Capitolo precedente: 29) Un agguato ogni 24 ore. I trucchi di via Montenevoso

Un altro giudice ucciso

Dopo cinque mesi di silenzio la colonna romana torna a farsi viva, mirando sempre al cuore dello Stato. L’obiettivo è un magistrato e la campagna, che diverrà sempre più centrale, è quella sulle carceri. Anche perchè, se le porte delle carceri non si sono aperte in uscita, come sperato, si sono invece riaperte in entrata. Mezzo esecutivo è stato appena arrestato.

E così si è deciso di colpire un alto dirigente del ministero che sovraintenda alle carceri. Si era puntato su un nome, poi Gallinari dice che ce n’è uno più importante: Girolamo Tartaglione. E’ un nome quasi sconosciuto, ma non a Senzani, che di Tartaglione era stato un collaboratre. Ed è un obiettivo facile, sà di esserlo ma gira senza scorta, viaggia in autobus, non prende nessuna precauzione. A chi glielo fa notare risponde che tanto non c’è niente che si possa fare. E sbaglia.

Il corpo del giudice Tartaglione

Per settimane lo hanno seguito, come fanno sempre. Hanno messo a punto gli ultimi dettagli al Caffè du Parc, assieme a Gallinari (che ora, partito Moretti, è il capo della colonna). Ma questa volta le gambe non bastano.

Il 10 ottobre l’Algranati lo aspetta davanti al ministero e quando esce per andare a pranzo, lo precede col motorino, chissà se è lo stesso già usato per Moro. Davanti a casa di Tartaglione, un palazzone con 142 appartamenti, sono in quattro. Cianfanelli, entrato nelle Br da sei mesi, è in auto. Quando lei arriva, segnala che anche il magistrato sta per arrivare, allora Casimirri e Loiacono, semitravisati con cappello e baffi finti, entrano nel grande atrio del condominio e si piazzano in un angolo in ombra vicino alla scala numero tre. Loiacono ha con sè la skorpion che ha ucciso Moro. La Faranda rimane fuori, davanti al portone e quando Tartaglione arriva le passa accanto. Lui entra, attraversa l’atrio, saluta la portiera, che ha chiesto a quei due giovani chi cercassero, ma loro non hanno risposto. Fa qualche gradino, si sente chiamare, non fa in tempo a girarsi, Casimirri gli spara due colpi. Solo due questa volta, ma alla testa. L’anziano magistrato stramazza sui gradini, gli occhiali volano via. I due brigatisti prendono la sua borsa ed escono rapidamente. La portiera chiede se hanno sentito dei colpi, che sembravano spari. Loiacono calmo risponde che non gli è sembrato.

Abbiamo ucciso Tartaglione un esperto tra gli esperti, impegnato contro i proletari nei tribunali e nelle carceri”.

PL nel solco delle Br

Non passano neppure 24 ore e le carceri fanno un altro morto. Ma questa volta ad uccidere è Prima linea. E’ il primo ammazzato vero dell’organizzazione. Quelli prima erano stati frutto di scelte improvvisate sull’onda emotiva oppure accidentali, diciamo così. Questo invece è frutto di una decisione politica e per la prima volta viene rivendicato. E’ un morto che segna un punto di non ritorno.

Bruno Laronga

La vittima è Alfredo Paolella, un criminologo, che lavora al carcere di Pozzuoli ed è membro della Commissione per la Riforma penitenziaria. Al mattino il professore entra nell’autorimessa dove tiene l’auto. Alle sue spalle entrano due ragazzi, sono Laronga e Solimano, sono venuti a Napoli da Torino e Milano. Poco prima è entrata con la sua Bianchina una ragazza bionda in jeans, che ha chiesto un cambio d’olio e ora è lì che aspetta, è Susanna Ronconi. Quando Paolella sta per salire in auto, è lei a estrarre la pistola e a sparare due colpi in aria, urlando a tutti di farsi da parte. Uno dei due uomini afferra il professore e lo sbatte contro una colonna, poi entrambi gli sparano. Fuori in auto c’è Maresca, l’ex operaio Fiat, che li aspetta.

E’ un’uccisione che sorprende. Solo due mesi prima PL ha rotto con le Fcc per il giudizio negativo sulla vicenda Moro e sulla linea militarista delle Br, sempre più separata e lontana dalla lotta politica di massa. E invece decide di uccidere e nella scelta dell’obiettivo si muove nel solco delle Br, tanto che sembrano essersi coordinati (anche se non è vero): Paolella era un collaboratore di Tartaglione.

Non è chiaro se è una decisione frutto di un dibattito o dell’iniziativa di alcuni esponenti, considerato anche che PL in questo momento è priva di un vertice. Il comando nazionale sarà nominato solo a fine anno. Ne faranno parte Solimano, Laronga, Ronconi e Donat Cattin. Non c’è Segio che, deluso per la rottura con le Fcc, ci entrerà in un secondo momento. A Roberto Rosso, da poco scarcerato, viene affidato il ruolo di di teorico.

<L’omicidio, normale attività operativa>

PL dunque, contrariamente a quel che ha sempre predicato, subisce e accetta l’innalzamento del livello dello scontro e la linea omicidiaria imposta dalle Brigate rosse. <La drammatizzazione data dal rapimento Moro e l’esito tragico successivo – dirà Baglioni – ci stava portando in un vicolo cieco>. Ma Br o no questo è uno sbocco quasi inevitabile. La lotta armata si muove lungo una china che, soprattutto in presenza di un movimento sovversivo-rivoluzionario che si sta ormai spegnendo, porta in un solo posto: aumentare il volume di fuoco per illudersi di esistere.

La Ronconi, almeno in una riflessione postuma ne è consapevole: <Il dopo Moro mette in luce la miseria di una capacità di programma da parte delle organizzazioni rivoluzionarie. Nel 78 anche la mia vita di militante cambia, nel senso che i rapporti con situazioni più allargate diventano molto più radi>.

Silveria Russo

Il passaggio all’omicidio come programma non comporta grossi problemi morali. <Il problema non sussisteva – spiega Silveria Russo – Era nella logica delle cose di dover affrontare anche l’omicidio, perciò veniva vissuto come una normale attività operativa>. Dispensare morte come normalità è possibile non solo dall’accecamento di un’elementare logica politica, ma anche da una anestesia della propria coscienza che Maurizio Costa, uno che ora sta nei Cocori e presto passerà a PL, spiega così: <Noi avevamo cancellato gli uomini prima di ucciderli. … Non sapevamo nulla delle persone; credo che fosse un meccanismo di autodifesa>. E la Borelli: <ogni scelta era giustificata da una logica “politica” che, semplificando in modo pazzesco le contraddizioni della società, toglieva alle persone la ricchezza della loro personalità … abbiamo raggiunto abissi di disumanità>. Ma anche l’obnubilamento ideologico non può concellare tutto: <L’esperienza omicidiaria è molto pesante – ammette la Ronconi – anche perché c’è un attimo in cui l’altro capisce, cioè l’altro sa, tu vedi che lui sa, sono frazioni di secondo, però sono tremende>.

Il passaggio ad un livello più alto di violenza, al fondo, è una scelta dettata da una banale logica di concorrenza. Le Br con l’operazione Moro dominano ormai la scena, il loro appeal nei confronti di quelle frange di giovani attratti dall’avventura combattente è molto cresciuto. E se le altre organizzazioni non mostrano di sapere fare altrettanto, perdono valore sul mercato della lotta armata.

A proposito di concorrenza l’omicidio Paolella ha un risvolto che, se non si trattasse di una tragedia, sarebbe anche comico. Il criminologo napoletno era nel mirino anche delle Fcc del sud, quelle di Sebregondi, che lo stavano pedinando. Non è chiaro se PL lo avesse già scelto per conto suo o se lo scelga dopo aver appreso che ci stanno lavorando le Fcc. Sta di fatto che i piellini avvicinano gli altri e li dissuadono dall’impresa, spiegando che loro l’hanno studiata ed è troppo rischiosa. Quelli si adeguano e così PL gli ruba l’obiettivo.

C’è anche un’altro aspetto abbastanza sorprendente. In settembre Tartaglione, Paolella e Minervini (che pure lui verrà ucciso) avevano partecipato ad un convegno giuridico a Lisbona assieme a Senzani.

PL, Le prime defezioni

Dentro Prima linea, a Milano, affiorano anche dubbi e ripensamenti critici e maturano i primi distacchi. Libardi, uno dei fondatori, tornato in libertà, ha abbandonato la lotta armata da alcuni mesi, così come Max Barbieri uno con un curriculum di azioni armate sterminato. In maggio si era ritirato Camagni, il grande esperto di esplosivi ed anche Franco Coda, partito poi per Cuba, di lui non si avranno mai più notizie. Pure Coniglio alla fine del 78 si allontana. Impiega ancora alcuni mesi Bruni: <… Mi rendo conto che il tessuto nel quale il movimento viveva ed esisteva in questa città viene drasticamente meno; c’è un processo di disgregazione … che ha a che fare con la vita quotidiana della gente… vado a lavorare>. Ma abbandonare i compagni non è facile. Si è creato un vincolo forte, come un patto di sangue, si ha paura di essere considerati codardi o traditori. <Cominciai ad avere dei dubbi – racconta Crippa-Apache – ma ormai sei intrappolato in una macchina infernale, non hai il coraggio di uscirne. Allora me ne andai qualche mese in montagna nella casa della nonna poi a Parigi. Quando tornai a Milano fui arrestato>. E sembra che sia quasi un sollievo.

Rapinatori comunisti

Anche altri piellini hanno abbandonato la lotta armata, ma non le armi. Si sono resi conto che l’esperienza accumulata costituisce un know-how di tutto rispetto, che, nella logica della riappropriazione, può realizzare da subito la loro personalissima rivoluzione. Vale a dire fare soldi e tanti.

E’ così che tre dei primi pistoleri di PL se ne vanno o forse vengono espulsi, non è chiaro. Zanon, Stefan e De Rosa si mettono in proprio e si dedicano alle rapine. Nel nome che si danno conservano un legame con gli anni della politica: si firmano “rapinatori comunisti”. A loro tre si uniranno in seguito diversi altri transfughi della lotta armata.
Una banda aperta a chi ci vuol stare, entrano a far parte anche due che erano già nella struttura illegale di Lotta continua, Carlo e Pedrazzini-Pedro. Il secondo, sospettato anche per l’omicidio Calabresi, qualche anno dopo verrà ucciso dalla polizia francese durante una rapina.

Una decina di persone che nell’arco di un paio d’anni mettono a segno un bel po’ di rapine, alcune anche spettacolari come il 12 ottobre 78 al Banco di Napoli. Dove in due prendono la guardia giurata fuori dalla banca e la trascinano in un bar vicino. Altri due fanno sdraiare a terra tutti gli avventori del bar. Poi uno indossa il berretto della guardia e in due entrano in banca e rapinano 31 milioni. Usciti fermano un auto di passaggio, se ne impossessano e fanno fuoco su una volante sopraggiunta, bucandone le gomme.

Il reclutamento

Ma le uscite sono compensate da una nuova generazione che preme per entrare, soprattutto nelle Br. E’ gente che aveva 10 anni nel 68, che si muove dentro un orizzonte politico ed ideale non più ampio di quanto lo sia il lancio di una molotov. Ed è proprio il sequestro Moro ad ammaliarli. Ecco le parole di due reclute di PL: <Il sequestro Moro evocò, per molti come me, una immagine di forza, di efficacia, di novità…. pensai che fosse imminente il momento della rottura e della svolta>. E l’altro: «Di fronte a quell’episodio mi convinco della possibilità e della giustezza di quel percorso.… Ormai ero deciso nei confronti dell’uso delle armi>.

Sono centinaia gli arruolandi dopo la “campagna di primavera”. Persino troppi da gestire, tanto che le Br decidono di congelare una parte delle richieste.,

Eppure nell’area dell’estrema sinistra c’è anche chi mantiene una certa lucidità. Scrive il Coculo(Comitato comunista di unità e lotta), di Milano: <La teoria rivoluzionaria delle Br si riduce a … miseria teorica, miseria politica, grettezza, trionfalismo, stile stereotipato, slogan…. Ciò che viene offerto è solo cretinismo militare… moralismo giacobino, sostituzione del crocefisso con la canna del fucile e sostituzione del rispetto mistico per la purezza del martire cristiano con quello per la purezza del “combattente”. E questi compagni non si rendono conto che, facendo appello ai residui cattolici di ognuno, la voce che viene dalla clandestinità in realtà grida: vieni avanti, cretino, spara! Contestiamo un ruolo da partito di merda; e lo diciamo senza peli sulla lingua>.

Le Brigate rosse da circa un anno hanno lanciato la parola d’ordine del Mpro (Movimento proletario di resistenza offensiva). E’ il tentativo di riallacciare i rapporti e di egemonizzare l’area della conflittualità più radicale. Si tratta cioè di coagulare una rete di nuclei e di iniziative diffuse che ruoti attorno alle Br. Una sorta di anello esterno che si muove su un terreno di semilegalità e che funziona anche da serbatoio di reclutamento.

Al Nord è un mezzo fallimento, <a Torino gli studenti e gli operai non ci seguivano> dirà Peci. Ma a Roma, dopo Moro, ne sorgono un certo numero, che raccolgono alcune decine di giovani. Sono appoggiati e in qualche modo coordinati dalle Br, ogni Mpro è curato da un irregolare, ma hanno una certa autonomia. Anche gli Mpro però riducono rapidamente la loro iniziativa politica ad una mera attività militare in sedicesimo. Fanno inchieste, forniscono appoggi logstici e incendiano auto o portoni.

Tre di questi giovani mostrano di muoversi già come brigatisti esperti. Il 29 settembre fanno irruzione in casa di un colonnello dei carabinieri, sotto la minaccia delle armi lo narcotizzano e gli rubano 20 pistole della sua collezione.

E dunque succede che, in un paese dove la conflittualità sociale si è andato gradualmente riducendo, nel 79 le formazione armate, in particolare le Br, toccheranno il loro apice sia numericamente sia come volume di fuoco.

Anche l’Autonomia spara

Intanto il Fronte comunista combattente, cioè il gruppo di fuoco dei Colletivi veneti (Autonomia organizzata-Rosso-Negri), continua la sua guerra allo sfruttamento del proletariato nel luogo dove questo è più acuto: l’università. Il 20 ottobre a Padova viene ferito Giampaolo Mercanzin, direttore dell’Opera universitaria, uno dei pochi che cerca di opporsi alle violenze degli autonomi.

Il 24 ci sono due azioni nello stesso giorno. A Roma, Morucci e gli altri del fronte logistico organizzano un agguato a una volante. Chiamano il 113 con una scusa e, quando l’auto della polizia arriva, lanciano due molotov che la incendiano poi Piccioni spara con un fucile a pallettoni e Morucci con una pistola, ferendo lievemente un agente.

Un altro secondino sotto il piombo dei Pac

A Verona tornano a farsi vivi i Pac che continuano la loro guerra contro i secondini. Anche stavolta il bersaglio è stato scelto da Cavallina. Si chiama Arturo Nigro, accusato di un pestaggio “nei lager dove avviene il genocidio dei proletari irriducibili“. Le sue abitudini le hanno studiate Cecilia, la donna di Battisti, e Francesca, quella di Cavallina.

Bergamin e Battisti

Battisti e Bergamin lo aspettano sotto casa per due sere, poi Bergamin deve tornare al lavoro a scuola a Milano, e allora arriva Mutti al suo posto. La terza sera lo sorprendono quando scende dall’auto, lo fanno sdraiare a terra e Mutti gli spara. Rimarrà zoppo. All guida dell’auto c’è Tirelli, così agitato che parte a velocità folle e Mutti lo deve colpire con la pistola in testa per calmarlo.

Tra un secondino e l’altro i Pac continuano con le rapine e con qualche attentato. In sei rapinano una banca a Valdagno. Ci sono i soliti Mutti, Battisti, Giacomin, Masala, ma i testimoni raccontano di una giovane che, decisa e sicura, dirigeva l’operazione. E’ Paola Filippi, la donna di Giacomin. Una che con la pistola ci sa fare e che, assieme al compagno, è autrice di un bel numero di rapine, tanto che i giornali li chiamano Bonnie & Clyde.

Anche i Pac scoprono che i commercianti sono una specie di esercito antiproletario in armi. E il 19 novembre colpiscono il primo, mettendogli una bomba nel negozio, perchè giorni prima aveva bloccato una ragazza che aveva rubato nel negozio accanto. Assieme a Mutti e al giovanissimo Sante Fatone, c’è anche una donna non più giovanissima. E’ Marina Premoli, viaggia per i 40, viene da una famiglia ricca con villa e castello, il padre è stato senatore del Pli. Ha avuto un’infanzia dorata e un’adolescenza tormentata, una storia familiare dolorosa. Quando arriva il 68 è la liberazione e vi si getta anima e corpo. Così proiettata verso il proletariato che sposa un operaio dell’Alfa. Matrimonio poco felice. Fa la traduttrice. Ora si è innamorata di Mutti e lo segue. Gira armata, ma ha avvertito che non sparerà mai, ma le hanno detto che è meglio averla, anche solo per mostrarla.
La campagna antibottegai continua dando fuoco al furgone di un artigiano che aveva testimoniato contro gli autori di un incendio doloso di un pulman.

La strage delle ultime Fcc. Preso Sebregondi

Le Fcc sono in profonda crisi. Come spesso accade, il tentativo di uscirne è affidato ad un’azione militare clamorosa. Se l’omicidio è ormai la misura del peso politico di una formazione, devi avere anche tu il tuo morto da mettere in campo, se poi sono tre anche il peso aumenterà. E’ ancora Sebregondi ad alzare il tiro, anche se in verità le sue Fcc hanno già ucciso.

Come obiettivo viene scelto il procurato di Frosinone, Fedele Calvosa, non certo un personaggio di primo piano. Il magistrato era finito sui giornali per aver emesso un mandato di comparizione nei confronti di 19 operai. Ma questo è secondario, un magistrato si vuole ammazzare e uno si doveva scegliere.

Il gruppo di fuoco è composto da Roberto Capone, 24 anni, studente di sociologia, stimata famiglia di Avellino. Faceva parte, assieme alla sorella, di un gruppo di cattolici progressisti, che aveva dato vita ad un doposcuola per i figli degli operai, poi l’ingresso in PotOp e poi i Collettivi autonomi. Con lui c’è la fidanzata, Rosaria Biondi, 23 anni, figlia di un preside e studentessa modello, già laureata in legge a pieni voti, vive ancora coi genitori. Nicola Valentino, che sta per laurearsi in medicina. Tutti di Avellino.

Nicola Valentino e Rosaria Biondi

La mattina del 10 novembre aspettano la 128 che porta il magistrato da Patrica a Frosinone ad un incrocio. Con lui ci sono l’autista e un poliziotto. L’auto deve rallentare, appoggiati a una 125, sul lato della strada, ci sono tre ragazzi. Appena l’auto è davanti a loro, viene crivellata da raffiche di mitra. Calvosa e l’agente di scorta muoiono sul colpo, l’autista ferito riesce a scendere e tenta la fuga, ma finisce nel fosso che costeggia la strada. Uno dei tre arriva sopra di lui e gli spara un colpo in faccia. Anche le Fcc hanno avuto la loro via Fani.

In auto li aspetta la ragazza, ma quando fanno per andarsene, Capone si accascia, pieno di sangue. A colpirlo sono stati i suoi stessi compagni. Lo caricano in auto, ma le sue condizioni sono disperate. Verrà trovato dentro l’auto, qualche km più in là, morto. Ma il quarto chi era? Secondo gli inquirenti, era il nobile Sebregondi.

I carabinieri di Dalla Chiesa, attraverso delle chiavi trovate nell’appartamento di Capone, risalgono ad una Fiat 131, che viene individuata nel parcheggio della stazione di Latina. Tre giorni dopo l’agguato, un giovane apre la portiera per recuperare una borsa, con nomi e indirizzi di altri miltanti. I carabinieri appostati gli intimano l’alt, lui spara, ma viene ferito e arrestato. E’ proprio lui, Sebregondi.

Arrestato il capo, gli altri sono allo sbando. Valentino e Rosaria Biondi scappano e chiedono aiuto alle Br. Contattano Gallinari, che li manda a Torino, nell’abitazione di Andrea Coi, che al momento è militare. Ma non è stata una buona idea. Forse seguendo le tracce dei due, i carabinieri arrivano all’appartamento, arrestano Rosaria e Nicola e Coi viene ammanettato in caserma.

Sebregondi, un anno e mezzo dopo, evade dal centro medico del carcere di Parma, segando le sbarre e calandosi col classico lenzuolo. Scappa in Africa, poi raggiungerà la Francia.
Al processo, mentre gli altri due minacciano testi e giudici e si faranno tutta la galera da irriducibili, sua madre gli fornirà un alibi per quella mattina e verrà assolto. Sarà però condannato all’ergastolo per il precedente omicidio De Rosa. Nell’87 verrà arrestato, ma la Francia rifuterà l’estradizione. Dagli anni 90 è docente alla Sorbona.

Fuoco sui medici delle carceri

Il carcere è ormai il tema dominante della lotta armata, in cima agli interessi di tutte le formazioni combattenti. La fabbrica è passata in secondo piano. Lo è anche per i Reparti comunisti combattenti, che lo scelgono come obiettivo per il loro esordio.

Il 13 novembre a Milano un nucleo di cui fanno parte Marocco e Maria Teresa Zoni aspettano sotto casa il dottor Marchetti, medico a S.Vittore. Un intero caricatore, 8 colpi, viene svuotato sulle sue gambe. Le ferite sono gravi e rischia la vita, ma si salva. <Oggi le gambe a Marchetti, domani le teste di altri serpenti della medicina di Stato>, annunciano nel volantino di rivedicazione.

E PL spara agli architetti

A inizio novembre anche il comando di Torino di PL, che ora è composto da Laronga, Silveria Russo, Scotoni, Giai e anche il nuovo arrivato Bignami, decide l’avvio della campagna carceri, che consisterà in alcuni ferimenti e attentati.

La scritta lasciata sul muro dello studio di Deorsola

Il 17 novembre si comincia con un architetto, la cui colpa è di aver ristrutturato la caserma Lamarmora, dove si è tenuto il processo alle Br. E’ Giai a comandare il gruppo di fuoco. Distribuisce le armi e poi resta fuori dallo studio di Mario Deorsola di copertura, con un mitra Sten sotto il cappotto. Sono tutti giovanissimi, Giai ha 20 anni anche se è già un capo, anche Albesano e Caggegi ne hanno venti. Il primo era già stato arrestato per l’incendio del bar Angelo Azzurro (e sarà poi condannato). Il secondo è stato appena assunto alla Fiat, è figlio di un ergastolano, condannato per un sequestro di persona. Gli altri due sono Di Giacomo della squadra di Orbassano, e Mega, che ne ha solo 18.

I quattro salgono nello studio, con l’architetto ci sono due persone che vengono legate e rinchiuse. Deorsola viene portato in fondo al corridoio, fatto sedere e Caggegi gli spara quattro colpi, alle ginocchia e alle spalle. Una modalità che potrebbe avere conseguenze molto gravi, anche mortali. Deorsola è fortunato, rimarrà solo zoppo.

Spacciatori e errori

Una decina di giorni dopo ricompare la firma di Guerriglia comunista a Roma, che rivendica il ferimento di un commerciante e l’uccisione di uno spacciatore. Il 14 dicembre tornano a colpire, entrano in un locale dove ci sono due spacciatori, ma per errore uccidono un ragazzo che con la droga non c’entra.

Dicembre di sangue

Il mese comincia con una strage frutto di vera e propria follia e dell’assurda disinvoltura con cui ormai si preme il grilletto. Due piellini, due colleghi e amici che stanno sempre assieme, due vecchie conoscenze, Baldasseroni e Tagliaferri, hanno una discussione di politica in un bar con tre uomini. I due hanno bevuto un po’ troppo e i tre non sono proprio tipi mansueti. Volano insulti e minacce, poi i due piellini se ne vanno. Tornano dopo poco con un fucile e un revolver 357 magnum. In un’auto fuori dal bar ci sono i tre con cui hanno litigato. I primi due ricevono una scarica di proiettili appena scendono, il terzo è freddato all’interno dell’auto. Tagliaferri era detto “il pazzo”.
Nei giorni successivi i due terroristi lasciano l’Italia e si nascondono in Sudamerica. Non saranno mai più rintracciati.

Il dieci il Fronte comunista combattente ferisce alle gambe Vincenzo Filosa, avvocato tributarista della Confindustria. Nonostante il Fronte sia il nucleo armato dell’autonomia padovana legata a Rosso, quindi inserito in un ambito molto “movimentista”, si rivelerà il gruppo più compatto e impermebaile. Non avrà pentiti e dei protagonisti di molte azioni si saprà poco o nulla.

Il 12 dicembre i resti delle Fcc rapinano una banca a Brugherio. Tutto liscio, ma quando se ne vanno qualcuno, non si sa chi, spara e ferisce Zanetti a un piede e Rocco Ricciardi a una spalla. Cercano un medico, ma non è possibile operarlo se non in ospedale e così si terrà il proiettile nella spalla.

Anche i Cocori tornano a sparare e di nuovo in Veneto. Ma siccome i locali non sono molto attrezzati, di solito loro scelgono l’obiettivo poi da Milano vengono i soliti a far fuoco. Franco Pilla è un uomo del potere Dc in Veneto, presidente della Cassa di Risparmio di Venezia ed ex sindaco di S.Donà. Ha paura e gira accompagnato da due uomini. Ma quando il 15 dicembre arrivano due ragazzi a volto scoperto è dentro alla sua farmacia, solo, e crolla a terra con le gambe bucate.

Lo stesso giorno a Firenze viene ferito un pretore, Silvio Bozzi, addetto all’ufficio sfratti. E’ di Magistratura democratica, cioè un magistrato di sinistra, ma non conta, anzi. L’agguato è rivendicato dalle “Squadre rivoluzionarie combattenti”: <Siamo stati noi a ferire lo sfrattatore Bozzi>. Una sigla usata da quelli di Prima linea, che a Firenze hanno nel tema della casa il fulcro della loro attività.

L’eccidio di due proletari in divisa

Ma non è finita, anzi il giorno è iniziato anche peggio. Davanti al carcere delle Nuove, a Torino, da tempo sosta un mezzo della polizia con due agenti a bordo. Se ne sta li fermo, in bella vista, giorno e notte. E’ un bersaglio comodo e invitante. I due che stanno dentro sono indifesi, carne da macello. Una volta avevano un mezzo blindato, ma siccome tenevano il motore accesso per scaldarsi, hanno detto che consumava troppo. Ora hanno un normale pulmino.

Il pulmino con i due poliziotti uccisi

La notte tra il 14 e il 15 sono di turno due ragazzi di 21 anni. Si chiamano tutti e due Salvatore (Lanza e Porceddu) nomi da immigrati, nomi da famiglia povera. Ed è quello che sono, due proletari in divisa. Sono le 5 e mezza, è ancora buio e fa un freddo cane. Per fortuna il turno sta per finire. Una 128 supera il pulmino e si ferma. C’è qualcosa di strano, ci mettono qualche secondo a capire cos’è ed è già troppo tardi. All’auto manca il lunotto posteriore e da lì spuntano un fucile a pallettoni calibro 12 e una mitraglietta M12, quella della polizia, la stessa usata in via Fani. A impugnarla è lo stesso che la impugnava il 16 marzo, Raffaele Fiore, mentre il dito sul grilletto del fucile è di Panciarelli. Sul sedile anteriore ci sono altri due brigatisti, Nadia Ponti e Acella, pure loro esperti, autori di diversi agguati a Torino, il secondo è quello che ha ucciso Cutugno.

Per i due agenti è troppo tardi per salvarsi e decisamente troppo presto per morire. Una vera tempesata di piombo investe il loro pulmino. I vetri vanno in frantumi, la carrozzeria è crivellata. Vengono sparati circa 80 proiettili. Uno dei due ragazzi riesce a sparare un colpo, prima di rimanere fulminato.

Dopo un paio d’ore arriva la telefonata nello stile macabro-burocratico delle Br: <Abbiamo appena compiuto un attentato contro la scorta delle Nuove con logica di annientamento>. Tre giorni dopo in un volantino dicono che i due poliziotti, due poveracci, in polizia da neanche un anno, facevano parte di <strutture speciali con compiti antiguerriglia e di controllo militare della città>. E’ la solita fantasiosa e proterva falsificazione. Difficile dire se i brigatisti ci credano davvero o sia solo propaganda. A scrivere i volantini a Torino di solito è Angela Vai, è quella che scrive meglio dicono.
Ai funerali c’è un mare di gente. Alcuni colleghi dei morti gridano: <Siamo come conigli mandati al macello>. Il popolo e i proletari di Torino sono qui.

La settimana dopo a Roma le Br tentano un agguato fotocopia. Vogliono uccidere due polizotti della scorta dell’on. Galloni, fermi sotto la sua abitazione. Anche questa volta arrivano con una 128 guidata da Casimirri. Gallinari e Faranda sparano dai finestrini, ma il mitra si inceppa, allora sparano le pistole. I due vengono feriti, uno anche seriamente, un proiettile gli trapassa lo zigomo, ma si salvano.

Rapina fiasco dei Pac

Mancano pochi giorni a Natale e i Pac, dopo un paio di rapine e un’incursione in un posto di polizia per rubare delle divise, organizzano un grosso colpo. Hanno saputo che in una banca di Milano ci sono 800 milioni in contanti. Il piano prevede di sequestrare la moglie del direttore e, minacciando di ucciderla, farsi aprire la cassaforte. Cavallina e Giacomini, con la scusa di consegnare un pacco natalizio, si fanno aprire e irrompono pistole in pugno nell’abitazione. Ma la donna si divincola e grida, grida anche la nonna e abbaia il cane. Si apre qualche porta, i due debbono scappare. Scendendo precipitosamente le scale perdono le chiavi dell’auto. Sono a piedi, ne bloccano una di passaggio e fuggono poi l’abbandonano. Un fiasco totale con beffa, perchè sul sedile posteriore c’era un borsello con un’ingente somma, ma lo lasciano lì. Anche Battisti, Masala e Lavazza, che dovevano entrare in banca, battono in ritirata.

Bilancio

Il 78 si chiude con 39 morti e 35 feriti.
A contare più vittime è la polizia: nove morti, i carabinieri due e due le guardie. Tre i magistrati uccisi, più un dirigente d’azienda, un notaio, un criminologo e un autista. Uccisi anche tre spacciatori e quattro persone a caso. Cinque giovani sono stati ammazzati dai fascisti. Due fascisti dai rossi e uno dai carabinieri. Due ragazzi son morti durante due rapine e un terrorista è stato ucciso per errore dai compagni. Infine Moro

Tra le vittime di gambizzazioni ci sono 11 dirigenti d’azienda e due imprenditori, 4 medici e due docenti, un avvocato, un magistrato, un architetto e tre democristiani. Feriti anche 5 agenti di polizia e tre guardie.

g.g.

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