Capitolo precedente: 27) Moro, l’esecuzione
La tipografia
Attorno al primo maggio, pedinando Spadaccini (segnalato già in marzo da un informatore) si è arrivati a un certo Triaca, proprietario di una tipografia. E’ passato oltre un mese inutilmente da quando la fonte “Cardinale” ha dato l’imbeccata, ma la perquisizione viene ancora rinviata. Nel frattempo viene ucciso Moro e si rinvia ancora. Il 17 maggio finalmente viene fatta. Anche se a questo punto, morto Moro, non c’è più fretta e sarebbe meglio aspettare. Nella tipografia vengono trovati diversi documenti, la stampante che era del Sismi e alcuni indizi che identificano la Balzerani.

Enrico Triaca
Ancora una volta però il lavoro non viene fatto fino in fondo. La polizia non tiene sotto controllo la tipografia, tanto che poco dopo arriva Moretti, trova chiuso, un vicino gli dice che è stata la polizia e lui si allontana rapidamente. La fortuna di Moretti ha toccato vertici assurdi.
Intanto Enrico Triaca viene incapucciato e portato in una casa, dove viene pestato a sangue e sottoposto alla tortura dell’acqua, cioè acqua e sale infilate in bocca con un tubo. E lui parla, fa i nomi di altri tre, tra cui Marini l’ex marito della Balzerani. Sono quelli della brigata per la propaganda. E aggiunge che il capo, quello che gli ha dato i soldi per la tipografia, lo chiamano Maurizio, che viene poi identificato in Moretti. In totale vengono arrestati in sei.
E’ solo a questo punto, il 19 maggio, che viene spiccato un mandato di cattura per Moretti. Ma ancora una volta una sorpresa: l’ordine di ricerca viene diramato alla sola questura di Ascoli, che ovviamente risponde dicendo che lì non ci sta più da 15 anni.
Triaca denuncia il pestaggio, ma viene condannato per calunnia. Solo dopo 35 anni un tribunale gli cancellerà la condanna, perchè ha detto il vero.
Lotta dura contro i vigili urbani
Durante tutto il sequestro Prima linea e le Fcc, avendo rifiutato (soprattutto PL) la richiesta delle Br di dare una mano, non compiono azioni di rilievo. Restano però attive le squadre e sono numerose le azioni di guerriglia.
Continuano le rapine, Alunni e altri tre ne mettono a segno una da 135 milioni e la sera festeggiano al ristorante cinese. Tra gli obiettivi preferiti delle Fcc ci sono i vigili urbani. Una bomba viene lanciata contro una loro l’autorimessa. Due vigili vengono chiamati per un finto incidente, Colombo, la Bellerè e altri tre, tra cui uno nuovo, Daniele Laus, un minorenne figlio di un dirigente d’azienda, li ammanettano a un cancello, li rapinano e danno fuoco all’auto.
Anche a Bologna, guidati da Bignami, fanno irruzione negli uffici dei vigili urbani.
Nella loro visione, che è poi quella dell’autonomia armata e no, è in atto un piano di capillarizzazione del controllo sociale per reprimere tutti i comportamenti antagonisti e i vigili (“ormai militarizzati come forze ausiliarie“) sono in prima linea. E sono in buona compagnia, visto che in un documento delle Fcc si elencano come agenti della repressione: “Regione, comuni, consigli di zona, i distretti scolastici, consigli sanitari di zona, commissariati, parrocchie…. “.
A dirigere questa socializzazione della repressione sarebbe Il Pci. Scrive Prima Linea: <abbiamo visto i padroni militarizzare in modo crescente le loro metropoli, moltiplicare le truppe mercenarie davanti alle loro banche e ai loro uffici, nelle lussuose vie della loro sfrontata ricchezza,… gli stessi ceti borghesi incominciano ad armarsi …. e si preparano alla guerra di classe. Il Pci copre politicamente questo processo…. esiste un apparato permanente di controllo predisposto dal Pci pronto a fornire “dossiers” all’antiterrorismo sulla rete proletaria combattente e sulle organizzazioni rivoluzionarie>.
E contro calcolatori e sabati lavorativi
Un altro strumento di controllo sono i calcolatori, che furono già un obiettivo delle Ucc. Il progetto delle Fcc di distruggere quello della Impresit-Impregilo non va in porto. Quelli di PL invece riescono a distruggere il calcolatore della Honeywel di Segrate. Mazzola, Camagni, Fagiano e un paio d’altri ammanettano il custode e danno fuoco.
PL è però più interessata alle fabbriche. Contro i sabati lavorativi, ripristinati in molte aziende, un gruppo con Bruni e Tagliaferri incendia alcuni vagoni carichi di Giuliette, distruggendone 15. Bruni ammetterà poi che, dentro la fabbrica, della loro azione, non gliene fregò niente a nessuno. Con lo stesso obiettivo, Rosso fa saltare un paio di tralicci per lasciare l’Alfa senza corrente. E le Fcc fanno un’incursione alla Philips, sequestrano custode, moglie e figlia, e appiccano il fuoco, che viene però subito spento.
A Torino tra aprile e maggio le squadre di PL compiono una rapina e lanciano bombe contro una caserma dei carabinieri. A Firenze entrano negli uffici dello Iacp e bruciano le bollette dell’affitto. Qualche settimana dopo fanno irruzione in una società di credito, bruciano gli schedari e poi mandano lettere ai debitori, informandoli che i loro debiti sono andati in fumo.
Queste sono solo alcune delle numerose azioni compiute tra aprile e maggio, tutte incruente, in parte su obiettivi “sociali” e in parte inserite in uno schema di farneticante sovversivismo anarcoide.
PL e Fcc, c’è un’altra lotta armata
Ma appena il cadavere di Moro è su tutti i giornali, il comando unificato di PL e Fcc decide che è il momento di dimostrare che a sparare non ci sono solo le Br.
Il 10 maggio Alunni, Svampa, la Bellerè e un altro aspettano davanti a casa Franco Giacomazzi, dirigente della Montedison, uno gli spara da dietro sei colpi nelle gambe. Il giorno dopo un commando di Prima linea, anche qui tre uomini e una ragazza, sempre a Milano, spara a Marzio Astarita dirigente della Chemical Bank. Seppur colpito, il bersaglio tenta di scappare e si rifugia tra due auto, ma quello che ha sparato lo raggiunge e lo colpisce ancora. A organizzare l’agguato sono Solimano e Segio, non si sa chi abbia sparato.
Le due azioni sono rivendicate con un volantino firmato Fcc-PL e anche la pistola è la stessa a rimarcare l’unità d’azione in atto. E’ la campagna contro il comando d’impresa e “le ristrutturazioni del capitale multinazioale.”
Ma l’obiettivo, dicono, è anche dimostrare che esiste un’altra e diversa lotta armata oltre le Br. E’ vero, non è l’attacco al cuore dello Stato, ma nemmeno qualcosa di così diverso e lontano dalla prassi brigatista. L’impressione è che con queste azioni si voglia dimostrare che, quanto a capacità militare e volume di fuoco, non sono inferiori alle Br.

Barbara Azzaroni
Lo dimostra il numero di azioni concentrate in pochi giorni. Il 15 maggio entra in azione il nucleo bolognese delle Fcc. Due giovani e una ragazza, Barbara Azzaroni, aspettano davanti alla Menarini, nella prima periferia bolognese, Antonio Mazzotti, il capo del personale. Lo vedono scendere dal bus, Barbara e un altro si avvicinano e gli sparano, lui cade, si avvicinano e sparano ancora. Forse era solo una gambizzazione, ma lo colpiscono anche alla pancia ed è in fin di vita. I tre fuggono su un’auto, ma un automobilista li insegue. Quelli si fermano e prendono l’inseguitore a fucilate, ferendolo leggermente. Alla Menarini lavora Paolo Zambianchi, uno del gruppo che viene dall’Azione cattolica, e spiega la scelta dell’obiettivo: <In parrocchia don Giacomo ci esortava a porci in maniera critca come cristiani nella società e a combattere l’ingiustizia>.
Il 17 a Torino PL tenta di uccidere un poliziotto. Uno scelto a caso. Francesco D’Ursi giorni prima era stato convocato in questura, qui aveva notato su una scrivania un appunto con un nome e un indirizzo. L’aveva lasciato un agente ai colleghi, siccome trascorreva la notte a casa di un’amica, per essere rintracciato in caso d’urgenza. Lo memorizza e corre a riferire a Laronga e su due piedi viene deciso di andarlo ad ammazzare. Roccazzella, 21 anni figlio di un poliziotto, ruba una vespa poi, assieme a Donat Cattin, fa da copertura. Solimano e Laronga aspettano l’uscita del poliziotto dalla casa, in sella alla Vespa. Come questo sale sulla sua 126, si affiancano e Laronga spara sei colpi con una ’38, poi fuggono. Poco dopo la rivendicazione per telefono: <Abbiamo giustiziato lo sbirro di via Salerno firmato Pl-Fcc>. Ma l’uomo non è morto, è solo ferito a un braccio.
Roccazzella però ha avuto la bella pensata di rubare la vespa a uno che andava nella sua stessa scuola, che l’ha riconosciuto. Così deve scappare. Viene arrestato in agosto in Abruzzo, assieme ad un altro piellino, dopo una rapina e seguente sparatoria coi carabinieri.
Lo spontaneismo armato
Ma ormai di pistole ne girano tante, anche fuori dalle organizzazioni armate, perchè è quel che ci vuole per prendersi quel che serve, comprese le illusioni. Lo chiamano spontaneismo armato.
Il 4 maggio due ragazzi vanno a rapinare una banca a Bologna. Uno è Roberto Rigobello, 21 anni, operaio alla Cesab, una delle tante piccole aziende meccaniche bolognesi. Non è un militante noto, è uno dei tanti che frequenta il “movimento”, uno che ha deciso di compiere “un salto di qualità politico”.
La rapina va bene, stanno scappando, ma l’altro, un romano ex di Lotta Continua, rimane bloccato tra le due porte. Roberto torna indietro per liberarlo, si attarda, arriva il 113. Scappa, spara un colpo e spara la polizia, che lo prende alla schiena, uccidendolo. Nessuna organizzazione rivendica. I genitori si rifutano di costituirsi parte civile, perchè non si fanno le rapine.
Quattro giorni dopo un’altra rapina, sempre a Bologna. Anche questa volta va male, c’è una sparatoria, una guardia e un rapinatrore restano feriti. Vengono tutti catturati, sono tre ragazzi sardi. Nel loro appartamento da studenti vengono trovati volantini con varie sigle.
I buchi alle gambe possono uccidere
Il 12 maggio le Br hanno teso un agguato all’ennesimo dirigente della Dc. Un commando guidato dalla Brioschi, a Milano, gli ha sparato cinque colpi alle gambe. Uno però ha reciso la femorale e Tito Berardini ha pochi minuti di vita. Lo salva un operaio che passa di lì, gli sfila la cravatta e gliela lega alla gamba.
Riecco i Pac
Il 6 giugno si rifanno vivi i Proletari armati per il comunismo. I Pac non sono una vera e propria organizzazione armata, ma un gruppo di compagni (poco più di venti) nato attorno ad un unico tema, le carceri, anche se poi finirà per occuparsi di negozianti. Assomiglia più ad una banda, senza particolari strutture organizzative e aperta anche a collaborazioni più o meno occasionali.
Pietro Mutti, un giovane operaio dell’Alfa che, fatta propria la parola d’ordine del rifiuto del lavoro, passa più giorni a casa in malattia che in fabbrica; un altro operaio del collettivo Alfa, che presto lascerà il gruppo; Roberto Silvi, studente universitario, tutti bazzicano il giro di Rosso e, a metà del 76, si mettono a fare qualche piccola rapina, un paio fallite.
Silvi viene da Napoli dove ha frequentato in Nap, ed è lui a proporre di raccogliere il loro testimone e di fare un giornale: “Senza galere”. Dopo le giornate di battaglia del marzo 77, attorno al giornale si raccoglie un po’ di gente. Tra questi c’è Bergamin, un insegnante di 29 anni, già attivo in Rosso, una rapinetta messa a segno nel 75. E qualcuno anche a Verona, Diego Giacomini studente universitario ventunenne e un paio di ragazze di buona famiglia. A fine anno si aggiunge un altro operaio, il sardo Sebastiano Masala, che poco dopo lascia il lavoro, e un certo Lavazza, ex lagunare, appassionato d’armi, che in cantina ha una specie di poligono di tiro. A inizio 78 il gruppo, quasi al completo, rapina un’armeria a Milano, nel bottino anche 4 fucili e poi un supermarket. Il caporapinatore è Mutti, che diventerà rapidamente un vero esperto, nella sua breve carriera ne metterà a segno 45 di rapine.
Ma è con l’arrivo di Cavallina, famiglia di religione valdese, il padre è un quotato violinista, lui un insegnante nonchè uno degli uomini di punta delle attività illegali di Rosso, arrestato nel 75 e appena scarcerato, che il gruppo acquista il suo ideologo.
Due anni e mezzo di galera hanno alimentato in Cavallina un desiderio di vendetta verso quelli che chiama lager di stato. Rielabora così la teoria, non certo nuova, della delinquenza come forma di ribellione verso il sistema capitalistico e delle carceri come luogo della più spietata repressione del proletariato.
In carcere a Udine ha conosciuto un giovane rapinatore romano, Cesare Battisti: <Un bulletto, simpatico, di intelligenza vivace, autoironico>, lo descrive Cavallina. E l’ha politicizzato, come si dice. In febbraio se lo vede arrivare a casa e chiedergli un posto dove dormire. E’ ricercato per un’altra rapina. Cavallina vive a Verona e lo sistema a casa di un’amica, Cecilia, che si è appena laureata in filosofia. Battisti è belloccio e un po’ bulletto e la ragazza se ne innamora. Ora c’è anche lui nel gruppo e fa la spola tra Verona e Milano.
Battisti, il “bulletto”

Cesare Battisti
Battisti è subito in prima fila e, assieme agli altri, rapina un ufficio postale. Ma ormai è l’ora del salto di qualità, è l’ora di sparare. In maggio, durante il sequestro Moro, Mutti, Masala e Battisti entrano nello studio del medico del carcere di Novara. E’ stato Cavallina a sceglierlo. Il medico reagisce, c’è una breve colluttazione, Masala e Mutti sparano un colpo a testa alle gambe. La colpa? “Aver partecipato a pratiche di annientamento del proletariato prigioniero“.
Due giorni dopo tocca a un altro medico, accusato di “attacco all’assenteismo operaio“. Infatti l’hanno scelto Mutti e Masala. Sta parcheggiando, in due arrivano di corsa, Silvi apre la portiera, Battisti spara, ma la pistola si inceppa e allora Silvi spara due colpi alle gambe. Enrica, la donna di Bergamin, rivendica per telefono: <Contro i medici sbirri di Stato. Contro i gendarmi diffusi / cittadini poliziotti: sindacalisti, vigili, medici, bottegai…. che si contrappongono ai bisogni autonomi di massa>. Il gruppo perde però un uomo. Silvi è rimasto traumatizzato e si ritira
Enrica Migliorati, una ventitreenne studentessa di filosofia e di famiglia agiata, i genitori hanno una boutique a Malcesine sul lago di Garda, non fa solo telefonate. Tre settimane dopo va con gli altri a rapinare un supermercato. Di certo non hanno nulla a spartire con le Br, basti dire che un’altra rapina salta perchè si svegliano tardi, dopo un’abbondante cena a casa di Cavallina.
Col sequestro Moro il tiro si è molto alzato, oramai sparare solo alle gambe è roba arretrata. E i Pac non vogliono rimanere indietro. Nel suo libro sui “lager di Stato” Cavallina scrive che le guardie dei carceri vanno annientate, a partire da Udine. E sono lui e Battisti a scegliere il primo da annientare. Qualcuno propone l’azzoppamento, ma loro insistono: deve morire. E’ il capo delle guardie del carcere di Udine, con lui c’è una questione anche personale.
Il 6 giugno Antonio Santoro esce di casa, è tranquillo, Udine è pacifica non è Milano. Su una panchina ci sono due giovani che si baciano. Lei è Enrica, ha i capelli rossi, se Santoro avesse uno sguardo attento forse capirebbe che è una parrucca. Lui è Battisti, ha barba e baffi, ma sono posticci. Appena Santoro oltrepassa la panchina i due smettono di baciarsi. Battisti si alza e gli spara due colpi alle spalle. Poi si avvicina e gli pianta due proiettili anche in testa.
Su un auto, con un canotto sul tetto per darsi l’aria di innocui vacanzieri, li aspettano Mutti e Lavazza. Se ne vanno, consegnano le armi a un’insospettabile professoressa, l’immancabile fiancheggiatrice, e raggiungono un camping a Grado. Lì c’è anche Cecilia, e Battisti eccitato le racconta che effetto fa vedere uscire il sangue dal corpo di un uomo.
Diego Giacomini, uno che Cavallina definirà “una macchina da guerra“, quando finirà in carcere confesserà di aver fatto una strana scoperta: <i malviventi non erano proletari nè rivoluzionari, ma solo delinquenti>.
Quelli del Barabba
Ma ormai si spara anche solo per provarne l’emozione, per fare colpo sui ragazzini che ti seguono. D’Ursi è un leader del circolo giovanile Barabba di Torino, anche se ha solo 20 anni. Si sente importante perchè fa il reclutatore per PL. Ha saputo che c’è un dentista, su in collina dove ci sono le case dei signori, che tiene una foto di Mussolini sulla scrivania. E così raccoglie cinque giovanissimi, che sta coltivando, c’è anche un minorenne. E, senza dir nulla a quelli di PL va a trovare il dentista.
E’ l’8 giugno, uno sta in auto, gli altri salgono. Due tengono a bada con le pistole i pazienti in sala d’aspetto, dopo essersi fatti consegnare i documenti. Lui, un altro e Rosalba, la ragazza di Biancorosso, entrano nello studio. Il dentista è uno che fa judo o karate, molla il trapano e aggredisce D’Ursi, volano pugni. Il giovane sta avendo la peggio, gli casca anche la pistola e perde gli occhiali. Grida alla ragazza: spara! Lei punta la pistola e spara alle gambe, ma gli perfora anche lo scroto. Tutti scappano. Laronga lo cazzia, per la libertà che si è preso. Ma lui è orgoglioso dell’impresa e se ne vanta con qualcuno del circolo, che poi lo incastrerà.
Ma di rapine si muore
Francesco Giuri è un calabrese di 25 anni disoccupato, lavorava alla Breda fino a pochi mesi prima, ma è stato licenziato per assenteismo. Assieme ad altri compagni dei Cocori va a fare una rapina ad una banca di Lissone. E’ lui che deve disarmare la guardia fuori dalla banca. Si avvicina, spara un colpo in aria e gli intima di dargli la pistola, quello resta fermo, spara un altro colpo ma la pistola si inceppa, allora scappa, ma la guardia spara 5 colpi che lo centrano alla schiena.
Nel pomeriggio a Milano, per vendicare Francesco vengono disarmate otto guardie giurate.
Lo stesso giorno, il 9 giugno, i Cocori hanno programmato uno dei pochi ferimenti che hanno compiuto. Alla Breda c’è questo Silini, un caporeparto energico che l’azienda usa per risolvere situazioni complicate. Ha appena ristrutturato il magazzino, riducendo il personale e trasferendo molti a fare lavori più disagiati, all’aperto. Ci sono state proteste, non è amato. Balducchi, uno dei capi dei Cocori, lavora alla Breda e pensa sia giusto dargli una lezione e che questo procurerà simpatie. In tre lo seguono sin da casa, due sull’autobus con lui e il terzo in auto. Quando Silini scende davanti alla Breda, a Sesto S.Giovanni, uno dei due, Palmero il “sergente”, gli spara alle gambe, tre colpi vanno a segno, poi l’auto li affianca, salgono e spariscono.
Morte a chi vende morte
Anche a Roma compare una nuova sigla, Guerriglia comunista, un gruppo rimasto a lungo abbastanza misterioso. Nasce tra Centocelle e il Tuscolano, una ventina o poco più, gente dell’area dell’Autonomia, qualche ex di LC e qualche malavitoso di piccolo calibro, che si sospetta persegua anche obiettivi non propriamente politici. Nascono per combattere la diffuzione dell’eroina, che sta dilangando tra i giovani. Avranno vita breve, appena un anno.
Il battesimo avviene subito con un omicidio. Il 19 giugno uccidono un noto spacciatore ed anche ex uomo di Delle Chiaie, sparandogli dentro casa dal tetto del palazzo di fronte con un fucile di precisione. La modalità è abbastanza anomala ed anche la firma. L’omicidio viene infatti rivendicato come Mpro-Nucleo Antieroina. Il Movimento proletario di resistenza offensiva (solo le Br possono inventare una sigla simile) sono piccoli gruppi di quartiere, simili alle Squadre di PL e Fcc, che le Brigate rosse stanno cercando di mettere in piedi da circa un anno, riuscendoci però solo a Roma. Questi però con le Br non c’entrano nulla. E tornano in azione il 3 novembre uccidendo un gelataio accusato di essere uno spacciatore.
Anche a Milano viene portata avanti una campagna contro lo spaccio di eroina (cosa che era già stata fatta da Rosso). A impegnarvisi è soprattutto il collettivo di via Momigliano, all’interno del quale vi sono alcuni appartenenti o vicini a Prima linea, come Coniglio. Attraverso una radio privata fanno propaganda antieroina. Vengono organizzate ronde di quartiere contro gli spacciatori. Già in maggio erano state messe due bombe in un bar e una panetteria (colpita per errore), in autunno vengono fatti attentati contre tre bar, tutti ritenuti luoghi di spaccio.
Ma le bombe non bastano. E’ Bruni, che coordina le squadre di PL, a proporre di uccidere un grosso spacciatore. Coniglio non vuole coinvolgere quelli del collettivo, allora intervengono due dall’esterno, gli inseparabili Baldasseroni e Tagliaferri. Lo aspettano sotto casa. Quando l’uomo entra nel portone, Bruni e Baldasseroni lo seguono, il secondo gli spara con una lupara. Fuori in auto c’è Tagliaferri. Subito dopo l’agguato Coniglio così descrive i due <Bruni era ancora agitatissimo, cianotico per l’emozione, Baldasseroni muto>. Il volantino di rivendicazione è intitolato “Morte a chi vende morte”.
Le condanne e la vendetta preventiva

Il commissario Esposito, ucciso sull’autobus
A Torino il processo al nucleo storico delle Br è alle battute finali. Da quando è ripreso è andato avanti spedito, ma nel rispetto di tutte le procedure. Anzi il presidente ha avuto la brillante idea di consentire ai brigatisti di contro interrogare i testi. Una mossa azzeccata che ha messo in difficoltà Curcio e Franceschini. Ormai sono rassegnati ad ascoltare le loro condanne. Le speranze riposte nel sequestro Moro sono morte dentro a un baule rosso. Franceschini, nonostante le critiche a Moretti, ha rivendicato l’uccisione di Moro con parole deliranti. Ma questa è la logica del partito leninista, i dissensi si consumano all’interno.
La sentenza è attesa per il 23, le Br vogliono anticiparla con una delle loro sentenze di morte.
Il commissario Esposito ha un presentimento e dice alla moglie: <Oggi finisce il processo, può essere che le Br vogliano festeggiare a modo loro>. Ma non pensa a sè stesso, era stato uno degli uomini di punta dell’antiterrosimo di Santillo a Torino, ma ora sta al commissariato di Nervi e si sente tranquillo, tanto che gira disarmato. Invece i brigatisti lo seguono da qualche settimana.
La mattina accompagna sempre la moglie in questura, dove lavora, poi prende il bus per Nervi. Le Br avevano pensato di ucciderli entrambi, ma poi hanno considerato che uccidendo una donna e lasciando due bambini orfani non ci facevano una bella figura.
La colonna genovese è ritenuta una delle più affidabili ed efficienti. Molto bene armata è praticamente impenetrabile, al momento quasi tutti i suoi membri sono sconosciuti. Sono poco più di quaranta, un terzo operai, un terzo studenti e il resto mestieri vari.
E’ così metodico Antonio Esposito, che è facile anche azzeccare l’autobus giusto. La mattina del 21 giugno Riccardo Dura, che si è sbarbato ed è vestito quasi elegante, sale alla fermata dopo quella dove sale il commissario. E lui, l’obiettivo, è lì, in piedi vicino alla porta di salita. Dura va invece di fronte a quella di discesa per farsi vedere da altri due, alla fermata successiva. E’ il segnale che Esposito è sul bus. Lo Bianco e Adriano, un irregolare, salgono. Adriano si mette di fianco all’autista, gli altri due si avvicinano al commissario. Poi Lo Bianco estrae la Nagant silenziata e in un attimo scarica tutti i colpi sul poliziotto. E’ il panico sull’autobus, la gente urla. Adriano grida di aprire le porte, l’autista esegue. Esposito è rimasto aggrappato al corrimano e quasi incastrato dietro la porta aperta. Dura forse pensa non sia morto, difficile con tutti quei colpi in corpo. Non è previsto che spari anche lui, deve fare solo la copertura, ma a lui piace sparare e mentre gli altri già scendono, fa ripetutamente fuoco su quell’uomo rattrapito attorno ad un palo del bus, agonizzante o forse già spirato. Poi scende anche lui, arriva un auto guidata da Nicolotti, salgono e spariscono.
La sentenza delle Br è arrivata prima di quella dello Stato, del resto è facile uccidere un uomo. Ogni omicidio è una sconfitta per lo Stato, ma la sentenza che viene letta in aula a Torino, due giorni dopo, segna una sconfitta molto più pesante per le Br.
Non tanto per il numero di condanne, 29 con 16 assoluzioni. E nemmeno per le pene, che non sono esemplari. Il massimo sono 15 anni a Curcio, Franceschini e altri due, che comunque non è poco, non essendo accusati di reati di sangue. Ma perchè si è arrivati a questo risultato senza leggi speciali, senza tribunali speciali e senza condanne vendicative. Una prova di forza dello Stato democratico.
PL e Fcc è già rottura
Appena un giorno prima della sentenza, anche PL mette in campo il suo gambizzato. Un nucleo di Napoli torna a colpire all’Alfasud, ferendo un caporeparto. L’agguato viene rivendicato a nome delle Squadre armate operaie. Contemporaneamente le Fcc del sud danneggiano due tralicci che portano la corrente alla Fiat di Cassino. E’ un attacco coordinato, ma sarà l’ultimo. L’unificazione avviata tra i due gruppi ha già i giorni contati.
La rottura nasce dal giudizio sul sequestro Moro e sulle prospettive della lotta rmata. PL rimane ferma sul suo giudizio negativo e sulla scelta della lotta armata come pratica diffusa e ancorata al conflitto sociale. Bruni va dicendo che le Br vanno battute politicamente.
Bignami si spinge ancora più in là, dirà anni dopo: <Se avessero vinto le Br, noi di Pl avremmo continuato la lotta armata, perché non si poteva consegnare una nazione nelle mani di ottusi stalinisti come quelli>. Ma lo dice anni dopo e gli va fatta la tara, visto che Bignami, a un certo punto ci farà anche un pensierino di entrare nelle Br.
Le Fcc invece si avvicinano alla linea brigatista e, forse con maggior realismo, giudicano che dopo Moro c’è una sola prospettiva: l’arroccamento militare. L’altro punto di dissenso, corollario del primo, è sul ruolo delle Squadre. PL vuole mantenerle organismo di massa, le Fcc pensano invece non ci sia più spazio per lotte a cavallo della legalità e dunque debbono essere clandestinizzate.
Le differenze tra le due organizzazioni erano emerse da subito. Alunni ad esempio era rimasto deluso dalla scarsa organizzazione di PL : <non sapevano neanche falsificare i documenti , del resto non ne avevano bisogno, usavano i loro>. Ma quella di PL è una scelta che ha i giorni contati, finirà inevitabilmente per seguire la strada indicata da Alunni. Mentre ad avere i giorni contati per le Fcc, è la loro stessa esistenza.
Un viaggio in Francia per partecipare ad un campo di addestramento dell’Eta è l’ultima occasione di un’attività comune. E’ Bignami ad avere i contatti con i terroristi Baschi, che offrono ospitalità. Vanno una decina delle Fcc e Segio per PL. Si addestrano all’uso di esplosivi e se ne tornano anche con qualche arma in omaggio.
PL, famiglia sequestrata e rapina
In più attivi dentro PL sono i torinesi. Dopo un furto di armi in casa del padre della fidanzata di uno di loro, finito con un’inseguimento dei carabinieri. Il 26 giugno organizzano una rapina alla banca dell’ospedale Martini, dove lavora come infermiere un piellino. Ci sono Laronga, la Russo, Scotoni, il comando di Torino quasi al completo. Da Milano sono venuti Coda, Mazzola e Meregalli, operaio della Marelli, già arrestato e ora libero, perchè sarà una rapina un po’ complicata. A tarda ora i torinesi più Mazzola, vestito da carabiniere, vanno a casa del direttore. Russo e Scotoni restano nell’appartamento con i familiari. Mazzola e Laronga lo sequestrano e lo portano nell’agenzia. Coda e Meregalli bloccano la portineria dell’ospedale, chiudono il custode e tutti quelli che arrivano dentro una stanza. I due entrano col direttore e prelevano 18 milioni.
Il 3 luglio, questa volta l’intero comando, perchè c’è anche Donat Cattin, più Fabrizio Giai, un valsusino che chiamano “comandante Ivan”, fanno irruzione nella finanziaria Piemonte. Sono convinti che uno dei proprietari occulti sia il Pci. Legano tutti i dipendenti e se ne vanno con documenti e i loro portafogli. Non c’è traccia di Pci.
g.g.
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