Capitolo precedente: 31) Morucci e Faranda lasciano le Br. Le spese di PL
Guido Rossa
L’agguato di PL al capoinfermiere del Policlinico di Milano l’indomani sui giormali avrà poco spazio, perchè lo stesso giorno c’è stata un’altra azione terrorista più grave e importante. Un agguato che spingerà le Br e la lotta armata giù di un altro gradino verso la loro rovina.

Guido Rossa
Guido Rossa è un operaio dell’Italsider a Genova, figlio di operai, lavora in fabbrica da quando aveva 14 anni. E’ un delegato della Cgil ed è iscritto al Pci. E’ anche un esperto alpinista, fotografo e scultore. Anni prima è stato segnato da un grave lutto, gli è morto un figlio di due anni.
All’Italsider da qualche tempo c’è qualcuno che lascia in giro volantini e opuscoli delle Br. Il Pci ha detto agli iscritti di vigilare e se scoprono qualcosa di denunciare. Rossa si è accorto che il “postino” delle Br è Francesco, uno che faceva il capoturno poi ha avuto un infarto e ora l’hanno messo a fare il fattorino. Ha 50 anni, gira per la fabbrica con una bici e questo gli consente di spostarsi liberamente. Lo chiamano il poeta della rivolta, perchè scrive poesie rivoluzionarie.
Ha chiesto di entrare nelle Br, l’hanno preso, anche se i capi hanno qualche dubbio: è uno sprovveduto, un giorno ha fatto vedere ai colleghi come si fa la stella a 5 punte con lo spray.
Rossa non ha dubbi, va denunciato, ma gli altri delegati si tirano indietro, non se la sentono di mandare in galera uno così e poi hanno anche paura. Rossa resta solo, ma va avanti lo stesso. Nell’armadietto di Franco Berardi la polizia trova volantini delle Br e un foglio con annotati numeri di targa di dirigenti Italsider, da passare ai brigatisti veri, quelli che sparano. Così il poeta della rivoluzione viene arrestato.
E’ la prima volta che un cittadino denuncia un brigatista. Le Br non hanno dubbi, è un pericoloso segnale a cui va data una risposta. In un primo momento pensano di prendere Rossa e legarlo a un cancello dell’Italsider con un cartello al collo, con scritto “spia”. Ma è troppo complicato, allora si decide di gambizzarlo. Riccardo Dura, il capocolonna, vorrebbe ucciderlo, ma gli altri, compreso l’esecutivo, non sono d’accordo: è un operaio, sarebbe un errore.
Il 24 gennaio alle 6 e mezza del mattino è ancora buio, Rossa esce di casa e sale sulla sua Fiat 850. Da un furgone scendono in due, Dura il capo colonna e Guagliardo, al volante resta Lorenzo Carpi, uno studente di medicina.
Rossa non ha ancora messo in moto che Dura gli spalanca lo sportello e Guagliardo gli spara quattro colpi alle gambe. I due si girano e se ne vanno, Guagliardo è già sul furgone, ma Dura torna indietro e spara un colpo al cuore di Rossa. Voleva ucciderlo e l’ha ucciso.

Pertini nella camera ardente
E’ l’ennesimo omicidio delle Br, ma questa volta è diverso. Hanno ucciso un operaio. Un compagno. La reazione popolare a Genova è quasi rabbiosa. L’Unità titola: “Le Br gettano la maschera, trucidato un operaio comunista”. Il Pci si mobilita, il giorno dopo un corteo di 250mila persone sfila per le strade di Genova. Dopo il funerale il presidente della Repubblica Sandro Pertini vuole incontrare i camalli del porto, lo sconsigliano, ma lui va lo stesso. Parla di fronte a centinaia di scaricatori : <Non sono qui come presidente, sono qui come Sandro Pertini, vecchio partigiano…. Io le Brigate rosse le ho conosciute tanti anni fa, ma ho conosciuto quelle vere che combattevano i nazisti, non questi miserabili che sparano contro gli operai>.
Dentro alle Br non sono poche le perplessità e le critiche, sommesse certo, non si critica a voce alta. Il comitato esecutivo, che aveva deciso per la gambizzazione, chiede spiegazioni a Dura, lui risponde nel suo stile che le spie vanno uccise. Alcuni dei vecchi in carcere avevano già giudicato Dura non all’altezza del ruolo, fanatico e violento com’è.
Qualcuno propone di espellerlo, ma si decide di no per non provocare fratture. E poi Dura è molto considerato da Moretti. Non ci saranno fratture, ma questa uccisione lascia un segno: quel po’ di simpatie di cui le Br ancora godono in alcune fabbriche, si riducono a quasi niente. L’unica cosa che cresce è il loro isolamento.

I funerali
Del resto la colonna genovese non è mai stata particolarmente operaia. Su una cinquantina di militanti, gli operai non arrivano a 20, la maggior parte son studenti. La decantata brigata Porto è composta da tre persone, il capo è Angela Scozzafava. Anche all’Ansaldo sono solo in tre, all’Italsider una decina.
Nove mesi dopo Berardi si impiccherà in carcere. Aveva spifferato i nomi di alcuni fiancheggiatori e di Enrico Fenzi, cognato di Senzani. Quando in carcere si trova di fronte il professore arrestato, decide di uccidersi. Fenzi poi verrà stranamente assolto, facendo infuriare Dalla Chiesa, e tornerà a fare il brigatista. La colonna sarà poi intitolata a Berardi, in pratica a un collaboratore di giustizia.
Morte al giudice Alessandrini
Anche Prima linea, in scia alle Br, lancia la sua campagna contro la magistratura. Tutti hanno percepito che l’aria è cambiata e che, anche i magistrati, dopo anni di torpore e, in alcuni casi, di benevola clemenza nei confronti dei pochi arrestati, stanno cominciando ad affrontare seriamente il fenomeno. E dunque il comando nazionale ha deciso di ucciderne tre, non sparando nel mucchio, come hanno fatto le Fcc con Calvosa, ma colpendo gli uomini chiave degli “apparati antiguerriglia”. I tre sono Caselli a Torino, Tricomi a Firenze e Alessandrini a Milano.

Emilio Alessandrini
In precedenza PL aveva progettato e quasi attuato l’omicidio di un altro magistrato a Firenze, PierLuigi Vigna. Donat Cattin era anche riuscito per tre volte ad avvicinarsi a lui, pistola in pugno, per sparargli. Ma non aveva trovato il momento opportuno, a volte quel momento è difficile da trovare.
Ma ora a a Milano è tutto pronto per colpire il primo obiettivo.
Emilio Alessandrini è un giovane magistrato, ma molto noto. Anzi è un simbolo, il simbolo di quella piccola porzione di magistratura coraggiosa, perchè non prona al potere. E’ stato lui che ha smascherato il complotto degli Affari riservati del Viminale, che aveva incastrato l’anarchico Valpreda per la strage di piazza Fontana; lui ha fatto saltare i depistaggi di carabinieri e servizi segreti e di parte della magistratura per proteggere i veri autori della strage e sempre lui ha portato alla sbarra i fascisti di Ordine nuovo.
E’ un magistrato molto capace e intelligente e questo è un problema, perchè ora gira voce che stia indagando sulla lotta armata milanese. In realtà Alessandrini non sta indagando, è vero però che ha sollecitato un approccio di ampio respiro nella lotta all’eversione, considerata come fenomeno unitario.
Ed è doppiamente pericoloso, perchè è un progressista e questo, agli occhi delle masse, finisce per dare una patente di democraticità alla repressione. Non è un’idea nuova, i riformisti per di più se efficienti, sono più pericolosi dei fascisti, perchè confondono le idee su chi sia il vero nemico. Era già la teoria del “socialfascismo” sostenuta da Mosca negli anni ’20.

Sergio Segio
Che Alessandrini per tutta la sinistra sia una specie di eroe non è un problema insormontabile. Dentro PL ci sono molte perplessità su questa scelta. Il dibattito va avanti da diverse settimane, proprio per le obiezioni sollevate da alcuni militanti, ma alla fine il comando nazionale decide di eliminarlo, all’unanimità.
Lo seguono e lo studiano da prima di Natale. Non ha scorta ed è abbastanza incredibile, perchè in settembre nel covo di Alunni sono state trovate tre sue foto. E’ chiaramente un obiettivo, ma la scorta non ce l’ha. L’unico problema è che al mattino esce con il figlio piccolo, che porta a scuola. Viene così scartata l’dea di sparargli sotto casa, che è la cosa più comoda. Si scarta anche l’idea di sparargli quando torna all’auto, dopo aver lasciato il bimbo a scuola, c’è troppa gente. Segio, che segue la sua auto in motorino, ha individuato due semafori dove deve fermarsi. Quello è il posto giusto.
La mattina del 29 gennaio sono in cinque. Russo Palombi (l’ex operaio dell’Alfasud trasferitosi a Milano) al volante della 128. Di copertura ci sono Michele Viscardi (un ex operaio 23enne di Bergamo, alto e magro con i rayban, di politica ne mastica poca, l’hanno preso nel gruppo di fuoco, perchè ha dimostrato di saperci fare con la pistola) e l’esperto Mazzola (uno che ha partecipato a decine di azioni fin dal primo giorno). Segio, il capo militare, e Donat Cattin, uno dei capi politici, hanno il compito di sparare. Sono tutti a viso scoperto, solo Segio si è tinto i baffi biondi con un tappo bruciacchiato

Marco Donat Cattin
Tutti hanno giubbotti antiproiettile, una bomba e due armi a testa. Viscardi ha uno Sten sotto l’impermeabile. Segio e Donat Cattin una 357 magnum e una calibro 38. Appena la 850 col magistrato si ferma al semaforo, Mazzola e Viscardi si portano in mezzo alla strada e bloccano il traffico. Gli atri due si avvicinano all’auto. Alessandrini non si è accorto di nulla, vede solo un ombra accanto al finestrino, che è già diventato una pioggia di schegge. Spara prima Segio tre colpi, perchè lui è esperto e freddo. Poi si scosta e cede il bersaglio a Donat Cattin, che non ha mai ucciso e ne farebbe volentieri a meno. Ma non ci vuole molto per colpire quell’uomo già coperto di sangue. Infila la mano nel finestrino e spara anche lui, l’ultimo colpo alla testa da una ventina di centimetri.
Appena i due hanno finito il loro lavoro. Viscardi lancia un fumogeno, dovrebbe lanciarlo anche Mazzola, ma con i guanti non riesce a strappare la linguetta. La gente fugge terrorizzata, pensa sia una bomba. Poi tutti e quattro salgono sulla 128 e se ne vanno. E’ previsto che la fuga prosegua in bus, ma se tarda sono pronte cinque biciclette, rubate nei giorni precedenti. Mazzola, che fa il postino, arriva tardi al lavoro.
Alessandrini, colpito da otto proiettili al capo e ai polmoni, muore sul colpo.
La rivendicazione, scritta come d’abitudine dall’ideologo di PL Roberto Rosso, spiega che è stato colpito Alessandrini perchè: < è uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito a rendere efficiente la procura di Milano…. stava mettendo in piedi una banca dati sulla lotta armata>. E ancora: <Con la sua adesione ideologica al compromesso storico è diventato una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare e giudiziaria….alcuni magistrati accettano di assumersi responsabilità dirette, di costituire e dirigere strutture di guerra>. Sono le tesi che i brigatisti già sostenevano nel 74. La narrazione di una guerra scatenata dallo Stato dalla quale difendersi, pur avendo proclamato loro la guerra civile, è evidentemente una necessità imprescindibile

Il cadavere di Alessandrini
Silveria Russo anni dopo cercherà di spiegare: <Questi uomini rappresentavano per noi molto più “il cuore dello Stato” che non i politici, per l’intelligenza e le capacità che gli riconoscevamo. Erano loro i veri simboli da abbattere, perché più pericolosi>.
La crisi di PL a Milano
L’omicidio viene fortemente criticato da tutta l’area dell’estrema sinistra. Ma riaccende discussioni e critiche anche all’interno di PL. Tanto che si decide di diffondere un documento più corposo per spiegare ulteriormente la scelta fatta. Documento scritto da Solimano e D’Elia, che ricalca sostanzialmente il volantino. Ma senza grossi risultati, come ricorda Donat Cattin: <Al termine del dibattito si manifestarono grosse difficoltà da parte di molti compagni a riconoscersi nella Organizzazione. E questa fu anche la mia esperienzaa. A Milano fino a maggio non si fece più nessuna azione …. Allo sbandamento, seguirono varie spaccature…. a Milano, dopo l’estate, delle strutture originarie di PL non esisteva quasi più nulla>. Anche lo stesso Mazzola si ritira adducendo ragioni familiari.
Prima linea che aveva sempre predicato una lotta armata dentro al movimento, si è ficcata con questa sciagurata scelta, in un buco, isolata dalla propria area di riferimento. Ricorderà Forastieri, che era nel comando milanese: dopo Alessandrini <c‘è la disgregazione più assoluta: vi è un gruppo di fuoco che marcia per conto suo>. La Russo, che torna a Milano in aprile: <trovai una situazione di totale sfascio>. E Laronga: <la rete proletaria, la famosa acqua in cui nuota il pesce, si era assolutamente ristretta>. Ma solo uno dei capi maturerà un’analisi politica che porterà alla rottura.
Il progetto di uccidere Tricomi e Caselli viene abbandonato.
A distanza di pochi giorni le Br e Prima linea hanno compiuto due azioni dagli effetti molto simili. Due azioni dettate dalla paura, dalla speranza di bloccare un cerchio che inizia a stringersi, anche se ci vorrà ancora molto per porre fine alla spirale di sangue. Ma che produrranno effetti opposti.
Avvertimento a sorveglianti e suore
Il dissidio tra Torino e Milano non si è risolto, tanto che i torinesi non distribuiscono i l’opuscolo su Alessandrini e continuano la loro campagna sulle carceri, mettendo a segno due ferimenti in due giorni. Anche questa volta le vittime sono scelte su segnalazione di Manina. L’1 febbraio Giai, D’Ursi e Matta, mentre Albesano sta in auto, aspettano Romano Grazio, medico delle “Nuove”, all’uscita dal suo ambulatorio. Giai gli spara sette colpi alle gambe, ma lui riesce ugualmente a salire in auto, allora interviene D’Ursi che gli spara un altro colpo dentro l’auto, spezzandogli il femore.
Il giorno dopo l’obiettivo è Raffaella, una sorvegliante del carcere. Per una donna si sceglie un commando tutto femminile. Da Napoli è venuta la Ronconi, poi ci sono la Russo, Barbara Azzaroni e Florinda Petrella. Le sparano sei colpi appena esce di casa, ma solo uno va a segno in un gluteo.
Nel volantino scrivono: <Sorveglianti, suore e assistenti sociali devono stare attente. L’attacco contro di loro sarà calibrato alle loro responsabilità>
Arresti ed evasioni
Marocco, Kocis e Bonato, (22 anni, operaio all’Ire di Varese), tutti e tre dei Reparti comunisti, stanno studiando una rapina nel cremasco. Sono a bordo di una 500 quando una pattuglia di carabinieri fa segno di fermarsi, loro tirano dritto poi si fermano dopo un breve inseguimento. Ma, appena scesi, sparano ai due militari ferendoli. Kocis scappa per i campi poi blocca un’auto, se ne impossessa e sparisce. Gli altri due invece fuggono con l’auto dei carabinieri.
Dopo qualche ora altri carabinieri li arrestano mentre mangiano in una trattoria. I Reparti perdono così il loro capo. Non per molto però, un anno dopo entrambi evaderanno dal carcere e riprenderanno il loro posto.
I Pac, morte ai commercianti
A Milano l’area che gravitava attorno a Rosso si va disgregando, e così la lotta armata diventa anche faccenda di microgruppi di amici, di cani sciolti.
Memeo e il suo amico Gabriele Grimaldi, uno della Milano bene, figlio di una scrittrice e dirigente della Mondadori, vedono nei Pac un gruppo col quale si possono combinare un po’ di cose. E’ un gruppo aperto e senza troppe discriminanti politiche. Anche tre del collettivo della Barona, (uno è il fratello di Sebastiano Masala, un altro, Sante Fatone, ha solo 18 anni), chiedono ai Pac di aggregarsi.
Il 6 gennaio si tiene una riunione nella villa della Premoli, sul lago di Grada, che sancisce il loro ingresso, ma anche una rottura in seno al gruppo. Infatti Cavallina e Bergamin non vengono invitati. Mentre questi due vogliono rimanere legati al tema del carcerario e lasciare libertà d’azione ai vari membri. Gli altri vogliono invece allargare il campo di intervento, puntando sui commercianti, e dare una maggiore organizzazione ai Pac.

Giuseppe Memeo
Non si arriva a una scissione, ma a una divisione di obiettivi. Battisti, Memeo, Grimaldi, Masala, Giacomini e Filippi e quelli della Barona si occupano di commercianti. Cavallina, Mutti, Bergamin, Lavazza, Premoli di magistrati. In concreto di uccidere il giudice De Liguori, il nome l’ha proposto Cavallina, ancora una volta scelto per un rancore personale.
Nel frattempo si continua con alcune rapine. Il 24 si va a svaligiare l’armeria Tuttosport a Bergamo. L’idea è stata di Memeo e Grimaldi, anche perchè hanno saputo che ci stanno pensando anche quelli di PL, così gli fregano l’obiettivo. La lotta armata è fatta anche di queste piccole gare per primeggiare.
I due ideatori più Mutti e altri due legano e imbavagliano i tre presenti e se ne vanno con un grosso bottino: 46 pistole e 15 armi lunghe più 7000 cartucce. Memeo è sempre stato un po’ esibizionista e organizza una specie di esposizione delle armi per stupire gli amici. Quando si procede alla divisione, metà a lui e Grimaldi e metà ai Pac, nasce una discussione e viene chiamato Ferrandi-Coniglio, al quale evidentemente è riconusciuta una certa autorevolezza, a dirimerla.
Intanto si sfogliano i giornali alla ricerca di notizie su qualche commerciante che abbia reagito di fronte a una rapina. Perchè la teoria, già elaborata da Prima linea, ma accolta un po’ da tutti, è che i negozianti si sono armati e hanno messo in piedi un apparato militare per colpire i proletari che cercano di riappropriarsi di un po’ di ricchezza.
Torreggiani e Sabadin
Per diversi giorni sui giornali si è parlato di una sparatoria in una pizzeria, dove alcuni banditi hanno cercato di rapinare un gioielliere, Pierluigi Torreggiani. L’uomo, assieme ad un amico, entrambi armati, avevano reagito. Ne era nata un’assurda e tragica sparatoria, che aveva portato alla morte un rapinatore e un cliente, ferito un altro cliente e lo stesso Torreggiani. Alcuni giornali etichettarono il gioielliere come giustiziere e sceriffo. Dunque un obiettivo perfetto, anche se a uccidere il bandito era stato l’amico e anche se Torreggiani è in realtà un uomo buono e generoso: ha adottato tutti e tre i figli di una vedova morta durante il comune ricovero in ospedale.
Negli stessi giorni un macellaio, in un paesino del veneziano, aveva ucciso un rapinatore entrato nel suo negozio. Un altro che deve pagare. I Pac decidono di ucciderli entrambi, lo stesso giorno.
Due giorni prima però il gruppo di Cavallina e Mutti ha un ripensamento, per una valutazione politica e non morale: <l’omicidio poteva non essere recepito>. Convocano una riunione per proporre il ferimento anzichè l’omicidio, ma i quattro che debbono uccidere Torreggiani, Terrone, Grimaldi, Masala e il giovane Fatone, non si presentano. Masala manda il fratello a dire che la decisione ormai è presa. Battisti si rifiuta di ridiscutere <non mi interessa la vostra opinione>.

Gabriele Grimaldi
Il 16 febbraio è il giorno scelto per la condanna a morte. A Torreggiani, che ha ricevuto minacce, è stata assegnata una scorta, ma quel giorno deve occuparsi di una rapina. Mentre sta andando al negozio assieme ai due figli, due ragazzi che camminano pochi passi avanti a lui si voltano e sparano. Il primo a fare fuoco è Memeo, ma i proiettili si conficcano nel giubbotto antiproiettile che Torreggiani indossa. Sapeva che prima o poi sarebbe capitato, in tasca ha la pistola col colpo in canna, la estrae e spara. Ma intanto viene colpito a una gamba e cade, spara ancora, ma colpisce il figlio quindicenne alla schiena. Grimaldi si avvicina, mira alla testa e l’uccide. Il figlio vivrà tutta la vita su una carrozzina.
Lo stesso giorno in due, Battisti e Giacomini, con barba e baffi, entrano nella macelleria di Sabbadin. La donna di Giacomini, Paola Filippi (noti come Bonnie & Clyde) anche lei con barba e baffi, aspetta in auto. Nel negozio ci sono alcune massaie, ma non importa. Giacomini estrae una pistola da una borsa e spara due colpi, Sabbadin crolla a terra, poi gira dietro il banco e lo finisce con un colpo in testa. Giacomini, che ha 21 anni, a quanto racconterà, rimane molto turbato da quell’uccisione e da quel momento si rifiuta di fare altre azioni contro le persone.

Lino Sabbadin
<Abbiamo colpito gli agenti della controrivoluzione – scrivono nella rivendicazione – Solidarietà alla piccola malavita che con le rapine porta avanti il bisogno di giusta riappropriazione del reddito e di rifiuto del lavoro>. Dichiareranno poi che l’azione era tesa a <conquistare l’egemonia politica sulla piccola malavita, altrimenti destinata a finire sotto l’egemonia della grande malavita storicamente intrallazzata con il potere del capitale>. Peccato che la fallita rapina in pizzeria era stata opera di un gruppo di mafiosi venuti da Catania.
Dopo l’agguato a Torreggiani un cittadino ha seguito casualmente l’auto dei killer, li ha visti trasbordare su una Renault e ha preso la targa. L’auto risulta essere della madre di Sante. La sorella e la nipote, interrogate, fanno i nomi di Mutti e dei fratelli Masala come gente del gruppo. Uno di questi, Sisinio, fa i nomi degli autori dell’agguato. Sante scappa e trova rifugio a casa di Silvana Marelli, la traduttrice che già aveva avuto un ruolo di primo piano in Rosso. Una casa molto signorile al centro di Milano.
Un altro morto
Una settimana dopo, l’ennesima rapina dei Cocori, o meglio dello spezzone che, dopo la separazione, fa capo a Balducchi, si conclude con un morto. Rosario Scalia, la guardia giurata che sorveglia la banca di Barzanò, non si lascia disarmare dai tre ragazzi entrati nella banca, reagisce, ma uno dei tre spara. Una che non aveva mai sparato un colpo fino a quel momento. La guardia cade, ma tenta ancora di reagire e altri quattro colpi la finiscono. I tre fuggono senza bottino.
g.g.
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