatelo. Sappiate però che siete senza speranza».
Micaletto risponde e per questo verrà rimproverato, perchè Peschiera imprime il suo volto nella memoria e lo riconosce nelle foto segnaletiche. I quattro fanno per andarsene, poi uno si gira e spara 5 colpi alle gambe.

Le Fcc al debutto di sangue… fallito

Lo stesso giorno anche le Fcc del nord hanno deciso che è giunta l’ora del battesimo del fuoco. E sarà un’entrata in scena clamorosa. Saranno uccisi due carabinieri. L’obiettivo politico sono le carceri. Soprattutto quelle di massima sicurezza, istituite nel luglio dell’anno prima. Carceri con un regime più duro e dalle quali evadere è molto più difficile. Un colpo per la otta armata, perchè finire in carcere ora fa piu paura e quelli che ci sono vedono svanire la speranza di evadere.

La decisione è di rispondere attaccando una delle pattuglie che sorvegliano il carcere di Novara dall’esterno. Novara, perchè Serafini, il giovane pistolero che aveva messo in piedi il nucleo militare di Rosso, che vi è detenuto, racconta di un situazione molto dura.

Vanno in quattro, Alunni il capo, Colombo e due ragazze. Una è Maria Teresa Zoni, la maestrina molto cattolica, che nella borsa, assieme alla pistola, ha un libretto di meditazioni intitolato “Voglio soltanto che sia amore“. L’altra è Francesca Bellerè, comasca 24 anni, figlia di un funzionario dell’Intendenza di finanza. Una che non si tira mai indietro, dicono di lei. A vederle si direbbero del tutto innocue, piccole, minute, graziose, sembrano due adolescenti. Ma sarebbe un errore pensarlo. Per questa azione si sono allenati a sparare in una vecchia miniera.

Francesca Bellerè

Alunni e la Zoni si dirigono a passo svelto verso la camionetta dei carabinieri. Gli altri due, mitra in pugno fanno da copertura. E’ una mattina molto fredda, i due militari sono seduti dentro per ripararsi dal gelo, praticamente in trappola.
Maria Teresa Zoni: <Credevamo fortemente alla nostra guerra e alle sue profonde ragioni. Il resto era solo conseguenza. Naturale, radicale, logica conseguenza. Ipocrita ci sembrava tutto il resto: chi non aveva avuto il coraggio di stare al nostro fianco, o peggio ancora chi la guerra l’aveva predicata e poi non aveva avuto il coraggio di farla, lasciandoci soli a combattere sulla linea del fuoco. Pazienza. Noi c’eravamo, ed eravamo tanti, nonostante tutto>.

Arrivati vicini all’auto estraggono da sotto il cappotto i fucili a canne mozze e scaricano sui finestrini otto pallettoni calibro 12. I vetri si frantumano. Un’azione da commando, qualcuno che passa pensa sia un film, ma non ci sono cineprese.
Poi i quattro se ne vanno e si nascondono in un casolare abbandonato per la notte. Il giorno dopo rientrano a Milano, dopo aver seppellito i fucili scavando nella neve. <Dopo quella notte – dirà Maria Teresa Zoni – nessuno fu più libero da se stesso. Saremmo arrivati fino in fondo>.

Intanto l’agguato è stato rivendicato con un volantino: “Un nucleo delle Fcc ha attaccato, annientandola, una ronda dei CC“. Così la nuova sigla è comparsa per la prima volta. Ma è stato un fiasco, i due carabinieri sono solo lievemente feriti, colpiti da qualche scheggia. La camionetta aveva i vetri antiproiettile, che si sono solo crepati.

Un fallimento, anche perchè il giorno dopo i giornali danno poco risalto all’agguato. La cosa manda in bestia quelli delle Fcc. Nella loro lettura tutta distorta della realtà, pensano che sia una manovra dei “pennivendoli” per oscurare la loro impresa. Così decidono di sequestrare un giornalista del Corriere. La scelta cade su uno dei più noti a Milano, Walter Tobagi. Marocco e altri due si appostano sotto casa con un furgone, ma l’arrivo di una volante li fa desistere.

Ma qualcosa bisogna fare. Così il 3 febbraio in tre fanno irruzione nei locali di Radio Radicale e costringono i presenti, sotto la minaccia delle armi, a mettere in onda una rivendicazione registrata dell’agguato di Novara.
A guidare i tre è ancora una ragazza, una studentessa di 23 anni, Maria Rosa Belloli, in Rosso fin dal primo minuto poi passata alle Fcc. Con lei c’è Pierangelo Franzetti un giovane operaio della Ire, nel varesotto.

Nei giorni successivi le Fcc continuano con l’ordinaria amministrazione. Un ordigno contro una stazione dei carabinieri, una rapina, una bomba al comando dei Vigili e infine il’incendio del deposito della Bassani Ticino, dopo esservi entrati con una scala. Una dozzina gli autori guidati da Alunni, Barbone, Bellerè, Brusa, Zanetti.
A Bologna il gruppo di Bignami piazza una bomba davanti alla casa dell’industriale Menarini, un bel po’ di danni, ma tutti illesi.

Assalto al carcere con morto

Anche Prima linea sta studiando l’attacco a un carcere. Ma con un obiettivo più concreto: liberare due compagni. Sono Iemulo e un altro, il primo era uno dei capi a Torino. Sono stati arrestati qualche mese prima, dopo una rapina in banca. Li hanno fermati per caso mentre si allontanavano in auto, fregati dalla giacca e cravatta che indossavano, non ne avevano l’aria.

Ora sono alle Murate di Firenze. Il piano è stato studiato a lungo. Scendono a Firenze i torinesi Biancorosso e Maggi e tre milanesi, militarmente più esperti: Coda, Giap e Crippa, da Napoli arriva la Ronconi. Sono tutti molto giovani, la più vecchia è lei, che ha 26 anni. Biancorosso ne ha 19. L’idea è di farli evadere attraverso l’alloggio di servizio del capo degli agenti di custodia, che confina col cortile del carcere.

A mezzogiorno del 20 gennaio la Ronconi suona il campanello, con una scusa riesce a farsi aprire dalla moglie del maresciallo. Aperta la porta, tira fuori la pistola e dietro di lei entrano altri due. I tre si mettono a segare le sbarre di una finestra. Da alcune ore i due dentro hanno già segato quelle della loro cella. E’ quasi fatta, quando dalla strada arrivano raffiche di colpi.

La volante attaccata e Fausto Dionisi, l’agente ucciso

Per portare via i detenuti il commando aveva rubato un furgone, che è parcheggiato fuori. Ma incredibilmente passa di lì proprio il proprietario che, quando vede il suo furgone, chiama la polizia. Arriva una volante, si ferma, ma gli agenti non fanno in tempo a scendere. Una tempesta di fuoco investe l’auto. A sparare sono in due, ma è il mitra di Coda a falciare gli agenti. Fausto Dionisi è ucciso sul colpo, un altro gravemente ferito. Coda è quello che perse la patente durante un attentato, ma la polizia pensò bene che non valeva la pena cercarlo. I tre dentro escono, arriva un’altra volante, viene lanciata una bomba a mano, che però non esplode. Ma i sei ormai sono sulle auto e in fuga. Evasione fallita.

In maggio viene arrestato Sergio D’Elia, il capo di PL a Firenze. Lui non c’era, ma la polizia è certa che sia tra gli organizzatori. Verrà condannato a 30 anni, ne farà 13 e nel 2006 diverrà deputato nelle file dei Radicali.
Poco prima erano stati arrestati anche Maggi e Guido Manina, 20 anni, uno della Val di Susa, vero serbatoio di piellini. Ma dopo qualche mese sono già liberi

Colpiscine cento ed educane nessuno

Il sanguinoso rito brigatista continua implacabile, anche se finora le tante gambizzazioni non hanno prodotto assolutamente nulla sul piano politico. Il 24 gennaio a Milano viene ferito un altro dirigente della Sit Siemens. Lo aspettano il soliti Diana e Savino, di nuovo Cristofoli e Nicola, un operaio della Siemens. Lui capisce e si mette a correre, lo inseguono in due e sparano dieci colpi. Uno recide la femorale. Riesce a salvare la pelle per miracolo.

Quelli di PL continuano a fare i giustizieri

Una settimana dopo, sempre a Milano, entrano in azione le Sao, le squadre di Prima linea, che si muovono in modo autonomo, basta informare la casa madre. Questa squadra è formata da un gruppo di sparatori della prima ora, sono ex del collettivo Romana: Ferrandi (Coniglio), Memeo (Terrone), Mirra, Pasini Gatti (Pablo). Con loro ci sono un impiegato e un operaio di una piccola azienda dell’hinterland, Tagliaferri e Baldasseroni, già molto attivi in Rosso..
L’idea l’ha avuta Mirra, detto mascellone. Si è ricordato del padrone di una tipografia che un paio d’anni prima, durante uno sciopero, aveva sparato in faccia ad un suo operaio, ferendolo gravemente. E poco dopo era tornato a dirigere la sua zienda, libero. Decidono di punirlo.

Una sera vanno ad aspettarlo fuori dalla tipografia. Baldasseroni resta in auto, Ferrandi, col fucile che si è fatto dare da PL, deve coprire gli altri due. Passa il tempo, sono già usciti tutti gli operai, ma Armando Girotto non esce. Allora i due entrano e lo trovano seduto alla scrivania. Puntano le armi, Tagliaferri ha uno Schmeisser, un vecchio mitra della Wermacht. Gli annunciano la sentenza che eseguiranno, ma dal mitra parte una raffica per sbaglio. E’ un’arma così potente che trancia a mezzo la scrivania e ferisce gravemente l’uomo. I due se ne vanno. Dovevano solo ferirlo alle gambe, a momenti lo ammazzano.

Negli stessi giorni Barbieri, con altri due, va a sparare al capo dell’Ufficio di collocamento di Cinisello. A sparare dal finestrino dell’auto è Domenichini, uno dei reclutatori di giovani guerriglieri, ma l’arma si inceppa e l’uomo si salva.

Ruba nei negozi

Tra gennaio e febbraio a Milano vengono presi di mira i negozi di vestiti. Serve anche come apprendistato per le nuove reclute. Dopo un esproprio di massa, guidato da Coniglio e Terrone, intervengono due incauti vigili, che vengono picchiati e disarmati. La polizia sopraggiunta riesce a bloccarne cinque.

… e nelle case

Se l’esproprio è un atto rivoluzionario, perchè non farlo in maniera più mirata e redditizia. Pablo, che uscito da Rosso, bazzica nelle squadre di PL, conosce una famiglia che è un buon obiettivo.
Spiega il suo piano a Doberman che, con altri due, aspetta che la donna, che sanno sola in casa, esca. La bloccano sulle scale, la spingono dentro. Nel frattempo arrivano figlio e fidanzata, che vengono presi e legati a due sedie. Poi se ne vanno con soldi, gioielli e pellicce.

Troppo facile uccidere, anche se non vuoi

Elfino Mortati

Il problema è che girano tante armi, ormai chiunque riesce a procurarsi una pistola. E tanti ragazzetti vogliono emulare quelli del partito armato, vogliono mettersi in luce.

A Prato c’è un gruppetto di autonomi capeggiato da Elfino Mortati. Uno che ha appena 18 anni, ma ha già partecipato a diverse azioni di guerriglia armata: irruzioni, espropri, attentati. Il 10 febbraio, assieme ad un altro, entra nello studio di un notaio. Pare che vogliano bruciare le cambiali della povera gente, così dirà. Uno raduna gli impiegati in una stanza, l’altro entra nell’ufficio del notaio che è insieme alla segretaria. Passamontagna e pistola, gli intima di non muoversi, quello reagisce, afferra il giovane che è magrolino, lo strattona e lo butta fuori dalla stanza: <Non rompermi i coglioni>, grida. Quello perde la testa, spara e l’uccide. Poi scappano. Lasciano nella toilette di un bar una borsa con le armi e i passamontagna, attraverso la quale la polizia risale ad Elfino. Che scappa e si nasconde a Roma, gli danno ospitalità le Br. In luglio lo arrestano.

Biglietti del bus al popolo

A Torino invece l’obiettivo della rapina è politico: l’aumento dei prezzi dei biglietti Atm. Il 24 febbraio In quindici di PL fanno irruzione nella tipografia che li stampa. Radunano i dipendenti in sala mensa. Laronga abbozza un breve comizio poi se ne vanno con 24mila biglietti. Che nei giorni successivi vengono distribuiti nelle buche della posta dei quartieri popolari.

Unificazione tra PL e Fcc
All’inizio del 78 Prima linea e le Fcc tentato di invertire la tendenza dominante nel mondo della lotta armata, quella della scissione. Decidono infatti di unirsi. Dopo una serie di incontri viene nominato un comando unificato. Ne fanno parte Alunni, Barbone, Barbara Azzaroni, Sebregondi per le Fcc e Solimano, Segio, Donat Cattin, D’Elia, Ronconi per PL. Si tratta in realtà solo di un primo passo, nulla di più di un coordinamento tra le due organizzazioni, che continuano ad agire autonomamente.

Ad una delle riunioni del comando a Firenze, Alunni e Barbone arrivano con una valigetta piena di banconote, 22 milioni frutto di una rapina fatta a Cremona. Donat Cattin chiede che siano versati nella cassa comune, ma i due non sono molto d’accordo. Ognuno ancora si tiene la sua cassa.

La risoluzione strategica delle Br

In febbraio le Br diffondono la loro nuova risoluzione strategica. Una ventina di pagine in larga parte dedicate ad un’analisi, con qualche pretesa, della nuova fase del capitaliamo e cioè lo Stato imperialista delle multinazionali. Il Sim è un’acuta intuizione della nascente globalizzazione, di cui però non si coglie la vera sostanza, riducendosi così ad una rielaborazione rozza e meccanicista delle categorie marxiane, che porta a conclusioni fantasiose, come un’imminente terza guerra mondiale e lo stato di putrefazione del capitalismo.

Questa prospettiva, secondo le Br, porta necessariamente al rafforzamento dell’ esecutivo, filiale nazionale dello Sim. E di conseguenza alla statalizzazione della società. Da questo deriva, si ribadisce, la scelta inevitabile di passare dalla propaganda armata e dalla lotta di fabbrica all’attacco al cuore dello Stato. Cuore che è incarnato dalla Dc “Forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato, in Italia“.

La risoluzione continua con l’analisi della crisi economica. Non una normale crisi ciclica, ma una crisi strutturale che sta portando ad una “progressiva militarizzazione del rapporto stato-società, il cui fine è l’annientamento di qualunque antagonismo sociale e cioè nuclei speciali, tribunali speciali, carceri speciali…. Già oggi grazie alla mediazione dei revisionisti, la militarizzazione si estende dalla fabbrica al quartiere, ai rapporti interpersonali, alle famiglie, in una catena di rapporti sociali gerarchizzati e violenti, dominati dalle leggi di una società repressiva che l’imperialismo vorrebbe sempre più simile ad un lager di milioni di produttori“.

Franceschini e Curcio

E dunque: “sempre più. l’unica possibilità di praticare il terreno politico dello scontro si dà con il fucile in mano, la guerra civile rivoluzionaria“. La risoluzione è in buona parte opera di Curcio e Franceschini. Anche perchè, come dirà Buonavita: <Dopo il 77 il livello di direzione politica delle Br scadde molto. Prevalsero elementi solo con capacità organizzative e militari>.

Di nuovo al centro della elaborazione brigatista c’è la necessità di dipingere una realtà inesistente, frutto di una visione totalmente distorta. In Italia c’è di tutto in quegli anni, tranne la militarizzazione dello Stato e di tutta la società, ridotta a qualcosa di simile a un lager. E’ un refrain brigatista, in realtà patrimonio di tutte le formazioni armate e dell’autonomia, che serve a giustificare e convincere che non c’è altra via al di fuori delle armi. In Italia non ci sono tribunali speciali; i nuclei speciali, che poi di speciale non avevano quasi nulla, sono stati sciolti già da tre anni; di carceri speciali ne sono stati istituiti cinque, ma non sono lager, anche se indubbiamente il regime è più duro. Di leggi cosiddette speciali c’è solo la, totalmente inefficace, legge Reale del 75, mirata non tanto a combattere il terrorismo quanto la violenza di piazza.

Il dato vero di questi anni è la sostanziale tolleranza dello Stato (che non esclude episodi di violenza poliziesca). Ma questo nè brigatisti nè autonomi di vario genere possono vedere, perchè disvelerebbe il loro essere funzionali alla strategia di settori dello Stato e di poteri occulti, e dunque la loro fine.
La conclusione del documento è la riproposizione dell’attacco al cuore dello Stato, un attacco distruttivo con due obiettivi principali: la Democrazia cristiana e gli apparati repressivi (forze dell’ordine, magistratura, carceri). Anzi tre, perchè ormai organico al Sim è anche il Pci, nei confronti del quale (e questa è una piccola novità per le Br) è lecito l’uso della violenza armata.

La novità vera sta nel fatto che ora alle parole seguiranno i fatti. Inizia la stagione omicidiaria, come usano dire loro. Non che prima non evessero ucciso, ne sanno qualcosa Coco, Croce, Casalegno, ma d’ora per le Br, e per tutti gli altri, la morte diverrà più leggera dei proiettili che servono per darla.

L’omicidio Palma

Raimondo Etro è uno studente di 20 anni, figlio di un avvocato del Pci. E’ entrato nelle Br da circa un anno, al seguito di Casimirri, con cui militava nei Volsci. Il 14 febbraio, per la prima volta, deve sparare. Solo che non è uno dei soliti ferimenti, non deve mirare alle gambe, deve uccidere.
Anche le Br hanno dato il via alla campagna carceri e puntano subito in alto. La vittima scelta è un magistrato, Riccardo Palma, che lavora al ministero e si occupa di edlizia carceraria. La scelta denota un livello alto di informazioni, visto che pochi lo conoscono e pochi sanno quel che fa. L’informazione è buona, perchè viene da una talpa che lavora al ministero.

Lo aspettano sotto casa. Con Etro c’è Gallinari, poco distante Loiacono, che deve fornire copertura. Pronto a partire con l’auto Casimirri.
Palma esce di casa. Etro e Gallinari gli vanno incontro. Il primo punta la pistola, ma non spara, gli trema la mano, quarda in faccia l’uomo e non ce la fa. Palma si gira e fa per scappare. Gallinari sposta Etro e con una raffica di mitra alla schiena ferma il magistrato. 17 colpi non lasciano scampo, morto sul colpo.
Dopo Casalegno le Br uccidono di nuovo. E da questo momento gli omicidi prenderanno sempre di più il posto delle gambizzazioni. Il 10 marzo infatti uccideranno di nuovo.

La vendetta dei Nar

Prima però arriva la vendetta dei Nar per Acca Larenzia. Gira voce che quelli che hanno sparato venissero da un centro sociale poco distante. Il 28 febbraio in tre o quattro aspettano che qualche rosso esca. Appena ne compare qualcuno sparano, quelli scappano, tranne uno che ferito cade tra due auto. Un giovane con un grande cappello lo raggiunge, è Fioravanti. Gli sale a cavalcioni e gli spara due colpi in testa. Muore così Roberto Scialabba, 24 anni.

Il processo alle Br riparte

Sono due anni che il processo alla Br a Torino è iniziato, ma non ha mai fatto un passo avanti. E’ già stato rinviato due volte. L’ultima un anno prima, dopo l’omicidio dell’avvocato Croce. Non si trovano cittadini disposti a fare i giurati e neppure avvocati che accettino l’incarico d’ufficio.
Il Pci si sta impegnando al massimo per convincere i propri iscritti, nel caso vengano sorteggiati cone giurati, ad accettare. Se ne occupa, segretamente Giuliano Ferrara. Per ora ha accettato un ferroviere: <l’ho fatto per scelta politica>.

Casualmente viene sorteggiata Adelaide Aglietta, segretaria del partito radicale, che dopo 134 defezioni, non rifiuta. Questa nomina e l’azione del Pci porta altre persone ad accettare. Sul fronte degli avvocati è il nuovo presidente dell’Ordine, Vittorio Chiusano, avvocato della Fiat, ad accettare l’incarico, dopo che in 210 l’avevano rifiutato. Il 9 marzo finalmente il processo ricomincia, molti giurati girano armati, oltre alla polizia, anche il Pci fornisce una protezione. In aula due persone su tre del pubblico sono agenti in borghese.

La risposta è l’esecuzione di un poliziotto

La risposta delle Br arriva nel giro di 24 ore. Rosario Berardi è un poliziotto di 50anni. A Torino nel 74 fece parte dei Nuclei antiterrorismo di Santillo e contribui all’arresto di alcuni brigatisti del nucleo storico. La sua foto, assieme agli arrestati, comparve anche sui giornali. Ora i Nuclei sono stati sciolti, come già quelli di Dalla Chiesa, forse avevano fatto troppi arresti. Berardi è finito a dirigere un commissariato di quartiere e non si occupa più di terrorismo.

I funerali di Rosario Berardi

All’inizio del 78, Andrea Coi, il sardo che fa l’intellettuale, ma in realtà fa il segnalatore di potenziali vittime, casualmente scopre dove abita. E propone di ucciderlo. E’ un obiettivo perfetto per dare il via alla campagna di primavera di attacco al cuore dello Stato.
Lo pedinano per qualche settimana. E ad alcuni sorge il dubbio che Berardi sia ormai uno sbirro innocuo, che si occupa di routine, non un gran obiettivo. Ma è soprattutto Nadia Ponti, l’ex infermiera, ad insistere: è un pezzo grosso, l’hanno decentrato perchè possa dar la caccia ai brigatisti senza dare nell’occhio. I dubbiosi si convincono: ammazziamolo.
C’è però qualche timore, non è un inerme dirigente d’azienda, hanno notato che si muove con circospezione e tiene sempre le mani in tasca, dove avrà certamente una pistola. Insomma questa volta c’è qualche rischio, per cui si organizza un commando di gente esperta: Piancone, Acella e Peci, più la Ponti e si decide che, contrariamente al solito, a sparare saranno in due.

Già due volte sono andati per ucciderlo, ma hanno dovuto rinunciare, perchè non si è fatto vedere. Ma non demordono. Il 10 marzo, il giorno dopo che il processo alle Br è ricominciato, finalmente esce di casa a piedi. La Ponti fa da vedetta e corre ad avvertire gli altri. Berardi va a piedi a prendere il bus, vicino a casa, la fermata è affollata. Piancone e Acella si confondono con la gente che aspetta. Sono le 7,45 la gente va al lavoro. Peci, col mitra, ha sempre un’arma lunga chi sta di copertura, si apposta vicino a un benzinaio. Berardi arriva fumando la pipa, si ferma, non ha neanche il tempo di guardarsi attorno che i due gli sparano tre colpi nella schiena. Il poliziotto cade e gli sparano altri 4 colpi in faccia.
La gente urla e scappa presa dal panico. I due, con grande calma, perquisiscono il cadavere, cercano la pistola, ma non c’è. Prendono il borsello e se ne vanno. Dentro c’è la pistola, ma non ha neanche il colpo in canna. L’avevano immaginato e dipinto come un Rambo, ma non lo era.

Per Torino è un duro colpo, soprattutto per il processo alle Br appena ripartito. Nella rivendicazione si afferma che “bisogna rispondere alla guerra con la guerra“, ma a quale guerra si deve rispondere? Ai funerali un mare di gente, non se ne era mai vista tanta, ci sono gli striscioni di decine di consigli di fabbrica. E’ un segnale.
I brigatisti tentano di leggere in aula la rivendicazione dell’omicidio. Ma questa volta il processo non si ferma. Le udienze vengono spostate all’interno dell’ex caserma Lamormora. Le misure di sicurezza sono da stato di guerra. Filo spinato, blindati, uomini armati sui tetti e tutto intorno all’edificio.

Il giorno dopo vengono diffusi quattro nomi di possibili autori dell’agguato: Alunni, Ronconi, Azzolini e Gallinari. Sono nomi a casaccio. Alunni e la Ronconi sono usciti dalle Br da 4 anni e polizia e carabinieri pare che ne siano all’oscuro. E dire che non si tratta di una informazione impossibile, tra gli autonomi e gli ex di Lotta continua sono in tanti a saperlo, ma evidentemente la polizia non ha più nemmeno un informatore in quell’ambiente o se ce l’ha non lo usa. Azzolini è il capo della colonna milanese da 4 anni e Gallinari da due anni è a Roma. E’ la dimostrazione che, delle Br, polizia, carabinieri e servizi non sanno nulla. Dopo lo scioglimento del nucleo di Dalla Chiesa, le indagini sono praticamente state ridotte a zero.

E questo è un guaio, perchè a Roma è ormai tutto pronto per sequestrare l’on. Moro.

g.g.

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