Capitolo precedente 32) Le uccisioni di Rossa, Alessandrini e Torreggiani
Il fallimento del “compromesso storico”
Nella seconda metà del 78 nella maggioranza di unità nazionale sono cresciute le tensioni. Il Psi di Craxi ha proseguito la sua operazione di ricollocamento, accentuando critiche e attacchi al Pci, alle sue radici, alla sua storia, ai suoi legami con Mosca. E ha trovato una sponda in gran parte della Dc, che vede nella linea craxiana i segnali di un possibile ritorno al centro-sinistra.

Berlinguer a Torino
A questo si aggiunge che le politiche di austerità, che l’appoggio del Pci e del sindacato hanno reso possibili, non si sono accompagnate a misure di giustizia sociale. I risultati ci sono stati, l’inflazione si è dimezzata, ma a pagarne il prezzo sono stati i lavoratori e politicamente il Pci. <L’onere del risanamento – ha avvertito Berlinguer – non può essere sopportato unicamente dalla classe operaia …. bisogna che la Dc si decida. I grandi patrimoni, i grandi evasori vanno finalmente colpiti». Ma non ha avuto risposta.
Il Pci non può rimanere nella maggioranza, non decidere nulla e pagare i prezzi politici. Berlinguer chiede allora di entrare al governo. Ma la risposta è un no secco. Gli Usa hanno posto il veto, ma lo stesso Moro aveva assicurato che mai i comunisti avrebbero messo piede nel governo. I comunisti stanno bene lì, in mezzo al guado. Ma il Pci non può continuare a tenere in piedi il governo e a garantire la pace sociale, senza avere nulla in cambio. E così nel febbraio 79 esce dalla maggioranza e il governo cade. Il compromesso storico è fallito.
Le Br ammutolite
Dal 9 maggio, quando hanno ucciso il presidente della Dc, le Br sono rimaste mute, disorientate e incapaci di un’elaborazione politica, anche solo di fare un bilancio dell’operazione Moro. Non hanno pubblicato una riga degli interrogatori e hanno cancellato l’argomento.
Deve essere il nucleo storico, ancora una volta, a cercare di supplire a questa incapacità. In febbraio esce dal carecere un opuscolo, scritto da Curcio, che traccia un bilancio politico.
E’ un bilancio trionfalistico. Le Br si appropriano della crisi di governo. Sostengono che: <con l’operazione Moro, si è disarticolato il progetto di ritrutturazione del regime nella crisi. Il progetto di un nuovo regime politico… costruito attorno all’abbraccio tra Dc e Pci…. cuore del Sim…. si è andato sfaldando….abbiamo raggiunto il nostro obiettivo>.
Ancora una volta l’analisi delle Br è completamente sballata. La fine del compromesso storico non è merito loro. Anche se l’eliminazione di Moro ha pesato, la crisi dell’unità nazionale era scritta nelle cose. Ma soprattutto essa non coincide affatto con una crisi di regime, al contrario con un suo rafforzamento. Lo spiraglio per una modifica dei rapporti di potere politici e sociali si è ormai richiuso. Non solo a livello politico, ma nella società, nelle fabbriche da cui le Br sono sempre più fuori e dove sindacati e lavoratori sono avviati verso un indebolimento che porterà alla loro sconfitta storica.
Ma di questo le Br non possono accorgersi, muovendosi in una realtà parallela, così come tutte le altre formazioni combattenti.
Nel documento affiora la critica, che da tempo il nucleo storico ha sviluppato, alla progressiva chiusura verso il movimento di massa, che gli attuali capi non hanno saputo evitare. E’ pressante infatti l’invito a sviluppare le organizzazioni di massa, cioè i famosi Mpro. Per il resto il documento rirpopone la vecchia strategia: attacco alla Dc e a tutti gli apparati di controguerriglia, dalle forze dell’ordine, alla magistratura, al carcere.
L’Angelo insanguinato
Il Pci è l’unico partito impegnato in prima persona nella lotta al terrorismo. Dopo l’uccisione di Rossa, a Torino viene deciso di diffondere un questionario, nel quale si chiede ai cittadini di segnalare fatti e persone che possano essere collegati ad atti terroristici.
L’iniziativa viene criticata dalla sinistra “garantista”, che parla di “caccia alle streghe”. Non entusiasma la Cgil e viene attaccata dalla Cisl. Il Pci di rimando accusa la Fim-Cisl, nelle cui fila si sono mimetizzati diversi “estremisti e qualche “armato”, di non combattere il terrorismo. La cosa ovviamente non piace alle Br e a Prima linea, le due organizzazioni attive a Torino. Ma è la seconda a decidere di rispondere e naturalmente alla sua maniera.
L’inchiesta preoccupa sia perchè può produrre qualche informazione pericolosa, ma soprattutto perchè si inserisce nella guerra che il Pci ha dichiarato alla lotta armata, in particolare a Torino. Non c’è solo il questionario, ci sono le decine di assemblee contro il terrorismo organizzate nei quartieri e c’è l’attacco alle frange più radicali nelle fabbriche. E questo fornisce un retroterra politico e di massa all’antiterrorismo. <Pecchioli – dicono – è di fatto l’alter ego di Dalla Chiesa e il suo lavoro garantisce ai carabinieri l’intelligenza e la copertura politica di fronte alle masse>.
L’obiettivo di PL è un certo Zaffino, presidente di un comitato di quartiere che per primo ha diffuso i questionari. Tutte le mattine verso le 9 va ad aprire la sede del Comitato e dunque lo aspettano lì davanti in quattro. L’agguato dovrà essere rivendicato dalle Squadre, perchè deve apparire come una reazione dal basso, la chiamano azione di combattimento proletario. In realtà due sono membri del comando torinese, Giai e Barbara Azzaroni e solo gli altri due sono della squadra di Orbassano, Caggegi ed Eric. I primi tre debbono entrare nella sede di quartiere, mettere alla gogna Zaffino, sparargli alle gambe e poi dar fuoco al suo ufficio e ai questionari. Eric deve rimanere fuori a far da autista e da copertura con uno Sten e quattro caricatori in tasca.

Il corpo di Barbara Azzaroni
Aspettano la loro vittima per tutta la mattina, ma non arriva. Così tornano il giorno dopo, il 28 febbraio. Fa molto freddo per cui si danno il cambio, due stanno nella piazzetta ad aspettarlo e due dentro un bar a scaldarsi. Ma sono già le dieci e Zaffino non si vede. Quei quattro che vanno e vengono dal bar e stanno lì ad aspettare sono stati notati dal tabaccaio di fronte al bar, che si ricorda di averli visti anche la mattina prima. Non saranno per caso terroristi? Il clima a Torino è questo. E allora chiama la polizia.
Dentro al bar dell’Angelo ci sono la Azzaroni e Caggegi, hanno cappotti di due misure più grandi, perchè sotto deve starci il giubbotto antiproiettile e due pistole a testa. Barbara ha a tracolla una borsa di tela a fiori e ha appena chiesto un succo di frutta, quando nella piazza arrivano due volanti, senza sirene. Ma gli agenti entrano in un altro bar e in una pasticceria. Allora Giai manda Eric dentro a dire ai due di andarsene. Loro però si attardano per pagare il conto.
Quando si girano verso l’uscita due poliziotti sono già entrati pistole in pugno. A Torino si gira così, non vogliono più farsi sorprendere impreparati. Chiedono ai due i documenti, ma entrambi impugnano le pistole, sono le stesse con cui è stata uccisa la guardia Lorusso. Un agente si getta su Caggegi, ma questi fa in tempo a sparare e colpisce l’altro poliziotto a un gluteo e all’inguine. Barbara resta immobile con la pistola in pugno. Il poliziotto ferito risponde al fuoco, svuotando l’intero caricatore sui due. I giubbotti non bastano, perchè vengono colpiti anche quando sono già a terra. Muoiono sul colpo, uccisa lei da sei proiettili e lui da sette. Gli altri due che stavano fuori si sono già allontanati.
Per PL è un grosso choc, per la prima volta due militanti sono lì per terra, con gli occhi svuotati dalla morte. Uccisi dalla polizia. E una è Barbara, l’ex maestra d’asilo, molto stimata e amata dai compagni. E’ fuori di sè e assetato di vendetta il suo ex compagno, Bignami. Giai è sconvolto, dice di non aver dormito per giorni tenendo in mano la pistola e finendo per sparare contro il muro.
E’ una rabbia poco lucida che trova sfogo nel volantino del giorno dopo: <Sono caduti per mano degli sbirri la compagna Barbara Azzaroni “Carla” e il compagno Matteo Caggegi “Charlie”. Sono caduti in battaglia da comunisti, rispondendo al fuoco di quaranta agenti arrivati sul posto con la ferma intenzione di uccidere…. presto, forse più di quanto questi maiali credono, arriverà un conto lungo e salato da pagare… contro le truppe armate dello stato, contro le sue spie e i suoi servi, non c’è che una parola “GUERRA”!>.
Eh sì, ma la guerra non è un gioco, ora è chiaro a tutti, si può muorire. Un dirigente della Digos commenta: <Ggli apostoli della lotta armata hanno cominciato a rendersi conto che le pallottole non vanno in una sola direzione>.
Eppure per loro è inconcepibile, non accettano il fatto che, se dichiari guerra a qualcuno, questo possa anche rispondere al fuoco. Per loro quando muore un compagno è sempre un’esecuzione a sangue freddo; la polizia non ha sparato perchè attaccata, è entrata nel bar per uccidere; i poliziotti erano due, ma nella loro versione sono quaranta; e il fatto che loro fossero lì per sparare a un povero cristo un dettaglio insignificante.
Ai funerali tanti giovani
A Orbassano ad assistere al rito religioso per Caggegi, morto a 20 anni, ci sono centinaia di giovani: militanti dell’autonomia, ex compagni del Settantasette e gli amici del quartiere. Non sono militanti della lotta armata e lo scrivono in un volantino anonimo, ma sono lì: <La scelta di Matteo, quella della lotta armata contro i padroni, non pregiudica certo il nostro dolore e la nostra rabbia per la sua morte; non intendiamo nasconderci, come oggi fanno troppi compagni, dietro il silenzio, solamente perché è morto con una pistola in pugno… Matteo era e rimane per noi un comunista!>.
A Bologna sfila per le vie del centro un corteo di duemila persone, con le bandiere rosse. <Barbara è stata assassinata – si legge nel volantino firmato “Movimento” – mentre combatteva questo Stato…. L’hanno costretta alla latitanza, alla clandestinità nella quale ha continuato, in altre forme, la stessa battaglia….. Per noi compagni di Bologna, Barbara non era per nulla clandestina. La conoscevamo e la stimavamo tutti>.
Molti si sorprendono che ci sia tanta gente ad onorare una “terrorista”. Prima linea scambia quella folla per consenso alla lotta armata, centinai di giovani pronti ad impugnare il fucile di Barbara e Matteo, come scrivono in un volantino.
Ma non è così. I giovani sono lì perchè Barbara era molto conosciuta e da molto prima che prendesse le armi e perchè due compagni sono stati uccisi dalla polizia. Questo è quello che conta, la parola compagni prevale su tutto. E’ una parola che, dal 68 per un’intera generazione e per quelli che poi son venuti, è carica di un significato enorme, che travalica tutto. Un compagno è un compagno, anche se sbaglia. E se la polizia lo uccide si va al suo funerale. Comunque è certo che, se non c’è adesione, non c’è neppure condanna. Poi c’è la narrazione degli sbirri spietati e assassini e del martirio dei combattenti, che tutta la stampa dell’Autonomia fa propria e diffonde E’ una narrazione che fa presa, indigna e fa crescere la compassione e la solidarietà.

Il corteo a Bologna
Nei giorni successivi i torinesi fanno progetti di rappresaglia, sino a ipotizzare un attacco con armi pesanti alla questura.
Laronga a Bignami vanno a Milano per incontrare Segio, Donat Cattin e Rosso. Anche questa volta debbono fare i conti con una critica alla loro scelta di sparare a Zaffino, anche da parte del gruppo di Firenze. Tanto che Bignami sbotta: se non vi va bene ve ne potete anche andare da PL.
Il comando nazionale non è comunque in grado di gestire la situazione. Di placare le menti offuscate dal desiderio di vendetta e di ripristinare un ragionamento politico. I torinesi vogliono vendetta e subito e agiranno comunque da soli. Alla fine i milanesi riescono solo a dissuaderli dall’idea folle di un assalto alla questura. Ed anzi danno una mano, Segio si fa prestare dal gruppo di Costa e Palmero, che sta per entrare in PL, uno dei kalashnikof comprati in Libano, e lo dà a Laronga. .
La vendetta uccide un ragazzo di 19 anni
Son passati nove giorni e la rappresaglia è pronta. Ad agire è l’intero comando torinese. Sono quasi le due, Bignami, Giai e Scotoni entrano in un bar di via Millio, scelto come luogo dell’agguato. Legano e imbavagliano le sei persone presenti e le chiudono nel retro, dove rimane Scotoni a sorvegliarli. Gli altri si mettono dietro il bancone, oltre alle pistole hanno un fucile a pompa. Bignami chiama il 113: abbiamo acciuffato un ladruncolo, venite a prenderlo. Fuori ci sono Laronga con il kala e Silveria Russo con uno Sten, così da prendere tra due fuochi la polizia. Nell’attesa dell’arrivo degli agenti vengono sparsi nel locale volantini commemorativi di Azzaroni e Caggegi
Arriva una volante, un agente rimane accanto all’auto, due entrano nel bar e chiedono: <cos’è successo?>. Il piano è di farli andare nel retro, dove sarebbe il ladruncolo, e sparargli alle spalle. Ma Bignami è sovreccitato e perde il controllo. <Ecco cosa è successo> risponde e spara quando i due sono ancora sulla porta. Un poliziotto è colpito al ventre, ma con un balzo riescono entrambi ad uscire. Allora tocca a Laronga e alla Russo aprire il fuoco. Ma mirare con quelle due armi non è facile. Tutti e tre I poliziotti si buttano dietro ad alcune auto parcheggiate. Da dentro sparano anche Bignami e Giai. Una vetrina va in frantumi. La Russo spara anche sotto le auto, per colpirli. Anche un poliziotto spara, un altro viene ferito ad una gamba, il terzo scappa sotto le raffiche ed è fortunato, perchè si ritroverà con la giacca e i pantaloni bucati, ma illeso.

La vetrina del bar crivellata di colpi
Chi invece viene colpito da più proiettili, alle gambe e a un polso, è Laronga, ma a ferirlo è stato lo Sten della sua compagna. Sono stati sparati 59 proiettili. Quando la sparatoria finisce, a terrà c’è un corpo. E’ un ragazzo di 19 anni, Emanuele Iurilli, che stava tornando a casa da scuola, si è trovato in mezzo alla sparatoria e si è rannicchiato dietro un auto, ma non è servito, un colpo di di kalashnikof l’ha fulminato.
La vendetta si è trasformata in un disastro totale. Per fuggire non possono più usare la loro auto, perchè è crivellata di colpi. Russo e Bignami prendono un’auto, che uno del bar aveva lasciato con le chiavi inserite. Gli altri tre scappano con la volante della polizia. Ma ha due ruote bucate e, dopo poco, debbono fermarsi . Armi in pugno bloccano un taxi e si fanno portare a casa di Maria Teresa Conti E’ rischioso, ma Laronga non può camminare. Giai costringe il tassista ad allontanarsi, poi minacciandolo di morte se parla, se ne va.
L’uccisione di Iurilli è una mazzata per PL. Al funerale del ragazzo ci sono migliaia di persone. Sui volti della gente si legge lo sdegno e la rabbia contro i “terroristi”. Lotta Continua condanna <la follia omicida>. Anche all’interno di Prima linea prende corpo un sentimento di disagio e di malessere. Affiorano critiche alla china militarista imboccata dall’organizzazione che è andata precipitando in una spirale di morte.
Scotoni, uno dei capi, gradualmente si allontana dall’organizzazione. Anche la posizione critica di Donat Cattin viaggia ormai verso la rottura, che arriverà dopo qualche mese.
Superato però lo sconcerto dei primi giorni, non cambierà molto nella condotta di PL.
Intanto a Torino arrivano Segio e Donat Cattin a prelevare Laronga. Organizzano il trasferimento notturno con un auto davanti a far da staffetta, guidata da Giusy Virgilio, una “pulita”, figlia di un notaio; un furgone guidato da un altro miliante poco noto, con dentro Laronga, la Russo e Donat Cattin e dietro una 127 di scorta con a bordo Segio, Bignami e Sandalo. Laronga viene portato a casa di Fiammetta Bertani. Una insospettabile, visto che dirige un ufficio di consulenza aziendale a Desio, per questo la sua casa sarà spesso utilizzata come base logistica. Qui un medico lo curerà.
E a Bologna uccide una colf

La sede del sindacato giornalisti bruciata
Ma a perdere la vita nella scia di rappresaglie dopo i morti al bar dell’Angelo non è solo quel povero ragazzo a Torino, è anche una donna a Bologna. Il 13 marzo, qualcuno che si firma “Gatti selvaggi”, per vendicare Barbara e Matteo, va a dare fuoco alla sede dell’Associazione stampa. Usano una bomba al fosforo che fa propagare le fiamme in pochissimo tempo. Nell’appartamento al piano sopra ci sono tre donne, due scappano, ma Graziella Fava, la colf di 50 anni, non fa in tempo e muore soffocata dal fumo. Gli autori non sono mai stati scoperti. A Bologna, dopo la partenza di Bignami e soci, non agisce più un’organizzazione armata e la firma non è più stata usata.
Lo stesso giorno i bergamaschi di Forastieri fanno esplodere un ordigno contro la caserma dei carabinieri di Cologno, un paio di militari restano leggermente feriti. Il volantino è intitolato: “Onore ai compagni Azzaroni e Caggegi”
Annientare la scorta di Gresti
Difficile capire le dinamiche politiche interne a PL. I milanesi criticano l’estremismo di Laronga e Bignami, ma poi, per vendicare i due compagni uccisi, organizzano una mezza strage. La preparazione dura alcune settimane. L’obiettivo scelto è la scorta del capo della Procura, Mauro Gresti. Ad agire sono Segio, Donat Cattin, Viscardi, Fagiano e Mazzola, armati con due mitra, un fucile a pompa e due pistole a testa più qualche bomba a mano. Il piano è di attaccare e uccidere i poliziotti quando aspettano il magistrato davanti al portone di casa.
Ma all’ultimo l’agguato salta. La situazione non era quella prevista, ha spiegato Donat Cattin.
Il contropotere territoriale
Sempre lo stesso giorno viene ucciso un carabiniere. Questa volta non è una vendetta, ma un imprevisto che capita quando si mettono pistole in mano a guerrieri improvvisati.
A Bergamo è attivo un pezzo di Cocori, il leader si chiama Maurizio Lombino, ha 28 anni e lavora in una biblioteca. Il gruppo si firma “Nuclei armati per il contropotere territoriale” ed è composto soprattutto da ragazzini delle superiori. Infatti a inizio anno avevano lanciato la campagna per il 6 politico, ma gli studenti lo avevano bocciato. Siccome avevano pensato che fossero stati alcuni prof di sinistra ad aver influenzato i ragazzi, a uno bruciano l’auto e a un altro sparano contro la casa.
L’8 marzo, per celebrare la festa della donna, le ragazze del gruppo avevano compiuto un attentato contro un cinema a luci rosse.

Il corpo di Giuseppe Gurrieri
E si arriva al 13 marzo. Due ragazzi vengono incaricati di colpire l’ennesimo medico di un carcere, quello di Bergamo. Maurizio fornisce le pistole e loro vanno nello studio del medico. E’ la loro prima azione, Narciso Manenti ed Enea Guarinoni hanno poco più di 20 anni. Entrano a volto coperto e a pistole spianate, ma tra i pazienti in attesa c’è un carabiniere in borghese, Giuseppe Gurrieri, assieme al figlio di 10 anni. Il militare si lancia su uno dei due. Dopo una breve colluttazione Narciso, che pare sia imbottito di anfetamine, riesce a divincolarsi e spara. Sarebbe bastato un colpo in una gamba, ma lui spara cinque colpi e lo uccide. I due scappano. Enea viene arrestato e, dopo la condanna, collabora. L’altro si rifugia in Francia.
Lombino scrive nel volantino: <<non sarebbe successo se lo sbirro non avesse cercato di sparare contro i compagni….l’azione era rivolta contro il boia Gualteroni…. per dare una lezione a tutti i cani ambiziosi che impegnano la loro vita al servizio della criminale struttura carceraria….>.
In maggio Maurizio organizza un’altra azione contro il carcere, un attentato dinamitardo alla casa del direttore della casa circondariale. Ma questa volta la motivazione non è politica, rientra nell’ambito della concorrenza tra “combattenti”.
Si è saputo che Prima linea ha in progetto di ucciderlo. Anzi per ben quattro volte, Segio, Donat Cattin e altri ci han provato, ma senza riuscirci per una serie di imprevisti. Lombino dirà che fece l’attentato per avvertirlo. PL deve abbandonare il progetto e non la prende bene.
Lombino verrà arrestato in settembre dopo una rapina.
Riecco le BR

Patrizio Peci
Da quando hanno ucciso Rossa per un mese e mezzo le Br sono sparite di scena. Il 14 marzo riprendono a pieno ritmo la loro attività. E’ la campagna di primavera, dirigenti aziendali e democristiani. Non è cambiato nulla.
Giuliano Farina non è un dirigente della Fiat, è un semplice vice capo dell’officina 78 delle Presse, uno che aveva iniziato come operaio. Ma per i brigatisti è un infame “capetto”. Lo affrontano in tre nell’androne di casa, Antonio Delfino, operaio alla Fiat Rivalta, Domenico Jovine, operaio alla Lancia, entrato nelle Br da pochi mesi e Patrizio Peci. Lo ammanettano e Delfino gli spara un colpo a bruciapelo che trapassa le due gambe. Gli operai dell’officina scioperano per solidarietà.
Il 26 a Casoria sparano a un agente di custodia
Si torna a uccidere a Roma
Tre giorni dopo si torna ad uccidere. La vittima è Italo Schettini, un consigliere provinciale romano. Che non viene ucciso perchè è un democristiano o almeno non tanto per questo, ma soprattutto perchè è un palazzinaro e di quelli peggiori. Finito in inchieste per speculazioni, abusi edilizi e frodi. E ancor di più perchè odiato dagli inquilini delle sue decine di appartamenti nelle borgate, ai quali impone contratti capestro, tipo l’impegno a non far figli, pena lo sfratto.
E’ dunque una scelta che si distacca dalla strategia brigatista contro la Dc in quanto Stato, più attenta invece a problemi e bisogni del proletariato. Non è un caso che Metropoli ne darà un giudizio positivo.
L’uomo viene seguito quando esce di casa e preceduto nel cortile interno dove ha lo studio di avvocato. Quattro brigatisti, capeggiati da Seghetti, tra cui Cacciotti e Lojacono, neutralizzano il portiere e una donna delle pulizie. Fuori rimane l’Algranati e un altro. Quanto Schettini arriva, il suo autista che lo accompagna viene malmenato, lui sbattuto contro il muro e Seghetti e Cacciotti gli sparano tre colpi in faccia e uno in pancia. Una pistola è la Walther Pkk usata per uccidere Moro.
In linea con il tipo di obiettivo, nel volantino di rivendicazione viene rilanciato l’obiettivo della diffusione degli Mpro, organismi con il compito di diffondere a livello di massa la lotta armata, distinti dalle Br, che ne sono però “l’avanguardia e la guida politica”. E’ il tentativo di affrontare il problema del progressivo isolamento.
Torino, l’inizio della fine delle Br
Per le Br arriva però un altro duro colpo, dopo quello di via Montenevoso. Il 19 marzo a Torino vengono arrestati Fiore, il capo colonna, membro dell’esecutivo nonchè uno del commando di via Fani e Acella, uno dei killer di Berardi e Cotugno. Li arrestano in un bar ufficialmente a seguito di un controllo di routine. Ma nessuno ci crede. La polizia o ha ricevuto una soffiata o pedinava uno dei due da tempo.
Ed è solo l’inizio.
Peci, che viene promosso a capo colonna, dirà di aver sospettato che a tradirli sia stata Nadia Ponti, che era assieme ai due fino a poco prima, perchè voleva prendere lei il posto di Fiore. Non c’è nessun riscontro ai sospetti di Peci. La Ponti diventa ugualmente un capo, ma in Veneto, dove verrà mandata assieme a Guagliardo, per guidare la colonna che da qualche mese si sta ricostituendo.
g.g.
Capitolo successivo: 34) L’inchiesta 7 aprile. I Pc uccidono ancora. Assalto alla Dc
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