Capitolo precedente: 26) Moro, le Br in un vicolo cieco

Eseguiamo la sentenza

Le Br continuano nella loro attività, sparare a qualche gamba. Non si capisce neppure se siano azioni dirette ad incidere sul braccio di ferro col governo o sorda e tetra routine di un’organizzazione che non sa fare altro. Nello stesso giorno a Milano viene ferito Lamberto degli Innocenti, un medico della Sit-Siemens e a Genova, Alfredo Lamberti, un dirigente dell’Italsider.

Il 5 maggio il governo ribadisce il no a qualunque trattativa. Un’ora dopo arriva il Comunicato n°9, più delirante di altri nel raccontare una storia fantastica. <La risposta del governo è stata la violenza armata… Rastrellamenti nei quartieri proletari nello stile delle SS naziste… arresti di centinaia di militanti comunisti… genocidio politico delle forze comuniste… la ferocia, la violenza sanguinaria che il regime scaglia contro il proletariato e le sue avanguardie, sono soltanto le convulsioni di una belva ferita a morte… sono centinaia le azioni di combattimento che le avanguardie comuniste stanno conducendo… imprimendo allo sviluppo della Guerra di Classe per il Comunismo un formidabile impulso>.
E poi l’annuncio: <
Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato>.

Viene anche recapitata una lettera alla moglie: <Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione….. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile….. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo>.

Ormai anche dal nucleo storico è arrivato un via libera rassegnato: <Fate quello che dovete fare, noi ce la caveremo>.

Riecco la ‘nadrangheta

Ed ecco che rispunta ancora la ‘ndrangheta. Il solito Varone chiama Cazora e gli dice: <La maggioranza della direzione strategica delle Br propende per l’uccisione, restituiranno Moro martedì, morto>. Così racconta Cazora. Sull’esattezza delle parole non si può giurare, ma è chiaro che qualcosa i calabresi sanno. Già avevano indicato la zona di via Gradoli e prima c’era stata la storia di Nirta e del bar Olivetti. Qualche contatto c’è, qualcuno che sta nelle Br ma parla anche con un amico calabrese, fors’anche ignorando che sia un uomo dei boss. Resterà un mistero.

L’ultimo spiraglio

Ma Moretti si prende ancora qualche giorno. La Dc ha convocato la direzione per il 9 maggio, pare che Fanfani chiederà al partito di prendere un’iniziativa. E’ dubbioso sull’esecuzione, anche se sa che ormai è inevitabile, spera ancora che la Dc ceda. Il resto dell’esecutivo preme, ma per loro è più facile, non debbono uccidere loro Moro

Il 6 maggio Pifano, il leader dei Volsci, incontra Vitalone, l’uomo di Andreotti, e gli dice di aver contattato le Br e che queste sono possibiliste su uno scambio uno a uno. L’esecuzione è stata rinviata a mercoledì, si deve fare in fretta. Il contatto di Pifano è quasi certamente sempre Morucci, che sta cercando di strappare qualche giorno in più. Moretti invece ha vietato qualunque contatto con quelli dell’Autonomia.

Spunta una nuova sigla: i Pac

Lo stesso giorno un’altra gambizzazione e due giorni dopo un’altra ancora. Si tratta di due medici. Ma non sono state le Br. I volantini sono firmati con una nuova sigla: Pac (Proletari armati per il comunismo). E’ un nuovo gruppo nato da poco, anche se i suoi componenti non sono proprio nuovi.

L’esecuzione

Gira voce che lunedì 8 maggio il braccio destro di Fanfani, Bartolomei, farà un discorso di apertura. Invece non dice nulla. Si sa che Fanfani alla direzione Dc riproporrà la grazia. Insomma non giungono i segnali attesi e forse comunque è tardi, la decisione è presa. Moro sarà ucciso il giorno dopo.

I quattro carcerieri si alzano alle sei, hanno del lavoro da sbrigare: debbono uccidere l’uomo con il quale hanno convissuto 55 giorni, hanno diviso il cibo, hanno conversato, di cui hanno letto tutte le penose lettere. <Bisogna essere il diavolo in persona, per uccidere uno con cui hai convissuto>, di rà Franceschini. Anche per uno come Moretti, che si è assunto il terribile compito, del resto lui è il capo, Gallinari si è tirato indietro, non è facile per niente. Ha conosciuto e apprezzato lo spessore umano e intellettuale di Moro, la sua mitezza e grande dignità. Lo confesserà ai compagni. Ma la disciplina ferrea del militante rivoluzionario, la fede in un mito, la cecità del fanatismo ideologico glielo impongono.

Anna Laura Braghetti

Dopo mezz’ora vengono consegnati a Moro gli abiti che aveva il giorno della cattura. Hanno messo sotto le scarpe, nei pantaloni e poi anche sulle ruote dell’auto della sabbia e catrame presi al mare. E’ stata un’idea di Morucci per depistare le indagini. Moro viene bendato e gli dicono che lo portano da un’altra parte. Lui ha capito che invece è giunta l’ora, ma forse ha anche provato a credere all’estrema speranza che qualcosa di imprevisto sia successo. Saluta Moretti e Gallinari, gli unici due di cui ha sentito la voce.

Lo mettono dentro ad una grande cesta poi Moretti e Maccari lo portano giù nei garage. La Braghetti li precede per le scale per controllare che non ci sia nessuno. Gallinari resta nell’appartamento e si mette a piangere. Così almeno racconterà la Braghetti.

Il garage è un lungo corridoio sul quale si affacciano i vari box. In quello della Braghetti il giorno prima è stata messa una Renault 4 rossa, rubata. Per una decina di giorni era stata affidata a Savasta, Spadaccini e Libera, che hanno cambiato la targa, l’hanno lavata e ogni due o tre giorni l’hanno spostata.
Il box è piccolo e debbono tirare fuori un mezzo metro di muso e lasciare la porta basculante leggermente aperta, per avere spazio dietro. I due stanno per caricare Moro nel bagagliaio, quando la Braghetti sente aprirsi l’ascensore. É l’inquilina del quarto piano, la professoressa Ciccotti che parte presto, perchè insegna a Velletri. La Braghetti la saluta ad alta voce, perchè i due dentro al box capiscano. La donna nota che l’auto che si intravvede non è quella solita, ma non dice nulla. Fa fatica a mettere in moto la sua auto e la Braghetti chiede se ha bisogno di aiuto. Lei dice che non importa poi riesce a partire.

Germano Maccari

Tornato il silenzio, i due brigatisti fanno sedere Moro sul pianale del bagagliaio, la R4 è una specie di station wagon dell’epoca. Poi Moretti imbraccia la Skorpion silenziata, che Morucci portò in dote alle Br, e spara una breve raffica al cuore, tre o cinque colpi. Moro, anche se bendato, si accorge che stanno per sparargli e protende le mani in un gesto istintivo di difesa, un proiettile gli trapassa il pollice sinistro. Il corpo si accascia nel bagagliaio, sopra una coperta. I due tirano su le gambe, gliele piegano per farcelo stare, Moro è alto. Ma emette un rantolo, fa un movimento. Non è morto, allora Maccari appoggia la canna della sua Whalter PPK con silenziatore al corpo e spara un colpo, poi la pistola si inceppa. Così Moretti fa fuoco di nuovo con la mitraglietta. Alla fine Moro è trafitto da 12 proiettili. Con la coperta coprono il corpo, chiudono il portellone e partono.

In realtà Moro non è ancora morto, l’agonia durerà 15 o 20 minuti.

Altre ipotesi

Questa è la ricostruzione più attendibile uscita dai processi e soprattutto dall’ultima perizia. Ma non vi è certezza su ogni dettaglio. Perchè Moretti non ha mai fornito particolari, Maccari non è attendibile, la Braghetti non era dentro al box e le perizie si sono contraddette. La prima aveva stabilito che a Moro avevano sparato nella posizione in cui è stato poi trovato. 40 anni dopo altri periti hanno concluso che i primi colpi gli sono stati sparati mentre era seduto col busto eretto. Maccari dice che ha sparato solo Moretti, lui gli ha passato le armi, prima la pistola poi la Skorpion, Moretti ha confermato. La Faranda dice invece di aver saputo da Morucci che sparò anche Maccari. E c’è anche un’altra versione che a sparare fu solo Maccari, perchè Moretti all’ultimo non se la sentì.

La versione di Maccari non è esatta, perchè i periti sostengono che prima sparò la mitraglietta poi la pistola e non escludono che la prima raffica non sia stata sparata nel bagagliaio, ma in altro luogo, (potrebbe essere nell’appartamento), perchè furono messi dei fazzoletti di carta sotto la giacca per tamponare il sangue. Il che fa pensare che dovessero spostarlo dopo avergli sparato. Gli avrebbero poi risparato nel bagagliaio perchè ancora vivo, cosa certa perchè un proiettile si è conficcato nel pianale. E’ tutto possibile, anche se una raffica, seppur silenziata, sparata in casa, poteva essere sentita dai vicini più che in un garage e la cosa che sanguinava di più era il dito, mentre sopra le ferite al petto c’erano ben quattro strati di abiti.
Ma che abbia sparato solo Moretti, solo Maccari o entrambi cambia poco. Altri sono i punti dubbi.

Il viaggio verso via Caetani

L’auto parte da via Montalcini, percorre un lungo tragitto e si incontra con una Simca verde, con sopra Morucci e Seghetti. Sarà questa auto a fare da staffetta, per controllare che non vi siano posti di blocco o polizia in giro. Ma tutto fila liscio, nessun controllo, nessun blocco, come del resto è stato per tutti i 55 giorni nei quali i brigatisti si sono spostati e incontrati senza problemi. Le due auto attraversano il centro e raggiungono via Caetani nel ghetto. E’ stata scelta, almeno così si è detto, perchè vicina alla sede della Dc e del Pci. Un luogo simbolico, un cadavere sulla strada del compromesso storico.

Bandiere listate a lutto

Il giorno prima, in via Caetani, è stata parcheggiata un’auto, per essere sicuri di trovare un posto dove lasciare la R4. L’auto viene spostata e al suo posto viene messa la Renault rossa, un altro simbolo, con dentro il corpo crivellato di colpi di quello che le Br pensavano essere il grande capo della Dc, il proconsole dello Stato imperialista delle multinazionali in Italia e che invece la Dc ha lasciato al suo destino.

I quattro se ne vanno. Morucci ha l’incarico di telefonare a qualcuno dell’entourage di Moro per indicare dove trovare il cadavere. Fa alcuni tentativi, senza risposta, alla fine chiama Tritto, un assistente del professore, che alla notizia scoppia in lacrime. Il telefono è intercettato e dopo una ventina di minuti la polizia apre il portellone della Renault.
Nei giorni successivi Gallinari e Maccari smantellano la parete in cartongesso e tutto il resto.

Dubbi e fantasie

Anche sulla conclusione del sequestro Moro sono stati sollevati molti dubbi, scovate misteriose incongruenze, disvelati oscuri retroscena e avanzate molte teorie, a volte decisamente fantasiose. Chi è interessato può leggere qualche considerazione nella nota sotto [1].

Non si può dire che tutto sia perfettamente chiaro e che le numerose tesi alternative siano tutte certamente fasulle, molte lo sono. Non si può escludere con assoluta certezza che Moro sia stato portato via dal garage vivo e sia poi stato ucciso in altro luogo, come alcuni sostengono. Ci pare invece non credibile che sia stato consegnato ad altri “esecutori” della sentenza. E’ certo però che nessuna di queste presunte rivelazioni si basa su prove o anche solo su indizi minimamente concreti. Quest’ultima ipotesi poi non ha neppure un misero fondamento logico.
Punti poco chiari ci sono, soprattutto a causa dei racconti dei brigatisti a volte reticenti, contraddittori e incompleti. Qualche domanda è dunque lecito porsela, ma se non si trovano le risposte, non si posso inventare.

I dubbi riguardano soprattutto gli orari e quindi la sequenza dei fatti la mattina del 9 maggio. La Braghetti ha detto che Moro fu ucciso tra le 7 e le 7,30 e subito portato via, arrivando in via Caetani circa alle 8. Morucci invece dice che l’auto lasciò via Montalcini alle 8,30 e dunque fu parcheggiata circa alle 9. Diciamo che la Braghetti c’era e Morucci no, però la Faranda dice che Morucci uscì di casa per incontrarsi con Moretti e Maccari verso le 8, quindi confermando gli orari di Morucci. La perizia ha stabilito che Moro morì attorno alle 9, che (per quanto sia un orario approssimativo) si combina di più con gli orari di Morucci, considerato che non morì subito. Teniamo conto che c’è un solo teste che dice di aver visto la Renault in via Caetani alle 8,15, ma il suo racconto è un po’ incerto.

Qualche dubbio c’è anche sul perchè la scorta alla R4 viene fatta solo da metà percorso in poi. Ed anche sul fatto che Morucci nel suo memoriale dice che cercarono un posto libero dove parcheggiare la R4 e lo trovarono in fondo a via Caetani. Mentre la Faranda dice che avevano parcheggiato un’altra auto la sera prima e che fu lo stesso Morucci a portarla via. Cosa molto più logica. Come è possibile allora che Morucci non se lo ricordi? E come è possibile che Moretti non ricordi, come ha detto, se guidava lui la R4?

Ancora, l’auto viene abbandonata o alle 8 o alle 9, Morucci però chiama Tritto alle 12,13. Tre o quattro ore dopo. Non doveva essere la prima cosa da fare? Lui dice che prima ha cercato altre persone che non avessero il telefono sotto controllo, ma non le ha trovate. Poi si è spostato fino a stazione Termini con la Faranda e cercato una cabina sicura. Insomma è passato del tempo, ma tre o quattro ore sono tante.
Signorile ha dichiarato che Cossiga apprese della morte di Moro attorno alle 11. Signorile potrebbe sbagliarsi oppure Cossiga fu avvertito prima di Tritto?

E ora?

Ora Moro è morto, l’attacco al cuore dello Stato è finito. E’ stata una straordinaria vittoria militare e uno scacco per lo Stato. Ma una pesante sconfitta politica. Tutti gli obiettivi prefissati sono falliti.

L’idea infantile che il capitalismo, seppur imperialista come dicono i brigatisti, si regga su una cricca di persone che gestiscono il potere come in una ferriera dell’ ‘800 e che catturato uno dei capi della cricca, il sistema vada in crisi, ha fatto la fine che merita. Forse hanno cominciato a capire, o forse no, che puoi eliminare anche tutta la cricca e non crolla nulla. Il sistema è molto più complesso, articolato, solido, innervato nella società e non lo abbatti con le pistole.

Ora, anche se non lo danno a vedere, ed anzi molti dei militanti e degli aspiranti che vogliono entrare non se ne rendono conto per nulla, le Br sono deluse, spiazzate e isolate. Se prima godevano di qualche piccola simpatia nel Paese, molto più piccola di quanto si andasse dicendo, ora hanno perso anche quella.
Quando hai alzato il tiro al massimo e non hai ottenuto nulla, che puoi fare ancora? Le Brigate rosse sono ormai sradicate dalle fabbriche e dalle lotte, che son sempre più deboli. Il movimento è definitivamente morto, i colpi sparati a Moro hanno ucciso quel poco che restava.

Anche se vivranno ancora a lungo ed anzi cresceranno, le Br sono inesorabilmente spinte dentro una spirale di piombo e morte senza obiettivi, in un tunnel la cui unica uscita è la galera. Non a caso le carceri diverranno sempre più il centro della loro azione. Dall’attacco al cuore dello stato e dalla rivoluzione proletaria si passerà alla lotta sempre più sanguinaria per tirare fuori i compagni e per la propria sopravvivenza.

Gli attori occulti

Moro è morto anche perchè nel fronte della fermezza a coloro che, in nome della democrazia, non potevano accettare di cedere ad un ricatto criminale, si sono aggregati coloro ai quali della democrazia importa assai poco, ma hanno pensato che l’uscita di scena di Moro fosse conveniente.

Le Br hanno deciso il rapimento e poi lo hanno eseguito, hanno gestito il sequestro e infine hanno ucciso Moro. Da sole senza ordini, interventi o partecipazioni esterne. Ma ci sono troppi punti oscuri, troppi comportamenti opachi e troppe inefficienze, nei due anni precedenti e durante i 55 giorni, per poter dire che tutto si è svolto nel modo più lineare e cristallino. Il rapimento di Moro è un evento enorme, che può destabilizzare l’Italia e determinare mutamenti politici. E’ impensabile che soggetti politici, centri di potere, servizi segreti, italiani e stranieri, non abbiano giocato la loro partita, cercando di condizionare e influenzare l’evolversi della vicenda.

Del resto in Italia è operante, come hanno accertato i processi sulle stragi, una struttura occulta, una sorta di stato parallelo, costituita dai servizi segreti e da una una parte dei vertici di carabinieri e forze armate, in stretto rapporto con strutture analoghe soprattutto americane, ma non solo, e che ha nella P2 il proprio organismo di massa e di penetrazione e controllo.
E’ la stessa struttura che due anni dopo sarà direttamente coinvolta nella strage di Bologna, come ora è stato anche giudiziariamente accertato. Non è pervicace dietrologia ritenere che essa abbia agito per influenzare e agevolare l’operato della Brigate rosse.

g.g.

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[1].
Si è sostenuto che via Montalcini non poteva essere la prigione, perchè il corpo di Moro era muscolarmente tonico, cosa impossibile dopo 55 giorni passati in un “buco” dove non poteva muovere gli arti. Ma non è così, si trattava sì di uno spazio ridotto, però pur sempre lungo circa 3 metri per 1,20, dunque lo spazio minimo per muoversi c’era e non è escluso (anche se le Br non l’hanno mai ammesso) che sia stato fatto uscire dalla cella qualche volta. Si è parlato ad esempio di docce.
La tesi di riserva è che la prigione era quella, ma solo per una parte dei 55 giorni. Questo sulla base di quanto detto da Peci, che però a Roma non c’era, o di altre voci. A parte che non si è mai spiegato per quale ragione le Br avessero traslocato Moro, visto che su via Montalcini non ci fu mai alcun sentore che potesse essere scoperta, su queste prigioni alternative non è mai stato trovato un solo indizio concreto.

Palazzo Caetani e Markevitch. Si è infine ipotizzato che Moro fu portato in un altro luogo per essere ucciso. C’è chi dice qualche giorno prima e chi la mattina stessa. Questo perchè non è credibile che l’abbiano ucciso in un garage con la porta semiaperta su un corridoio condominiale e dove il rumore delle raffiche di mitra potevano essere udite dagli altri residenti. Ed anche in un posto così lontano da via Caetani, che obbligava a un lungo viaggio attraverso Roma con un cadavere nel bagagliaio. Obiezioni poco convincenti, perchè la porta semiaperta, come ha testimoniato la professoressa Ciccotti, lasciava intravedere poco più del paraurti e dunque nessuno poteva vedere cosa accadeva all’interno. Per di più la Braghetti controllava corridoio e ascensore e quindi l’uccisione, operazione che dura pochi secondi, poteva essere eseguita con la certezza che nessuno passasse davanti al box. Quanto al rumore, sono state fatte simulazioni ed è risultato che gli spari erano quasi impercettibili dagli appartamenti. Infine per avvicinarsi a via Caetani si doveva comunque attraversare Roma e farlo con Moro vivo non era meno pericoloso che con Moro morto.

E poi c’è la Ciccotti che ha visto la Renault rossa nel box della Braghetti, dunque Moro era lì in via Montalcini e da lì è stato portato via con l’auto nella quale è stato trovato. Ma qui la faccenda si complica. La prof vede la R4 rossa in tv il 9 maggio e dice al marito: ho visto un auto uguale nel garage di quelli del primo piano. Il marito ne parla con un amico avvocato che, a sua volta informa il ministro Gaspari, che riferisce a Rognoni, che ha appena preso il posto di Cossiga dimessosi. L’avvocato però non rivela la fonte. L’Ucigos indaga, sente alcuni condomini compresa la Ciccotti, che però dice di non aver visto nulla. E’ chiaro che ha paura. Anni dopo, svelata la fonte, la prof viene sentita dalla magistratura e dice che sì, vide l’auto, ma non ricorda bene, le sembra alcuni giorni prima del 9 maggio. Su questa base qualcuno ha sostenuto che quello era il giorno che Moro fu portato via, ma vivo. Privatamente però la Ciccotti ripete più volte che vide l’auto il giorno in cui Moro fu ucciso, lo dice ad es. al segretario di Martinazzoli. Qual è la verità? E chi lo sa? Si può però ipotizzare che la prof, costretta a testimoniare e ancora intimorita, abbia preferito restare nel vago e non legare il suo avvistamento direttamente all’omicidio Moro. Del resto è strano che la sua testimonianza coincida con quella della Braghetti in tutto, tranne il giorno, compresa la presenza della stessa Braghetti alle sette del mattino di guardia fuori dal box.

Un dubbio lecito è perchè Moro, avendo sentito le due donne parlare non abbia urlato. Si può supporre che già gli avessero sparato (ad es. in casa) oppure che abbia pensato che, nell’estrema speranza di essere liberato, urlando avrebbe peggiorato le cose. Ma siamo nel campo delle pure supposizioni. Però non può essere accettato lo schema dietrologico per il quale, ogni volta che c’è un dettaglio che non risponde ad una logica astratta, c’è una menzogna da svelare. I comportamenti, nella realtà, spesso non seguono la logica.

Ma c’è di più, nella varie ed anche recentissime immaginifiche rivelazioni, il trasferimento di Moro vivo avverrebbe perchè i brigatisti passano l’ostaggio o comunque si appoggiano a una qualche misteriosa entità esterna alle Brigate rosse. Non si è riusciti a dimostrare la loro presenza in via Fani, eccola rispuntare in via Caetani.

Ed è proprio palazzo Caetani, che sta a pochi passi da dove è stata lasciata la R4, proprietà di un’antica e nobile famiglia romana, ad essere stato indicato più volte come possibile ultima prigione di Moro o comunque come luogo connesso a Moro e alla sua uccisione. Il primo a parlarne, seppure a mezzo di allusioni e messaggi cifrati, come era suo stile, fu Mino Pecorelli. Giornalista che fungeva da propalatore di soffiate, messaggi, avvertimenti e provocazioni per conto di alcuni uomini dei servizi. I suoi articoli contengono verità, mezze verità e falsità, dunque vanno presi con le molle.

Due settimane dopo la morte di Moro scrive di “una duchessa, che vede i ruderi del teatro Balbo (di fronte palazzo Caetani) dove combattevano antichi guerrieri. Chissà cosa c’era nel destino di Moro, perchè la sua morte fosse scoperta contro quel muro“. Allusioni in quantità: la Caetani è duchessa, ma potrebbe essere anche un riferimento al lago della Duchessa, forse scelto non a caso; gli antichi guerrieri sono i gladiatori quindi un riferimento a Gladio; infine l’indicazione che palazzo Caetani ha a che fare col sequestro Moro. In autunno il Partito operaio europeo, partito finto legato ad agenzie d’informazione o meglio disinformazione americane, presenta uno strano dossier, dove si parla di nuovo di palazzo Caetani riguardo a Moro. In dicembre compare un articolo su Penthouse che indica il direttore d’orchestra Igor Markevitch, marito della duchessa Caetani, come il grande vecchio delle Br. Si dice che ad uccidere Moro sono stati Anna e Franco. E si parla del garage zona Balduina che ospitò le auto dei brigatisti dopo via Fani. In realtà tutte queste rivelazioni hanno un’unica fonte: il col. Cogliandro del Sismi, che Moro ancora vivo, aveva fatto indagini su palazzo Caetani, poi riportate in due informative di dicembre. Sulla prima in alto ci sono i nomi Anna e Franco cerchiati. L’obiettivo è chiaro: accusare Markevitch, indicato come vicino al Kgb e già iscritto al Pci, di essere il vero capo delle Br, colui che interrogava Moro. L’operazione Markevitch però non sta in piedi e così lo stesso Cogliandro deve concludere che la pista si è rivelata infruttuosa. Tutta questa storia riemergerà ciclicamente a distanza di anni. Si sa, le cose funzionano così: tu getti un sasso e le onde poi continuano a propagarsi dando l’impressione che una confermi l’altra.

Il misterioso ghetto. In alternativa o come corollario a palazzo Caetani si è parlato molto di una base o un negozio di stoffe nel ghetto. Che le Br avessero una base nel ghetto è abbastanza certo. E non tanto per quel che racconta Elfino Mortati, che contrariamente a quel che scrivono molti, non era un brigatista. Ma perchè è lo stesso Moretti a farvi un accenno, accompagnato da un’allusione poco chiara, dice in sostanza che era una base di Morucci. Che però avessero una base nel ghetto, come le avevano in altre parti della città non spiega e non aggiunge granchè sulle ultime ore di Moro.

Va detto che in via Gradoli sono stati trovati molti riferimenti al ghetto e anche interessanti. E’ stata trovata la chiave di una Jaguar con un talloncino con su scritto Bruno Sermoneta, proprietario di un negozio di tessuti nel ghetto. Questo signore frequentava una donna sospetta brigatista, che a sua volta frequentava un’altra donna legata all’ultrasinistra, ma poi si scoprì che era anche collaboratrice del Mossad.

Ancora nell’appartamento di Moretti è stata trovato un numero di telefono dell’immobiliare Savellia con un appunto: “Marchesi Liva mercoledì 22 ore 21 e 15 atropina”. L’immobiliare curava la gestione di palazzo Orsini, residenza della marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani (Liva), nel covo c’era anche una cartina di palazzo Orsini, con indicazioni dettagliate sulle entrate e sulle uscite, sulle mura e sulle parti sotterranee. Si passa da una duchesa a una marchesa, da Palazzo Caetani a quello Orsini, è il ramo nobiliare delle Br. Al di là delle battute è difficile dare una spiegazione dell’appunto, sembra un appuntamento. Va aggiunto che l’amministratore della Savellia era un prestanome, quello vero dopo qualche tempo divenne amministratore di una società che si scoprì essere una copertura del Sisde.

Peccato che su tutti questi indizi non siano state fatte indagini, sarebbe stato molto interessante. Ma così si può dedurne tutto e il contrario di tutto, ma non c’è nulla che porti a Moro

L’immancabile De Vuono. Riguardo alla morte di Moro, in alcune delle ricostruzioni alternative, rispunta Giustino De Vuono. La sua storia è interessante per capire la genesi di molti di questi scenari privi di fondamento. Sui giornali e su Internet De Vuono è etichettato sempre come superkiller e già cominciamo male. Perchè è una qualifica basata sul nulla, infatti non è mai stato accusato di un omicidio (a parte quello di Saronio, che non fu opera di un killer). Non possiamo escludere che abbia ucciso qualcuno, ma non risulta da nessuna parte. De Vuono è un malavitoso di basso livello dedito a furti, rapine e poco altro. Nel 75 Casirati, anche lui ladro, lo ingaggia per il sequestro Saronio. Fioroni lo chiama lo “scotennato” a causa dell’ampia stempiatura.

Viene arrestato, ma il 27-1-77 evade e in giugno se ne va in Paraguay dove è ancora nell’agosto 78. Però, dicono le autorità paraguaiane, non si esclude che abbia fatto viaggi in Italia. Il giorno stesso che Moro viene sequestrato la polizia dirama i nomi di venti sospettati e c’è anche il suo. Sulla base di cosa? Di nulla in realtà. Lo si capisce da una nota dei carabinieri (2-10-78) nella quale si dice che la sua appartenenza alle Br è emersa nelle indagini sul sequestro Saronio e che ora è da ritenersi fare parte del vertice delle Brigate rosse. E’ chiaramente una nota di quelle che si fanno per far finta di sapere qualcosa, visto che le Br non c’entrano nulla col rapimento Saronio, e i carabinieri lo sanno, e che quel “è da ritenersi” è buttato lì senza alcun dato a sostegno.

Arriva però il Gico della Gdf che dice di aver saputo da una fonte degna di fede che Azzolini, Micaletto e De Vuono erano a Roma il 16 marzo. Appare subito come un’informazione poco affidabile, infatti è certo che Azzolini e Micaletto non erano a Roma, anche perchè le Br mai avrebbero impegnato l’intero esecutivo in un’azione ad alto rischio. Almeno due dovevano rimanere al sicuro, era una regola ferrea. Teniamo conto che informative di questo tipo sono frequentissime, 99 volte su cento si rivelano infondate.

Arrivano anche due testimonianze. Un uomo dice di aver riconosciuto nella foto di De Vuono, vista sui giornali, uno alla guida di una Mini o un A112 un’ora dopo il sequestro di Moro. Il teste ha una vista fotografica, perchè ha visto quell’uomo solo per qualche secondo in un’auto che lo affianca. Purtroppo però la descrizione: baffi e naso regolare, non corrisponde a De Vuono, che non ha baffi e ha un naso grosso e molto pronunciato. Infatti lui stesso conclude dicendo che non è sicuro assomigli a De Vuono. Il teste descrive anche l’auto: verde chiaro con tettuccio verde oliva, targata P e forse 3505. Una A112 verde chiaro col tettuccio crema e targata P55430 viene trovata in via Stresa, vicino a via Fani. E si accerta che è un’ auto usata dalle Br. Indubbiamente c’è una forte somiglianza tra questa e quella vista dal teste, ma anche una notevole stranezza, perchè il teste l’ha vista in via Giotto, dall’altra parte di Roma alle 10. E questo vorrebbe dire che dopo essere fuggiti e attraversata tutta Roma, i brigatisti sarebbero tornati sul luogo dell’agguato per lasciare lì l’auto. Una cosa incomprensibile, mentre è molto logico che l’auto sia stata sempre lì, perchè le Br usavano mettere auto di riserva per la fuga, che poi se inutilizzate venivano abbandonate. Comunque questa strana coincidenza non c’entra nulla con De Vuono, perchè non c’è nessun indizio che l’uomo al volante fosse lui.

Un secondo teste dice di aver visto in marzo un uomo uscire da via Gradoli 96 (dove ci sono una trentina di appartamenti), vestito da netturbino, somigliante alla foto di De Vuono.”Calvo sulla testa, capelli neri scuri alle tempie e alla nuca, alto meno di 1,67″, Questa volta la descrizione è più somigliante a parte l’altezza che è 172 cm. Ma a Roma ci sono migliaia di persone con questi tratti. Tanto che la magistratura, anche a seguito della collaborazione di Peci che ha escluso che De Vuono sia mai stato nelle Br, definisce le due testimonianze inconsistenti e lo scagiona.

Ma gli “amanti” di De Vuono non si arrendono, in un libro del 2016 si segnala la testimonianza di una donna che ha visto un uomo in via Fani proprio uguale a De Vuono, solo che lo descrive come alto e di corporatura massiccia, mentre quello vero non è alto e nell’identikit della polizia viene definito di “corporatura esile”..

Arriviamo a via Caetani, due giorni dopo il ritrovamento del cadavere, tre giornali scrivono che un teste ha visto un uomo basso e tarchiato e una donna alta e bionda scendere dalla R4 in via Caetani. Notizia ripresa da altri tre giornali il giorno dopo. E’ la classica soffiata ricevuta da polizia o carabinieri. Questa testimonianza importantissima però non comparirà mai nelle carte dei processi. Ed ecco i vari dietrologi non avere dubbi: l’uomo era De Vuono e la testimonianza è stata fatta sparire per proteggerlo. Nelle carte esiste però la testimonianza di un carabiniere che dice di aver visto, il 5 maggio, una R4 sull’autostrada per la Puglia, con a bordo una donna bionda e un uomo stempiato e brizzolato, che avavano un fare sospetto e seguivano un camion militare. Secondo i dietrologi questi due sono gli stessi visti in via Caetani e dunque un’ulteriore conferma alla prima testimonianza. Ma ancora una volta le descrizioni non coincidono: De Vuono è sempre stato descritto coi capelli neri e questo è brizzolato e nel fotofit originato dalla testimonianza del carabiniere, l’uomo ha un naso piccolo e schiacciato, l’opposto di quello di De Vuono. In più è praticamente certo che la R4 rossa fino al 6 maggio era a Roma in possesso di Spadaccini e della Libera, come affermato da 4 pentiti ritenuti del tutto affidabili. Il sospetto è che la testimonianza che si dice fu fatta sparire fosse in realtà quella del carabiniere (sono molti i punti in comune), che nei passaggi che originano una soffiata è stata volutamente o involontariamente equivocata. Anche perchè risulta strano che un teste che ha visto una cosa fondamentale, non si faccia vivo in alcun modo vedendo sparire la propria testimonianza.

Nel gennaio ’79 riecco Pecorelli che scrive “Moro doveva uscire vivo dal covo, i carabineiri avrebbero dovuto riscontrare che era vivo e lasciar andar via la macchina rossa. Ma qualcosa non funzionò, si voleva comunque Moro morto. Ma è di questo che non parleremo, perché è una teoria cervellotica, non diremo che il legionario si chiama ‘ De’ e il macellaio Maurizio“. Maurizio è il nome di battaglia di Moretti e il legionario (pare che lo sia stato) è De Vuono. A quel che si capisce sarebbero i due assassini di Moro, ma non è chiaro. Come non è chiaro, nello stile Pecorelli, tutto il resto. Sembrerebbe che Moro sia stato ucciso nel “covo” e dunque De Vuono sarebbe entrato in via Montalcini per ucciderlo. Una tesi, oltrechè basata su niente se non i messaggi cifrati e ricattatori di Pecorelli, davvero poco credibile: non c’è motivo plausibile perchè Moretti faccia entrare il legionario nella prigione di Moro, cosa contraria a una regola elementare e ovvia dei brigatisti. Poi ci si mette anche Cossiga che scrive: <Conosco tutti quelli che hanno rapito Moro. Non ho conosciutoquello che l’ha ucciso, che è morto poco tempo fa>. E tutti subito: è chiaramente De Vuono, solo che la frase è del 2008 e De Vuono è morto nel 94, non proprio poco prima. E poi Cossiga di allusioni, mezze verità e falsità ne ha detto troppe. Di un ministro e capo dello Stato che sa chi ha ucciso Moro e fa battute invece di dirne il nome possiamo fare a meno.,

Ma non è ancora finita. Nel 2016 un prete, don Fabbri, ex segretario di mons. Curioni, capo dei cappellani militari e molto vicino a Paolo VI, racconta alla Commissione Moro che Curioni, quando vide le foto dell’autopsia, esclamò: io so chi l’ha ucciso, c’è la sua firma. Spiegando poi che era un malavitoso, che lui aveva conosciuto al Beccaria quando dunque era un minore, che uccideva le persone facendo una corona di proiettili attorno al cuore. Chi è? De Vuono ovviamente. I due sacerdoti sono tipi particolari, Curioni trattò a lungo con un intermediario delle Br, rivelatosi poi un truffatore; entrambi furono coinvolti nella trattativa Stato-mafia e Fabbri è in rapporti coi servizi segreti. Ma, a parte questo, sorge una domanda. Curioni ha questa intuizione formidabile che porterebbe a una svolta decisiva nel caso Moro e non la rivela a nessuno? Neppure al Papa, al quale correggeva addirittura i discorsi, dice lui. Bè, se uno, anzi in due si tengono un segreto così per 40 anni, la cosa puzza un po’. Non si capisce poi quando e come De Vuono avesse apposto questa sua firma, per cui era noto, visto che risulta non abbia mai ucciso nessuno. Inoltre, e qui la chiudiamo, le perizie affermano non esserci nessuna corona di fori attorno al cuore (difficile per altro da fare con una mitraglietta). Semplicemente hanno sparato al petto e non hanno colpito il cuore.

Il Vaticano e l’ambasciatore. Aggiungiamo solo l’ultima versione del mistero di via Caetani, perchè è una delle più interessanti. Le Br d’accordo col Papa hanno deciso di liberare Moro, lo portano nel garage di palazzo Caetani e lo consegnano ai messi del Vaticano, arrivati con la R4 rossa. Moretti e compagni se ne vanno tutti contenti, non si sa cosa abbiano ottenuto in cambio, ma sono soddisfatti. Quelli mettono Moro sul sedile posteriore, due salgono davanti poi uno si gira e gli spara una raffica. Lo mettono nel bagagliaio e lo parcheggiano fuori dal passo carraio. I brigatisti non se la prendono per l’inganno, anzi, Morucci va a fare la famosa telefonata e si accollano l’uccisione di Moro. E c’è qualcuno che ci ha scritto un libro.

Riguardo a tutte le tesi che vedono coinvolti nell’esecuzione altri soggetti, va ricordato che le perizie hanno accertato che a sparare furono le due armi indicate dalle Br e che queste furono trovate in possesso di brigatisti.

Così può bastare? No, perchè riecco don Fabbri con un’altra rivelazione choc, sempre 40 anni dopo: Mons Curioni mi disse che nel risvolto dei pantaloni di Moro c’era del terriccio di una cantina di una sede diplomatica nella zona del ghetto. Il problema è che il risvolto dei pantaloni fu attentamente analizzato, c’era sabbia, pezzetti di vegetazione marina e catrame proveniente da una spiaggia a nord di Roma. Ma va bè. Peccato che all’epoca nel ghetto non c’erano sedi diplomatiche. Ma c’erano le abitazioni dell’ambasciatore cileno e brasiliano in Vaticano. Quella del secondo proprio a Palazzo Caetani. E così abbiamo davvero chiuso: Moro era prigioniero dell’ambasciatore del Brasile, che lo teneva in cantina, fra le bottiglie di vino

Ci sarebbero ancora molte altre clamorose rivelazioni, ma gli inventori di alcune sono finiti in tribunale e per altre non vale la pena..

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