Capitolo precedente: 22) Il sequestro Moro

L’eccidio

Le auto si avviano, la 130 con davanti Leonardi e l’autista, il carabiniere Ricci, e Moro seduto dietro, che sfoglia il giornale, seguita dall’Alfetta con tre poliziotti. Leonardi è teso, prima di partire da casa è risalito a prendere un altro caricatore. E’ teso per i segnali che ha raccolto, perchè non ha un’auto blindata, perchè sa che la scorta non è preparata.

E lo sanno anche loro, un giorno hanno detto alla signora Moro: <
Noi stiamo qui a fare da tiroasegno>. Sono bravi ragazzi, ma in Italia non ci sono addestramenti speciali per le scorte. Lo dimostra il fatto che nessuno ha giubbotti antiproiettile, anche se portarli per tante ore è dura. Hanno le pistole nelle fondine e non in mano. Leonardi addirittura nel borsello che tiene sotto il sedile. Non hanno una staffetta che preceda le auto di qualche minuto per controllare il percorso. E poi fanno quasi sempre la stessa strada, via Fani. I brigatisti lo sanno e sono lì già da mezz’ora ad aspettarli.

Quando le auto girano l’angolo di via Tronfale, la compagna Marzia solleva il mazzo di fiori e attraversa la strada. Moretti la vede, ha pochi secondi per muoversi, ma è freddo e rapido e si immette in carreggiata, nello specchietto vede la 130 di Moro dietro di sè e dietro ancora l’Alfetta. Quando le tre auto sorpassano la 128 di Casimirri e Lojacono ferma sulla destra, questi partono, pronti a mettere l’auto di traverso per bloccare la strada e lasciare che Moro e la scorta si infilino da soli nel mattatoio che li attende.

In alto le fioriere dietro alle quali erano in attesa i quattro brigatisti armati di mitra

A loro volta i quattro dietro la siepe del bar, quando vedono la 128 di Moretti partire, estraggono i mitra dalle borse. Fiore ha l’unica arma moderna, un Beretta M12, quello in dotazione a polizia e carabinieri. Gli altri hanno dei residuati bellici. Morucci e Bonisoli due FNA43, il mitra usato dai repubblichini, Gallinari un TZ45, ironia della sorte, anche questa un’arma dei fascisti. Non è che non abbiano di meglio, le hanno scelte perchè sono senza calcio e quindi più facili da nascondere e maneggiare e sono potenti, dovendo sparare a delle auto è meglio.

Ormai mancano una ventina di metri all’incrocio con via Stresa e allo stop, Moretti rallenta. Ma che fa, si sarà chiesto Ricci, perchè va così piano? Le tre auto sono vicine e la 128 targata CD va ormai a passo d’uomo. Intanto Lojacono e Casimirri hanno messo l’auto di traverso e, bloccata la strada, scendono armi in pugno e fanno tornare indietro due passanti. Sono le 9,02, da dietro le fioriere saltano fuori i quattro finti piloti, imbracciano i mitra. Pochi passi e sono sul marciapiede e poi in strada. Un paio di metri dalle tre auto, che sopraggiungono lente.

Morucci e Fiore di fianco alla 130 di Moro, Gallinari e Bonisoli all’Alfetta. Aprono il fuoco sulle due auto ancora in movimento. Morucci spara a colpo singolo, per evitare di colpire Moro. Sette colpi che frantumano i vetri e vanno a segno sui corpi dell’autista e di Leonardi, che si è girato indietro per proteggere Moro, gridandogli di abbassarsi. I suoi proiettili, calibro 9, perforano la carrozzeria, colpiscono Ricci, ne trapassano il corpo e penetrano in quello di Leonardi. Altri si sono conficcati nei palazzi dall’altro lato. E’ un’arma potente.

Anche Fiore spara, ma il suo M12 si inceppa subito, un paio di proiettili sono partiti, ma non centrano nessuno. Ricci colpito perde il controllo e la 130 tampona l’auto di Moretti, che si è fermata mezzo metro oltre lo stop.

Contemporaneamente Gallinari e Bonisoli sparano un paio di raffiche contro l’Alfetta. Non è difficile colpire un’auto a due metri. Zizzi, il capo auto, e l’autista che si è ranicchiato sul sedile, come se fosse sufficiente per salvarsi, sono uccisi sul colpo e l’auto va a tamponare a sua volta la 130 di Moro.

Ricci, con gli ultimi secondi di vita che gli restano, tenta disperatamente di uscire da quella tenaglia mortale, dà gas, ma Moretti, che secondo il piano doveva scendere con il suo Mab38, ha capito, resta in auto e tiene premuto il freno per non farsi spostare. Ricci innesta la retromarcia, ma dietro c’è l’Alfetta. E poi c’è un’auto parcheggiata proprio lì che comunque gli impedirebbe di passare sulla destra [2]. Morucci fa per sparargli ancora, ma anche il suo mitra si inceppa, si allontana di qualche passo per cambiare il caricatore, torna e spara un’altra raffica sui due carabinieri, ma non ce n’era bisogno, sono già immobili. Fiore continua ad armeggiare col suo, ma si inceppa di nuovo. Lui, con l’aria così cattiva e decisa, resta lì bloccato e non ha la prontezza di estrarre la pistola.

Sono armi davvero vecchie, anche il TZ45 di Gallinari non spara più. La guardia Iozzino, che era seduto dal lato destro, forse è già ferita, ma riesce a buttarsi giù dall’Alfetta e ad impugnare la pistola. Spara due colpi, ma praticamente in aria. Bonisoli e Gallinari, che ha prontamente impugnato la sua Smith&Wesson, si portano dietro l’auto e lo crivellano di colpi. Incredibile, anche l’Fna di Bonisoli si inceppa, ma anche lui non si ferma, ha già in mano la sua Beretta 51. I due girano sul lato destro delle auto e sparano ancora, attraverso i vetri frantumati nell’Alfetta. Gallinari raggiunge la 130, dove è seduto Moro, e spara ancora due colpi. Vogliono essere sicuri di avere ucciso tutti.

<Venga con noi>

Due minuti di fuoco infernale. Sono stati sparati 93 colpi. Ora è il silenzio. Si sente solo la voce di Moretti che, sceso dall’auto, impartisce ordini.

Quando è iniziata la sparatoria la Balzerani si è portata al centro dell’incrocio e con paletta e mitra ha bloccato il traffico. Appena i colpi cessano, Seghetti svolta a marcia indietro in via Fani e si affianca alle tre auto. Fiore, l’ex scaricatore del mercato di Bari, apre la portiera della 130, l’abitacolo è pieno di vetri e di sangue. Moro è impietrito, ma illeso. Lui lo prende per un braccio: <Venga con noi>. Lo fa salire sulla 132, si siede di fianco a lui e lo copre con un plaid. Forse viene sedato con un tampone. Moretti sale davanti. E l’auto parte con il presidente della Dc [3]. Uno dei politici più importanti d’Italia è in mano ai brigatisti.

In primo piano l’appuntato Ricci, a fianco il maresciallo Leonardi

La 128 bianca, che ha caricato Gallinari si accoda. Morucci ha il compito di prelevare le borse di Moro, ma si è bloccato in mezzo alla strada, sembra sotto choc. Gallinari passando gli urla di sbrigarsi, lui si riprende, afferra due borse sul sedile della 130 e, assieme a Bonisoli, raggiunge la 128 blu, dove è già seduta la Balzerani. Sale al posto di guida e anche loro partono.

Le borse

Queste borse sono l’ennesimo mistero che costella la vicenda Moro. Un grande mistero. Perchè Morucci dice di averle prese, la Braghetti conferma che arrivarono con Moro. I brigatisti, assieme al corpo dello statista restituiranno il misuratore di pressione, le chiavi, gli occhiali e un orologio che erano dentro le due borse. La moglie, arrivata in via Fani tra i primi, dice che sul sedile posteriore c’erano due quadrati senza schegge di vetro e sangue, corrispondenti alle due borse, che dunque erano state prese. Ma un verbale della scientifica delle 10 dice che le due borse erano ancora lì e c’è una foto scattata dopo le 10 dove si vedono le borse sul sedile. E allora? Qualcuno ha preso le borse poi le ha rimesse lì e poi ha spedito alle Br il loro contenuto? Oppure potrebbero essere due delle tre borse che erano nel bagagliaio? Si posso fare le ipotesi più fantasiose, ma il mistero resta. Come resta il mistero sui documenti riservati contenuti in una delle due borse, dei quali non si saprà mai più nulla.

Il silenzio, i morti

Il colpo al cuore dello Stato, l’azione terroristica più grave della storia d’Italia, che così nessuno neanche se l’immaginava, è durata 5 minuti. Tutto è andato secondo i piani. Una vittoria militare spettacolare e impressionante.

Ora è calato un silenzio surreale. Sulla scena dove si sono giocati una parte dei destini della prima Repubblica, rimangono le tre auto una attaccata alle altre, per terra un tappeto di vetri e di bossoli, un cappello, una borsa, un caricatore, un paio di baffi finti. L’agente Iozzino, con 17 proiettili in corpo, è sull’asfalto, con le braccia spalancate verso il cielo, come in croce. Seduti nelle auto gli altri quattro della scorta, due rannicchiati in un’istintiva e disperata ricerca di protezione, Leonardi girato verso il sedile vuoto, colpito da nove proiettili. Ricci è stato trapassato da sette colpi. Rivera, l’autista dell’Alfetta, ucciso da otto proiettili e Zizzi solo da tre, respira ancora, verrà portato all’ospedale, ma vi arriva morto. I colpi andati a segno sono 44, meno della metà di quelli sparati, non dei tiratori eccezionali.

L’agente Iozzino

Due residenti, il giornalaio e un passante, che qualcosa hanno visto, guardano da lontano, non si azzardano ad avvicinarsi a quel massacro. Poi arriva la prima volante. Un uomo copre con un giornale il corpo di Iozzino, ma una leggera brezza lo fa volare via.

Dopo poco arriva anche Eleonora, la moglie di Moro. Autorità, magistrati e generali ancora non ci sono. Poi arriveranno centinaia di curiosi.

La fuga

Le tre auto in fuga hanno percorso circa un chilometro e deviano per una stradina chiusa da una catena, che immette in un condominio, dal quale si esce su un’altra strada. I brigatisti lo sanno, Moretti scende dalla 132 e con un tronchese trancia la catena. E così si defilano dalla strada principale, che poteva essere bloccata. In realtà il rischio è basso, sanno che per organizzare posti di blocco ci vuole almeno un’ora. Tutte e tre le auto hanno anche una sirena, ma non ce ne sarà bisogno.

Perchè in realtà ci vorrà molto di più. Il questore di Roma ordina di mettere in atto il “Piano Z”, gettando nello sconcerto le forze dell’ordine, nessuno lo conosce. Non sa che quel piano esiste solo in Sardegna, dove era stato questore fino a pochi mesi prima. Peggio di così lo Stato non poteva cominciare.

A un certo punto Morucci scende dall’auto e sale su un autofurgone Fiat 850 con le borse. Gli altri sulle due 128 proseguono poi lasciano le auto in via Licinio Calvo e se ne vanno a piedi. A sua volta Seghetti scende dalla 132, cede la guida a Moretti e sale su una Dyane. Le due auto ripartono. L’appuntamento è a piazza Madonna del Cenacolo, lì vicino. La 132, seguita dalla Dyane, parcheggia in una rientranza, subito dopo arriva Morucci con l’autofurgone e si affianca alla 132.

Il trasbordo di Moro, che non oppone alcuna resistenza, forse è sedato o semplicemente ancora sotto choc, è rapido. Viene fatto salire dallo sportello laterale e fatto sdraiare, rannicchiato, nella cassa procurata da Maccari. L’autofurgone con il solo Moretti alla guida riparte, seguito da Morucci e Seghetti sulla Dyane. Fiore va a parcheggiare la 132 nella stessa strada delle 128, dove lo aspettano gli altri. Lui e Bonisoli vanno in un bar dove si tolgono i giubbotti antiproiettile. In auto si sono già tolti le mostrine, attaccate con degli automatici, ora indossano degli impermeabili anonimi. Consegnano tutto ai romani, comprese le borse con le armi, che, con un’altra auto, portano ogni cosa a Etro, che li aspetta lì vicino. Poco dopo le 10 sono già in stazione a prendere il treno per Milano e Torino.

Ma la fuga non è finita, la prigione dista ancora diversi km.

L’autofurgone e la Dyane raggiungono il parcheggio sotterraneo della Standa di via Portuense. Morucci e Seghetti controllano che tutto sia tranquillo e se ne vanno, perchè non debbono vedere quale sarà l’ultimo mezzo per l’ultima tappa di Moro verso la prigionia, nè chi lo porterà, nè dove si trova la prigione. E’ la compartimentazione, solo Moretti e i carcerieri ne sono a conoscenza.

Lì c’è l’Ami8 familiare, che le Br hanno comprato per la Braghetti, e c’è Maccari. Lui e Moretti mettono la cassa nel bagagliaio e partono. Alle 10 circa arrivano in via Montalcini, senza nessun intoppo. Scendono nel garage, dove li aspetta la Braghetti. Assieme all’auto arriva anche Gallinari, a piedi.

Messa l’auto nel box, scaricano la cassa e la portano, su per le scale, nell’appartamento al primo piano. Tutto è andato liscio come l’olio, tutto ora è finito. Tutto ora comincia.

Le cose sono andate proprio così?

Nel corso dei decenni sono stati sollevati un mare di dubbi e sono stati “scovati” retroscena, complotti e misteri. E ad ogni sentenza la ricostruzione è cambiata. Morucci, che con il suo memoriale è l’autore principale di questa ricostruzione, è stato accusato di falsità. Quasi tutti questi supposti misteri si sono rivelati inconsistenti. Qualche punto oscuro però è rimasto..

Innanzitutto il numero dei brigatisti, 10 sono pochi hanno detto in molti. Lo stesso Franceschini dice di non crederci, visto che per rapire Sossi, che girava a piedi e senza scorta, erano in 18.

Che ci fosse qualcuno in più è possibile, anzi probabile. La sola Balzerani per bloccare un incrocio di tre strade sembra un po’ poco, come anche la sola Algranati ad avvistare l’auto di Moro. Aveva pochi secondi per fare il segnale, un’incertezza nel riconoscere la 130 e saltava tutto. E’ dunque poco credibile che non ci fosse nessuno a controllare la partenza di Moro e a seguirlo fino a via Fani. Compito che potrebbe essere stato svolto da due persone a bordo di una moto, vista passare per via Fani pochi istanti dopo la fuga dei brigatisti
[4]. Come è poco credibile che le auto parcheggiate lungo la via di fuga, in particolare l’autofurgone, non fossero sorvegliate, col rischio di trovarle bloccate da un’auto in seconda fila.

L’Alfetta della scorta crivellata di colpi

Si è detto anche che quattro sparatori erano pochi, ma in realtà erano teoricamente sette. E le perizie hanno confermato la versione Morucci: sette le armi che hanno sparato, quattro mitra e due pistole, usate da 4 brigatisti, più la pistola di Iozzino. Anche se resta un dubbio su un terzo Fna e su un colpo di 7,65 contro Leonardi, non si sa da chi sparato. Comunque sia, anche ammesso che qualche brigatista sia sfuggito a tutti i processi, questo non avvalorerebbe misteriose presenze in via Fani e dunque non cambierebbe la sostanza delle cose.

Il killer professionista

Ma il sospetto più importante avanzato da molti è che nel commando ci fossero degli estranei, a conferma della tesi che le Br erano manovrate. Su cosa si basa questa tesi? A parte il fantasioso testimone che avrebbe sentito dare ordini in tedesco, si basa solo sull’assunto che i brigatisti non erano in grado di compiere un’azione militare così complessa e perfetta.

E’ una tesi che non sta in piedi. Primo perchè, da un punto di vista strettamente militare, non era un’agguato così difficile da eseguire. Sparare a delle persone ferme, intrappolate in auto, praticamente disarmate, dalla distanza di due metri non richiede di essere dei tiratori eccezionali. Non colpire Moro, che stava a un metro di distanza dal bersaglio, sparando da 200 cm e anche meno, neppure. Per di più i quattro brigatisti erano gente che aveva esperienza di armi, sparava da anni e si era allenata. Avevano già ucciso e ferito più persone e compiuto rapine e sequestri, quindi erano anche psicologicamente attrezzati. Sicuramente più della maggioranza dei poliziotti e carabinieri.

E soprattutto non avrebbero mai introdotto degli estranei nella preparazione ed esecuzione del sequestro, estranei per definizione inaffidabili, esponendosi così a rischi mortali.

Per anni si è costruito un teorema sul fatto che 49 colpi, più della metà del totale, furono sparati da una sola arma. Eccolo, è lui il killer professionista, a piacere uno della ‘ndrangheta o di un qualche servizio. Come se sparare molti colpi sia prova di bravura. Infatti, se si fossero lette le perizie, si sarebbe visto che la maggior parte di quei 49 colpi andarono a vuoto, mentre chi sparò molti meno colpi li mise quasi tutti a segno. Dunque il superkiller era un tiratore scarso. A parte il fatto che una perizia ipotizza che le armi che spararono quei colpi fossero in realtà due.

Qualche dubbio

Detto questo qualche punto oscuro resta e probabilmente Morucci non ha raccontato tutto. Ad esempio convince poco che il primo trasbordo di Moro sia avvenuto in una piazza. Anche se Morucci ha spiegato in modo accettabile come lui e Seghetti si erano disposti a coprire il passaggio dalla 132 al furgone.

Sulla base di una velina della Finanza e una del Sismi, che forse riprendeva la prima, si è sviluppata l’ipotesi che il trasbordo sia avvenuto in un garage non troppo lontano da via Fani. Garage sotterraneo che è stato anche individuato, sulla base di una segnalazione, in via Massimi, appartenente ad un condominio un po’ particolare. E’ infatti di proprietà dello Ior, vi abitano due cardinali, un finanziere libico informatore del Sismi, una società di intelligence della Nato, e due fiancheggiatori delle Br, che qualche mese dopo ospiteranno Gallinari. Ed è anche frequentato dal card. Marcinkus. Tutti ingredienti eccitanti per una superspy story. Purtroppo però tutte le indagini fatte non hanno portato a nessun elemento concreto.

Si è anche sostenuto che Moro sarebbe stato tenuto prigioniero per alcuni giorni proprio in questo condominio, raggiungibile in poco tempo. Mentre una fuga di quasi un’ora con Moro nel bagagliaio era rischiosa. In realtà sarebbe stato più rischioso spostarlo giorni dopo, quando Roma era piena di posti di blocco, per quanto inefficienti, piuttosto che nell’immediatezza del sequestro quando i controlli erano ancora nel pieno caos. E comunque, anche se è un ipotesi che non si può escludere categoricamente, pure qui non c’è nessuna prova e nemmeno indizi di qualche peso, tranne molte voci e soffiate.

Qualche dubbio c’è anche sul secondo trasbordo. La cassa, con Moro dentro, pesava circa 100 kg. Due sole persone, neppure particolarmente robuste, per scaricarla dal furgone e metterla dentro un’auto, sembrano poche. Qualche dubbio anche sull’ultimo tratto di strada verso la “prigione”, è un po’ strano infatti che l’auto con Moro nella cassa non avesse almeno un’altra auto a precederla, per controllare la strada ed eventualmente forzare un posto di blocco. Cosa che le Br avevano fatto in altre occasioni. Ma l’esigenza di segretezza sul luogo della prigione potrebbe anche essere una spiegazione.

Il mitra FNA43

Un altro dubbio riguarda ancora i famosi 49 proiettili. A spararli, secondo la ricostruzione, fu Bonisoli con il suo Fna43. Ma lo stesso Bonisoli ha detto che il suo mitra si inceppò dopo una decina di colpi e poi sparò con la pistola. E allora chi ha sparato gli altri? Considerato che per spararne 49 si deve anche sostituire il caricatore. I casi sono due. O il Fna43 si inceppò, ma dopo aver sparato molti più colpi oppure almeno la metà li sparò un altro br. La risposta potrebbe venire dalla testimonianza di Etro, che riferi che Casimirri gli aveva rivelato di essere intervenuto lui a sparare a Iozzino, perchè l’arma di Bonisoli si era inceppata. Rimane comunque un piccolo mistero, ma non sembra proprio nascondere un qualche complotto.

Il colonnello Guglielmi

Va però dettto che di presenze sospette a via Fani ce ne furono. In particolare una. Si chiamava Camillo Guglielmi ed era un colonnello del Sismi. Quella mattina attorno alle 9 era in via Fani. Quando, diversi anni dopo, lo si è saputo, gli è stato chiesto che ci faceva lì. Lui ha risposto che stava andando a casa di un amico, il col. D’Ambrosio, in via Stresa, perchè invitato a pranzo. A pranzo alle 9 del mattino? Sembra uno scherzo, ma Guglielmi proprio così dice. E siccome non è uno stupido è chiaro che si tratta di un messaggio rivolto a qualcuno.

L’altro colonnello ha fornito una contorta, lacunosa e parziale conferma. E’ vero Guglielmi venne a casa mia, ma non ricordo se l’avevo invitato, non ricordo perchè venne alle 9,30, non ricordo se poi se ne andò e tornò. Per di più D’Ambrosio dice che venne con la moglie, mentre Guglielmi non ne parla mai. Insomma, l’impressione è che Guglielmi menta e l’amico cerchi maldestramente di tenergli bordone. E se è così l’unica spiegazione è che la vera ragione per la quale era lì quel 16 marzo è inconfessabile.

La storia diventa ancora più interessante se si va a vedere chi era questo Guglielmi. Nei primi anni 70 era stato istruttore di Gladio, nella base segreta di Capo Marrargiu, esperto di sabotaggio e guerriglia. Nel 78 è a capo di un nucleo supersegreto anzi clandestino, visto che la sua esistenza non è prevista negli organigrammi del Sismi, voluto dal generale Musumeci, numero due del servizio. Questo generale, ovviamente iscritto alla P2, è l’uomo incaricato delle operazioni sporche e illecite del servizio. Verrà infatti condannato per aver depistato le indagini sulla strage di Bologna.

Il nucleo, che ha preso il nome dal suo capo, cioè “gruppo Guglielmi”, è costituito prevalentemente da ex parà, che chiamano il colonnello con il nome in codice di “papà”, ed è incaricato di svolgere attività occulte con fini politici. Il Sismi ne ha sempre negato l’esistenza e la sua segretezza era tale che il col Guglielmi ufficialmente risultava in servizio alla legione carabinieri di Modena. Ma esiste un documento che ne certifica l’attività nel febbraio 78.
Insomma non un colonnello qualunque, ma l’uomo giusto al posto giusto. E che racconta una storia poco credibile sul reale motivo per cui si trovava lì.

Uno dei membri del nucleo ha rivelato nell’87, che Guglielmi era stato attivato dal gen Musumeci, che aveva un infiltrato nelle Br, uno studente di giurisprudenza, nome in codice Franco. Il quale aveva fatto sapere che le Br avrebbero rapito Moro in via Fani. Non sappiamo se la storia di Franco sia vera, è però plausibile che Guglielmi fosse presente in via Fani, perchè i vertici del Sismi qualcosa avevano saputo. La domanda lecita è: se qualcosa sapevano, per quanto vago fosse, perchè non hanno avvertito Moro e la scorta oltre a madare il colonnello a dare un’occhiata? E’ solo una domanda, ma sorretta da un pesante sospetto.

Nirta “due nasi”

Un’altra presenza strana in via Fani è quella di un boss della ‘ndrangheta. Il primo a rivelarlo è, pochi giorni dopo, Benito Cazora, un deputato calabrese della Dc, che comunica di aver ricevuto una telefonata “da giù”, per informarlo che in una foto scattata in via Fani c’era “un uomo a loro noto”. In effetti una donna aveva consegnato alla polizia un rullino di foto scattate dal suo balcone. Vengono subito cercate, ma il rullino è sparito (altri due o forse tre rullini spariranno e la casa di un fotografo verrà svaligiata alla ricerca di negativi). Una cosa però è chiara: qualcuno in questura ha riconosciuto l’uomo nella foto, ha subito informato chi di dovere in Calabria e poi ha fatto sparire quell’immagine che era meglio nessuno vedesse.

Nel cerchio l’uomo molto somigliante al boss Antonio Nirta

Molti anni dopo un pentito di ‘ndrangheta rivelerà che un boss, Antonio Nirta, era in via Fani e aveva preso parte all’agguato. E altri anni dopo verrà ritrovata una foto, scattata in via Fani dopo il rapimento di Moro, nella quale in mezzo ai curiosi c’è un uomo tale e quale Nirta.

Ora tutto ciò è ancora più interessante se si va a vedere chi è questo Nirta. E’ un boss importante di Platì, detto “due nasi” per la sua passione per la doppietta. Ma è anche massone, con simpatie di estrema destra e vicino al clan De Stefano. Il cui capo Paolo De Stefano era in rapporti con il Sid e aveva aderito al golpe Borghese.

Ma soprattutto è in stretti rapporti col capitano poi generale Delfino, suo compaesano. Di Delfino abbiamo già detto (vedi cap 6) , basti aggiungere che è stato processato per la strage di Brescia, anche se poi assolto e che due anni dopo contribuirà a depistare le indagini sulla strage di Bologna e che di lì tre mesi passerà al Sismi per poi finire nello Shape della Nato, al posto del col Pignatelli, un altro coinvolto nelle trame stragiste.

Nirta dunque non è un boss qualunque, è un po’ come Guglielmi, uno che sembra fatto apposta per essere dove accade qualcosa di losco. Certo è lì (se quello nella foto è lui, come sembra) un’ora dopo, in mezzo a cento e più persone. Nulla prova che fosse lì anche un’ora prima. E che fosse nel commando brigatista l’abbiamo escluso. Però resta molto strano che si trovasse a Roma e nei paraggi di via Fani proprio quella mattina.

Il bar Olivetti

Anche perchè gira e rigira spunta sempre qualche calabrese. Proprio lì dove si sono appostati i quattro vestiti da piloti c’è un bar, anzi c’era, il bar Olivetti. Il 30 maggio il Sismi segnala che il trasferimento del bar ad altro luogo, avvenuto a gennaio, è molto sospetto. E, visto che la chiusura del bar ha reso possibile l’agguato, infatti è proprio dopo la sua chiusura che le Br scelgono via Fani, forse la segnalazione meriterebbe qualche indagine che invece non viene fatta.

Anche perchè il proprietario, il signor Tullio Olivetti, è anch’esso un personaggio interessante e che sembra completare un triangolo perfetto con Guglielmi e Nirta. E’ infatti coinvolto in traffici di armi con la ‘ndrangheta, e proprio con il clan De Stefano, ma siccome è anche protetto dai servizi e dai carabinieri, esce pulito dalle indagini. Sempre questo Olivetti è anche a Bologna la sera prima della strage, ma anche in questa occasione questa sua strana presenza scomparirà nel nulla.

In mezzo ai curiosi che si assiepano attorno alle auto crivellate di colpi, c’è anche un brigatista dotato di macchina fotografica, che fotografa tra gli altri il col. Varisco dei carabinieri, che le Br uccideranno l’anno dopo. La foto è stata trovata in una base Br.

g.g.

[1] In realtà Zizzi, che sembrava privo di vita, non è ancora morto, morirà durante il trasporto in ospedale

[2] Qualcuno ha affermato che quest’auto, una Mini Minor fosse di una società riconducibile ai servizi segreti e messa lì apposta per aiutare i brigatisti. Le indagini fatte nel 2016 dalla Commissione Moro non hanno trovato riscontri

[3] Secondo un testimone sull’auto c’è un ignoto quarto brigatista. Ma tutte le numerose testimonianze sono confuse e contraddittorie, quindi valgono poco.

[4] Su questa moto si è scritto e discusso molto. Più di un testimone l’ha vista passare per via Fani. Uno ha riferito che dalla moto hanno anche sparato contro di lui, perforando il parabrezza della sua moto, ma poi si è scoperto che era già rotto da giorni. Un altro che il passeggero aveva un mitra e avrebbe perso un caricatore. Altri testi hanno detto cose diverse, ad esempio che uno dei due era una donna. I brigatisti hanno sempre negato che i due fossero dei loro e comunque non avrebbero avuto alcun motivo di sparacchiare in giro. Si è anche seguita una pista che portava a Gladio, ma finita in nulla e dal forte odore di depistaggio. Un brigatista, Raimondo Etro, ha riferito che si trattava di due giovani autonomi, che forse avevano orecchiato qualcosa ed erano venuti a curiosare. Un’altra ipotesi, come detto, è che la moto avesse seguito l’auto di Moro, per avvertire del suo arrivo, tesi sostenuta anche da Cossiga, che sembra l’ipotesi più convincente. In conclusione, di questa moto non si può dire nulla di certo.

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