Cap precedente: 33) L’uccisione di Barbara e Matteo. La vendetta di PL
Il processo 7 aprile
Già nel 77 il pm Pietro Calogero aveva avviato un’indagine sulla catena di violenze che aveva colpito Padova e in particolare l’università. Anche se, a firmare i vari episodi erano le sigle più svariate, il magistrato individuò dietro queste un’unica organizzazione (i Collettivi politici veneti) e l’appartenenza della stessa alla rete nazionale dell’Autonomia organizzata. Individuò anche nella facoltà di scienze politiche la loro principale base operativa e in Toni Negri e nei docenti a lui legati il vertice politico dell’Autonomia organizzata. Trovò anche nel cappotto di Negri alcune carte d’identità in bianco rubate, le stesse erano in possesso dei Nap e di Gallinari, da qui ebbe l’idea che Negri fosse il capo di tutto.

Pietro Calogero
L’inchiesta finì in nulla perchè il giudice Palombarini la giudicò priva di prove. Le prove forse erano poche, ma quattro colpi di pistola sparati contro l’abitazione di Calogero, pochi giorni dopo, erano un indizio da non trascurare..
Lui comunque non si diede per vinto e ricominciò ad indagare. La svolta fu la scoperta dell’archivio segreto di Negri, da cui emersero centinaia di documenti e articoli che ricostruivano il percorso del vertice di PotOp dalla scelta militare del 71, alla predicazione della lotta armata degli anni successivi. Scoprì anche la collaborazione tra Negri e le Br sulla rivista Controinformazione, trovando confermata la sua idea che Autonomia e Br fossero collegate.
Su questa base il 7 aprile Calogero spicca 21 mandati di cattura nei confronti di Negri, Scalzone, Piperno, Pace (scappati in Francia), Vesce, Dalmaviva, tutti gli assistenti alla cattedra di Negri e altri. Più un centinaio di inquisiti. Gli arresti scatenano una reazione furibonda dell’estrema sinistra e questo ci sta. Ma anche una pioggia di critiche da parte di tutta un’area intellettual-democratica, che accusa Calogero di caccia alle streghe, di persecuzione delle idee, di eseguire gli ordini del Pci. Sui muri delle città compaiono slogan truculenti contro “Kalogero”.
Errori e verità di Calogero
La tesi centrale dell’inchiesta è che il terrorismo è opera di più gruppi e sigle, ma tra loro coordinati, con un unica strategia eversiva, avente l’obbiettivo dell’insurrezione contro lo Stato, e diretta da un unico vertice, e cioè i professori appena arrestati, che poi altro non sono che il vecchio gruppo dirigente di Potere Operaio. Ecco scovato il famoso “grande vecchio” che guida anche le Br.
E’ quello che viene subito ribattezzato “teorema Calogero”. L’intuizione alla base dell’inchiesta è giusta, ma il teorema è sbagliato. Non esiste nessun coordinamento e nessun vertice unico. E un certo numero di arrestati c’entrano poco o nulla.
All’origine dell’errore c’è un indagine fatta più di documenti politici che di atti criminosi. Basata su una conoscenza molto approssimativa delle varie formazioni armate e della galassia autonoma, dipinta anch’essa come un’unica organizzazione e formata invece da gruppi diversi e distinti. A dicembre arriverà il pentito Fioroni a raccontare dell’attività di Rosso e di quella precedente, e fornirà sostanza e riscontri, ma sarà anche fuorviante. Perchè la maggior parte delle conoscenze fornite a Calogero sono vecchie.
E’ vero, ci furono incontri di Negri e Piperno con Curcio, ma senza esito e comunque cessati a fine 74. E’ vero che nel 77 Gallinari, evaso, venne ospitato da alcuni autonomi veneti, ma si trattò di solidarietà tra compagni. E’ vero, ad esempio, che il Fronte comunista combattente veneto è in contatto con la colonna veneta delle Br, ma non si va al di là di una qualche collaborazione tra organizzazioni distinte. Ed anche per il ruolo di Negri come capo dell’Autonomia, l’inchiesta si ferma a quanto raccontato da Fioroni, mentre negli ultimi tempi un po’ di cose son cambiate.
Diciamo che Calogero attribuisce a Negri e Piperno quello che loro hanno sempre tentato di mettere in piedi, ma non ci son riusciti.
L’errore di Calogero diviene poi tragicomico quando una parte dell’inchiesta finisce a Roma e qui accusano Negri di essere stato il regista del sequestro Moro, sulla base di una perizia che riconosce la sua voce nella telefonata fatta da Moretti alla moglie di Moro. L’accusa crollerà miseramente, e contribuirà ad oscurare i meriti e le ragioni del lavoro di Calogero.
Che invece ha il merito di aver infranto una sorta di tabù e cioè ha dimostrato che Negri e compagni non sono innocui professori che almanaccano di rivoluzioni teoriche e neppure solo predicatori della lotta armata, che già non è cosa da poco, ma capi politici di organizzazioni che praticano illegalità e violenza e all’interno delle quali operano nuclei armati. E cioè che tra una buona parte dell’autonomia e le Br, passando attraverso le varie formazioni armate non c’è una frattura, una barriera, ma una continuità, una declinazione della lotta armata in forme, livelli militari e gradi di violenza diversi. Ma non sono un’entità nè unica nè coordinata.
Negri: <Ho scritto stupidaggini>.

Toni Negri sorridente dietro le sbarre
Del resto dalla sua inchiesta hanno preso avvio diversi filoni di indagine che hanno portato a grossi risultati sul piano giudiziario. E Toni Negri alla fine è stato condannato a 12 anni di carcere (la maggior parte trascorsi in Francia) e non per reati di opinione, ma anche per rapina, devastazioni e attentati. Durante i processi Negri cercherà di negare anche l’evidenza e di fatto rinnegherà la sua attività politica. Di fronte a scritti, vergati di suo pugno, prima cercherà di negarne la paternità poi ammetterà pateticamente di aver scritto delle sciocchezze. Tanto che i brigatisti non la prenderanno bene e in carcere arriverà a temere per la sua incolumità.
Scalzone è stato condannato a 8 anni e Piperno a 4, pene poi prescritte. Altri furono invece assolti dopo anni di carcere preventivo.
A chiudere la questione bastano le parole di Sergio Segio a proposito dei lamenti di Negri, Scalzone e compagni, vittime di un complotto politico-giudiziario ordito dal Pci: <E’ una paraculata bella e buona…ma quale complotto, quando sei stato il teorico dell’insurrezione proletaria devi assumerti le responsabilità politiche>.
Nell’80 un progetto per attaccare l’auto blindata di Calogero a colpi di bazooka non andrà in porto.
Le Br e l’Autonomia veneta
Paradossalmente è proprio dopo l’inchiesta di Calogero che i rapporti tra Br e Autonomia veneta si intensificano. Moretti incarica Michele Galati di tenere i contatti, <necessari per dare maggiore respiro al lavoro politico dei militanti Br impegnati nella ricostruzione della colonna veneta>.
Vengono così instaurati stabili rapporti con i Collettivi Politici Veneti, cioè con Giuseppe Zambon e Giacomo Despali che sono anche capi del “Fronte Comunista Combattente”, il nucleo armato dei Cpv. Da aprile a fine anno sono una decina gli incontri, nel corso dei quali Zambon chiede e ottiene dal Galati documenti falsi, moduli in bianco e due chili di cheddite. Dal canto loro i Cpv informano le Br delle azioni che hanno in progetto di compiere. Questi stretti contatti sono una prerogativa della colonna veneta, trascurati invece dalle altre colonne
Antonietta e Lorenzo
Alla “bomba” Calogero i Cpv decidono di rispondere con decine di attentati, un’altra notte dei fuochi, la loro specialità. Oltre a quelli di Padova anche I collettivi di altre province sono mobilitati. Antonietta ha 22 anni, da qualche tempo è andata ad abitare col suo ragazzo, Lorenzo, che lavora come decoratore. La loro casa è una specie di base del collettivo autonomo di Thiene. La sera dell’11 aprile, mentre Lorenzo è al lavoro, Angelo e Alberto, preparano un ordigno rudimentale, Antonietta è in una altra stanza alla macchina da cucire. Ma la pentola a pressione piena di polvere da mina esplode. Un botto tremendo, l’appartamento è mezzo distrutto e tutti e tre muoiono dilaniati. Il più vecchio aveva 25 anni.
Lorenzo viene arrestato, è sconvolto e disperato per la morte dei compagni e della sua ragazza. Una settimana dopo si impicca in cella, lasciando questo biglietto ai genitori: <Ho raggiunto Antonia. Vi prego di essere sepolto con lei. Vi assicuro che sto bene così. Un abbraccio. Dite a Vanna di non piangere, ma di ricordarsi come eravamo felici, come ora che siamo nuovamente insieme>.
Nei giorni precedenti aveva già tentato il suicidio due volte, ma nessuno si era preoccupato.
I Pac uccidono ancora
I familiari di Sante Fatone e Sisinio Bitti, che dopo l’omicidio Torreggiani avevano fornito importanti informazioni agli inquirenti, ritrattano e accusano la polizia di averli torturati. E’ vero che la polizia usa anche metodi violenti, fino alla tortura, lo farà soprattutto a partire dall’80. Ma non pare proprio in questo caso, alle accuse non viene trovato alcun riscontro. Ma poco importa, la lotta armata ha fatto ormai della rappresaglia uno dei terreni di intervento più avanzati.

Andrea Campagna con la fidanzata
Qualcuno ha riconosciuto in tv un poliziotto alla guida dell’auto che trasportava uno dei fermati dopo il delitto Torreggiani. Si chiama Andrea Campagna, è un semplice autista, ma pagherà lui per le presunte torture.
La decisione viene presa da Battisti, Memeo, la Marelli, Bergamin, Lavazza. I primi tre sono entusiasti dell’idea, gli altri pur approvando hanno qualche dubbio, ma proprio loro vengono incaricati dell’azione. Passano i giorni, ma per un motivo o per l’altro l’agguato viene rimandato. Battisti e Memeo che ormai si sentono i capi dei Pac, sono impazienti e decidono di dimostrare come si fa.
Il 19 aprile dicono che andranno loro a fare un pedinamento. In realtà vanno per ucciderlo, anche se andare solo in due è fuori dalle regole di sicurezza. Campagna va sempre a pranzo dalla fidanzata. Battisti lo aspetta nascosto vicino alla sua auto. Ha un abbigliamento che salta all’occhio, infatti alcuni testi diranno che il giovane aveva stivaletti camperos, quelli che porta spesso per sembrare più alto, e un giubbotto di renna, che la polizia troverà in un armadio. Memeo è più lontano con l’auto per la fuga.
Dopo poco il poliziotto arriva assieme al padre della fidanzata. Quando sta per infilare le chiavi nella portiera, Battisti sbuca da dietro un’altra auto e spara cinque colpi con la stessa 357 magnum che ha ucciso Torreggiani. E’ una pistola potente e infatti 4 colpi lo passano da parte a parte. La vittima non ha avuto il tempo neanche di capire. L’uomo che è con lui ha una reazione istintiva, Battisti punta la pistola e preme due volte il grilletto, ma ne esce solo un click. Poi scappa.
Nel volantino spiegano di aver giustiziato <un torturatore di compagni>. Ma siccome tv e giornali han detto che era solo un autista, scrivono: <…. dicono facesse l’autista, ma era pur sempre un agente della Digos e andava punito… sono cazzi vostri, vivetevi la vostra paura e le lacrime dei vostri familiari>.
Lo stesso giorno a Roma i fascisti uccidono a coltellate Ciro Principessa, iscritto al Pci.
La fine dei Pac
Ma i Pac hanno le settimane contate. La polizia ha scoperto che l’appartamento della Marelli, al piano nobile di un grade palazzo nel centro di Milano, è frequentato da gente sospettata di far parte dei Pac e per un paio di mesi lo sorveglia.
Nel frattempo Mutti e Masala, rientrati in gruppo, mettono a segno una rapina con sequestro. Entrano in un bar, Mutti prende un uomo e lo trascina verso la banca, mentre gli altri avventori vengono tenuti sotto tiro. Minacciando di uccidere l’ostaggio, sequestra anche la guardia e, facendosi scudo con i due, entra in banca. Qui arrivano Lavazza e uno che è alla prima azione, rapinano 40 milioni e se ne vanno.
Ma il 26 giugno, quando la polizia vede che nell’appartamento si sono radunate diverse persone, scatta il blitz. Vengono arrestati in cinque, oltre a Silvana Marelli, Battisti, Giacomini e altri due. Basta aspettare un po’ e arrivano Bergamin, Lavazza, la Filippi ed Enrica Migliorati, anche lei come la Marelli di famiglia benestante. Tutti finiscono in manette. Un paio di settimane dopo, perquisendo l’appartamento di una sospettata, si imbattono in Memeo e in un bel po’ di armi, parte di quelle rapinate a Bergamo.

Giuseppe Memeo
Dopo qualche tempo viene arrestato anche un certo Andreatta, figura minore, ma importante perchè parla subito e racconta che, la sera che uccisero Torreggiani, arrivarono a casa sua Memeo e Grimaldi, chiedendo ospitalità e raccontarono quel che avevano fatto. Andreatta in seguito ritratterà e scriverà una lettera ai compagni impressionante e illuminante circa il vincolo ideologico ed etico che lega questi giovani alla loro scelta armata. <….è finita che ho parlato. Sì, cari compagni, perchè voi ancora lo siete io non più. Walter è una spia…. addio compagni, vi saluto in nome della rivoluzione tradita, addio per sempre, e se ci incontreremo, fate quello che ritenete giusto… le mie angosce e pentimenti sono sinceri e sono il bagaglio pesante che mi schiaccerà per sempre>. Walter è pronto a subire la punizione che merita e sa che potrebbe essere la vita.
La Brigate rosse sanno che i Pac sono allo sbando e allora Galati, che ha rimesso in piedi la colonna veneta, incontra Cavallina e gli propone una specie di fusione. Che non ci sarà
Mutti e la sua compagna, Marina Premoli passano invece a Prima Linea, portando molte armi. All’inizio dell’80 vengono arrestati anche Grimaldi e Masala.
Il giovane Sante riuscirà a sfuggire alla cattura fino al giugno dell’84, quando viene intercettato mentre cerca di scappare in Svizzera. Spara ai carabinieri, viene ferito e arrestato.
Br, ancora le gambe dei democristiani
Ma torniamo indietro, perchè le Br continuano la loro campagna di primavera contro la Dc. In un solo giorno, il 24 aprile, mettono a segno due gambizzazioni. A Torino, nel cortile di casa, viene ferito Franco Piccinelli, caporedattore Rai ed anche scrittore e poeta, ma la sua colpa è essere un uomo della Dc.
La sera a Genova tre brigatisti aspettano sotto casa il segretario amministrativo, Giancarlo Dagnino. A sparare è Baistrocchi, dieci colpi in entrambe le gambe.
Una settimana dopo sono ancora i genovesi a colpire. L’obiettivo scelto è doppio, perchè Giuseppe Bonzani è il direttore del più grande stabilimento dell’Ansaldo, a Sanpierdarena, ma è anche iscritto alla Dc. Sarà forse per questo, ma questa volta le gambe non bastano. Il problema è che negli ultimi tempi c’è un metronotte che vigila sotto casa al rientro e all’uscita dell’ingegnere. Le Br studiano allora un piano più complicato. Il 30 aprile il commando è composto da gente esperta. Lo Bianco e Carpi seguono la sua auto, nel punto prestabilito la sorpassano e poi frenano di colpo, facendosi tamponare. A quel punto arrivano Nicolotti e Panciarelli su uno scooter e sparano a Bonzani seduto nella sua auto. Cinque colpi a segno. Arriva in ospedale in condizioni disperate, ma riescono a salvarlo.
Assalto alla sede Dc
Ma è a Roma che va in scena l’attacco più imponente alla Dc. Una vera azione militare, si potrebbe dire campale, visto il numero dei brigatisti impegnati.
Vuole essere una dimostrazione di forza, l’ennesima umiliazione dello Stato, ma senza spargimento di sangue. Il piano è occupare la sede della Dc regionale e farvi esplodere degli ordigni. Non è una cosa semplice, perchè la sede si trova in una piazza centrale, con una grande fontana e piena di auto parcheggiate, ed è su tre piani.
Il 3 maggio la campagna elettorale è appena cominciata. Sono le elezioni politiche dopo l’uscita del Pci dalla maggioranza, destinate a ridisegnare l’assetto politico del Paese. Potrebbe essere una svolta storica, dopo 20 anni di crescita della sinistra e di lento e difficile avvicinamento al governo, che era lì a un passo ormai.

Gli agenti uccisi davanti alla sede della Dc
Di questo alle Br importa poco. Ma si dan comunque da fare per dare una mano alla Dc. Alle 8,30 del mattino arrivano in piazza Nicosia in 15, ci sono anche due, entrati nelle Br da pochi mesi, alla loro prima azione. Il commando è diviso in quattro gruppi, Il primo composto da Piccioni e la Braghetti rimane nella piazza, di copertura. Il primo ha un kalashnikof, l’ex carceriera di Moro ha un mitra M12 nascosto sotto un poncho nepalese. Piccioni è da poco entrato in direzione di colonna, assieme a Savasta. Ha 28 anni, è grande e grosso e, come dice la Braghetti, non ha paura di niente. Aveva 17anni al liceo, quando scoppiò il 68 e fu subito in prima fila, un breve passaggio in PotOp poi entrò in Viva il comunismo, dove organizza un nucleo armato, poi passato in toto alle Br, ora fa l’insegnante precario.
Il secondo gruppo guidato da Gallinari e Casimirri deve prendere possesso del piano terra. Entrano armi in pugno, ammanettano il portiere e un’altra persona e poi quelli che man mano arrivano, cioè altri tre.
Seghetti, Emilia Libera e Cecilia Massara, una 25enne, studentessa di sociologia, che ogni tanto fa la baby sitter, è entrata nelle Br da meno di un anno, ma ha già dimostrato di essere una molto decisa (sarà tra gli ultimi ad essere arrestata, nell’84, con tre o quattro pallottole in corpo), salgono al primo piano. Qui c’è un poliziotto con il mitra, ma quando si vede davanti i tre con le pistole spianate, consegna mitra e pistola e si fa ammannettare. Poi prelevano la centralinista e un impiegata.
Il quarto gruppo, Arreni, Caciotti, Algranati e altri due sale al secondo piano, qui c’è più gente da tirare fuori dagli uffici e neutralizzare, sono sette. Tutti debbono essere portati al piano terra. Una suora che si mette a urlare riceve una botta in testa col calcio di una pistola.
A radunare tutta quella gente nei due piani e a prendergli i documenti ci mettono più tempo del previsto. Qualcuno ha già dato l’allarme. Gallinari corre su e urla di sbrigarsi. Mentre alcuni prendono schedari e documenti altri collocano 5 ordigni a tempo.

Francesco Piccioni
Nella piazza è arrivata un’auto della polizia. Tre agenti in borghese scendono armi in pugno, ma dalla porta di ingresso Gallinari, Seghetti, Casimirri e Arreni aprono il fuoco. Altrettanto fanno Piccioni e la Braghetti, che vuota tutto il caricatore del M12 che poi si inceppa. Morucci l’aveva a suo tempo istruita: nel caricatore ci stanno anche 41 proiettili, ma devi metterne solo 40, se no si inceppa. Ma lei non ha avuto la pazienza di contarli. Un poliziotto viene ferito, ma tutti e tre riescono a nascondersi dietro all’auto e rispondono al fuoco, ferendo Gallinari di striscio a una spalla. Intanto dentro esplodono le bombe, ma solo tre.
L’atrio è pieno di gente ammanettata e terrorizzata e ci sono i brigatisti intrappolati. Piccioni riesce ad aggirare l’auto dei poliziotti e, arrivato alle loro spalle, spara una raffica con il kala, una trentina di proiettili che uccidono due agenti e feriscono gravemente il terzo. Ora si può uscire e dileguarsi rapidamente. Su una parete hanno lasciato questa scritta: < Trasformare la trupa eletorale in guera di classe>. Chi scriveva evidentemente era molto agitato.
Milano, Br azzerate
Dall’inizio dell’anno è completamente assente dalla cronaca militare la Walter Alasia. <La colonna milanese è distrutta – dirà Moretti – azzerata dagli arresti, occorre qualche mese per ricostruire. C’erano compagni nuovi, inesperti>. Se lo dice Moretti, che è andato a Milano assieme alla Balzerani per rimetterla in piedi, c’è da crederci. E’ però la prova della debolezza e dell’isolamento delle Br, se una decina di arresti, non di più, hanno azzerato una colonna.
Gogna, colla e lacci emostatici
La campagna contro la Dc continua per tutta la primavera, metodica e acefala, senza alcuna strategia. E’ la colonna genovese a impegnarvisi di più.
Il 23 maggio viene bloccata appena esce di casa Rossella Sborgi, insegnante, consigliere comunale e presidente dell’Azione Cattolica femminile. Un uomo le punta la pistola al viso: <Stai zitta e buona e non ti facciamo del male>. Arrivano un ragazzo e una ragazza che la ammanettano a una ringhiera, la fanno inginocchiare, le mettono un cartello al collo, con la stella e la scritta “Colpire i servi della Dc ovunque”. La fotografano e le versano della colla sulla testa.
Lo scopo era quello di costringerla a raparsi a zero. Lei, prima di andare in questura, chiede di andare dalla parrucchiera, che riesce a toglierle la colla senza rasarla.

Fausto Cuocolo
Sei giorni dopo, sempre a Genova tocca a Enrico Ghio, commercialista e candidato Dc alle Europee. Da qualche tempo è prudente, cambia orari e percorso. Ma non basta. Quando si accorge di quel giovane che gli cammina alle spalle, è tardi. Due fori nelle gambe e il mignolo spappolato.
Appena due giorni dopo, il 31 maggio, il prof Cuocolo, che è anche un consigliere regionale Dc, fa lezione in un aula dell’università, davanti a circa 30 studenti. Si spalanca la porta ed entrano due ragazzi. Quello che sembra il capo impugna una pistola: <Siamo le Br state tutti calmi> Poi si rivolge al docente con modi cortesi: <E’ lei il prof Cuocolo? Dobbiamo spararle. Si metta contro il muro a mani alzate>.
A parlare è Luca Nicolotti. Il professore esegue, gli studenti sono increduli, forse è uno scherzo. Ma quando l’altro punta la pistola capiscono che fra poco il sangue schizzerà. Edoardo Gambino, 25 anni operaio dell’Ansaldo, spara otto colpi, dopo il secondo Cuocolo crolla a terra. I due se ne vanno. Nel corridoio ci sono altri due che tengono a bada un bidello. Sono Gianluigi Cristiani, un giovane studente e Angela Scozzafava, operaia e capo della brigata porto.
Il prof chiede ad uno studente di prendere dalla sua borsa i lacci emostatici che da un po’ porta sempre con sè.
g.g.
Capitolo successivo 35) L’omicidio Varisco. PL uccide a casaccio
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