Capitolo precedente: 35) L’omicidio Varisco. E PL uccide a casaccio

La crisi di Prima Linea

Prima linea decide di affrontare la propria crisi, sia politica sia organizzativa, dopo la caduta della sede di Firenze e l’arresto di due importanti dirigenti, convocando una conferenza organizzativa a Bordighera nel settembre 79. Quanto siano cambiate le cose nei quasi tre anni di vita di PL è subito evidente: alla prima conferenza, nemmeno tanto clandestina, c’erano decine di persone ora sono in dodici.

Susanna Ronconi

Vi si confrontano due linee, accomunate dalla consapevolezza che una fase si è chiusa e che il bilancio è negativo. Il nodo da sciogliere è la reversibilità della lotta armata, principio affermato alla nascita di PL, a favore del quale si schiera Donat Cattin. Che critica le forzature soggettive e militariste degli ultimi mesi e la pochezza teorica, dalla quale son derivate la serie di campagne lanciate e rapidamente abbandonate. Di fronte alla crisi dei movimenti di lotta e all’incapacità di PL di assumerne la guida, propone una ritirata strategica. Tutti i militanti non clandestini dovrebbero <riprendere il loro posto nelle file del proletariato>. I clandestini, in attesa di tempi migliori, dovrebbero invece dedicarsi <all’accumulazione dei mezzi di lotta e sopravvivenza>, vale a dire soldi e armi e predisporre le vie di fuga all’estero. Sono tesi vicine a quelle di Morucci e Faranda.

Anche gli altri riconoscono la fase di riflusso della lotta di classe. Ma ritengono che l’unica possibilità per tenere aperte delle contraddizioni sia sopravvivere come organizzazione combattente, cosa possibile solo con un “arroccamento organizzativo”. Che significa inevitabilmente accentuare il proprio isolamento e la deriva militarista.

Forse non è ancora lucida consapevolezza, ma è forte anche in loro la sensazione che lo sbocco sia segnato. Ma ad esso non ci si riesce a sottrarre. Si va avanti prede di un destino che assomiglia ad una maledizione. <Inizia quello che poi è stato – dirà la Ronconi – un avvitamento senza sbocco>.

Segio, che torna in un ruolo di direzione, commenterà: <La logica delle armi non solo ci ha preso la mano, ma anche il cuore e la testa…. nell’avvitamento di una guerra che ha smarrito le sue ragioni. La militanza si è sempre più disumanizzata. Anche la vita che facevamo era ostativa ad una lucidità politica>.
E ancora Bignami: <Già lì sentiamo che la nostra scelta non è reversibile….. sentiamo, anche con angoscia e con senso di fallimento, che la strada che meno ci piaceva, quella che sempre avremmo voluto evitare, alla fine era l’unica…. e scegliamo di giocare tutto il giocabile>.

Illuminanti le parole di Ferrandi-Coniglio, già allontanatosi da PL: <Incontrai Laronga, mi fece una impressione penosa. Sragionava, zoppicava dopo i fatti di via Millio e sembrava prigioniero di una situazione ormai più forte di lui ed esistente al di là della sua personale volontà>.
Per molti di loro, non solo in PL, è l’incapacità di rassegnarsi alla fine di un’illusione, di un sogno, al prezzo di trasformarlo in un incubo.

Marco Donat Cattin

La conferenza si chiude con la nomina di un esecutivo provvisorio, composto da Bignami, Rosso, Segio e Laronga. E con un’indicazione di programma: un ritorno alle origini, un ritorno alla fabbrica. Vale a dire: attacco alla ristrutturazione aziendale e al ruolo del comando di impresa.

In ottobre il dissenso di Donat Cattin si concretizza nella sua uscita da PL. Lo seguono in pochi, uno è Biancorosso, un altro è Prandi, capo di un gruppetto bresciano. E’ lui a scrivere un lungo documento che riassume le tesi esposte a Bordighera, firmato: “Per il comunismo”. Che sarà anche il nome del nuovo gruppo che si forma attorno a Donat Cattin, e che cercherà un contatto con l’Mcr, sopravissuto all’arresto di Morucci.
Ma avrà vita breve, si limiterà ad alcune rapine e ad organizzare l’espatrio verso la Francia. Donat Cattin verrà poi arrestato in Francia. Collaborerà con i magistrati e morirà a 35 anni travolto sull’autostrada, dove cercava di segnalare un incidente [1].

Sta cambiando tutto

Nelle grandi fabbriche è in corso un processo di radicale ristrutturazione produttiva. Per Roberto Rosso, l’ideologo di PL, questo è il vero fulcro dello scontro di classe ed il comando d’impresa che governa questo processo la vera punta avanzata del potere. E non il governo o la Dc, come pensano le Br.
Rosso e con lui Prima linea non si sbagliano, anche se probabilmente non hanno colto del tutto la vera portata del cambiamento. Non è una semplice ristrutturazione di fabbrica, quella che si profila nel 79 è un cambio di fase storica. Una svolta epocale.

Berlusconi e Craxi

A livello politico il Pci ha perso ed è stato ricacciato all’opposizione. Ancora un po’ e anche il movimento sindacale sarà sconfitto. La spinta a sinistra che ha caratterizzato un quindicennio, con le sue conquiste, la redistribuzione del reddito, le riforme, è finita. Ora è la stagione di Craxi e Berlusconi, con le sue tv private che conquistano gli italiani, inoculando anche nuovi modelli culturali. E sarà la stagione delle tangenti e del malaffare, non che prima non ci fossero, ma ora diventano sistema.

Sul piano ideologico ha preso a soffiare il vento del neoliberismo, che diventerà egemone nel trentennio successivo. Reagan e la Tatcher ne applicheranno presto le teorie in modo brutale.
Sul piano economico la ristrutturazione va al di là della fabbrica. Perchè accanto al ripristino del comando, si avvia una vera e propria rivoluzione tecnologica e finanziaria e la globalizzazione dei mercati, che innescano un processo di deindustrializzazione e di delocalizzazione. Le conquiste sindacali verranno progressivamente erose se non smantellate, la classe operaia verrà frantumata e dispersa, il lavoro diventerà precario.
Tutto questo nel 79 non si è ancora manifestato appieno, ma i segni ci sono tutti.

La risposta? Ammazziamo qualcuno

Qual è la risposta di PL? Sarebbe patetica se non fosse criminale. Si ammazza qualcuno.

Il prescelto è Carlo Ghiglieno, direttore della pianificazione Fiat, l’uomo che sta introducendo l’informatica in fabbrica. In ballo c’era anche un altro dirigente, ma Ghiglieno ha orari e abitudini più regolari. Il mattino del 21 settembre lo aspettano, all’uscita di casa. Un attimo di indecisione, perchè esce con la moglie. Ma la donna quasi subito scende in un garage. E allora Bignami e Giai, che tiene la pistola in un sacchetto del pane, lo raggiungono, mentre sta per salire sulla sua Ritmo, la prima auto Fiat assemblata dai robot al posto degli operai. Bignami si era raccomandato di sparare alla testa. E così è, sparano entrambi con due 38 e proiettili a punta cava. Tre colpi alla testa e tre al petto. L’ingegnere muore sul colpo. Poco distante Zambianchi sorveglia con l’M12. In auto in attesa c’è Sandalo. Tutto molto facile.

Il cadavere di Carlo Ghiglieno

Il volantino, come al solito scritto da Rosso, recita: <un funzionamento del processo lavorativo privo di tempi morti, stringe gli operai in una morsa che spreme da loro tutta la fatica richiesta nell’aumento della produttività.… Attaccare le funzioni di pianificazione, logistica, informatica e di controllo significa mettere in crisi quell’apparato di comando che si è assunto il compito di annientare ogni resistenza operaia>.
E, con una certa acutezza, anticipa l’egemonia culturale del modello impresa che si imporrà negli anni successivi.: <si sta consolidando un ruolo politico del comando d’impresa…. che determinerà le linee direttrici della riorganizzazione dei cicli produttivi, dell’andamento dell’economia …. che sviluppa attitudini di tipo politico, più di quanto il sistema politico sia capace di adeguarvisi>.

Le Br rispondono

Nel volantino c’è anche un larvato invito alle Brigate rosse ad una collaborazione. <Non è più tempo di rotture settarie del movimento guerrigliero di questo paese, tanto meno è il momento di disarmarlo>. Due settimane dopo sembra quasi che arrivi la risposta. Perchè le Br sparano ad un altro dirigente della Fiat, Cesare Varetto. Il 4 ottobre, Peci e due operai Fiat, Jovine e Delfino entrano nella merceria della moglie. Il responsabile delle relazioni sindacali a Mirafiori ha in braccio il figlio di due anni. I brigatisti sono a volto coperto, Peci gli ordina di allontanare il bambino. Poi Jovine gli spara tre colpi alle gambe. Di Cecco è fuori come autista.

Uccidere il giudice Caselli

A Torino le Br stanno lavorando da mesi ad un obiettivo molto più grosso: il giudice Caselli. Nella lista dei nemici viene subito dopo Dalla Chiesa. Da un paio d’anni indaga sul terrorismo e lo considerano la longa manus del Pci, quindi doppiamente odiato. Non è facile ucciderlo. L’hanno pedinato a lungo, l’unico posto dove è possibile un agguato è un incrocio, dove la sua auto è costretta a fermarsi. Ma Caselli ha la scorta e soprattutto i tre che lo seguono sono apparsi subito gente che ci sa fare. Non stanno mai fermi, controllano la zona prima di muoversi. In auto i due dietro non stanno seduti, ma in ginocchio con i mitra puntati fuori, perchè si aspettano da un momento all’altro l’agguato. Avvicinarsi all’auto armati si rischia di essere falciati. E così, alla fine rinunciano. Ci sta pensando anche Prima Linea, ma anche loro rinunceranno.

E’ la prova che non è vero che le scorte non servono, se sono preparate.

I 61 licenziati

Sono già una quindicina i dirigenti e capi della Fiat ad essere stati colpiti. Pochi giorni dopo arriva la risposta dell’azienda che licenzia 61 operai sospettati di essere terroristi o amici di terroristi e di violenze in fabbrica. La lista era pronta da qualche settimana e Cesare Romiti l’aveva comunicata anche al Pci, che aveva dato il suo ok.

In realtà tra i 61 ci sono solo due brigatisti (Mattacchini e quel Jovine che ha sparato pochi giorni prima) e due fiancheggiatori. La Fiat probabilmente lo sa, ma la volontà è quella di colpire gli elementi più radicali, distintisi negli scioperi per il contratto dei mesi precedenti, convinta che costituiscano il terreno di coltura del terrorismo. Allo stesso tempo dare il segnale di una svolta nel governo della fabbrica.

L’equiparazione estremisti uguale potenziali terroristi è condivisa anche dal Pci. Ma un dirigente Fiat ferito dalle Br, Camaioni, commenterà: <…. allora non capimmo che il terrorista non dovevi andarlo a cercare tra le persone violente, tra quelle che fanno casino. Perché i brigatisti non lo faranno mai casino! Bisognava andare a cercarli tra le persone di cui mai avresti sospettato! Quando mi hanno detto che Betassa era un brigatista, credevo stessero scherzando>.

La reazione ai licenziamenti, che rappresentano un evento chiave nella storia politica degli anni 70, è nulla da parte delle organizzazioni combattenti, a dimostrazione della loro ormai totale estraneità alla fabbrica, prima ancora in termini politici che numerici, che comunque son ben poca cosa, e della sola capacità di interventi esemplari, quanto inutili e controproducenti.

Le Br nel 79 hanno quattro brigate dentro i vari stabilimenti Fiat, cioè una quindicina di militanti forse meno, su circa 150 mila dipendenti. E, secondo Peci, sono del tutto assenti tra gli studenti e nei quartieri.

Gallinari ferito e catturato

Il 24 settembre in una strada di Roma ci sono due che stanno sostituendo la targa di un auto rubata, che deve servire per una grossa rapina al ministero dei Trasporti. Sono Gallinari e il giovane Walter Di Cera, 21 anni, famiglia borghese, da ragazzino era in CL. Uno dalle idee forse un po’ confuse, visto che si dichiara brigatista pacifista. <Spesso – cercherà di spiegare – si aderiva per dinamiche gruppali, senza un vero esame di coscienza, spinti dagli eventi>.

Perchè lo stiano facendo lì in bella vista non si sa. Sta di fatto che arriva una volante, chiamata da qualcuno. Appena l’auto si ferma e tre agenti scendono, Gallinari spara. Ma questa volta i poliziotti sparano meglio e lo colpiscono alla testa. Ci sono altri due brigatisti di copertura, Mara Nanni e Pietro Vanzi, ma vedendo Gallinari stramazzare a terra, tutti e tre scappano. I due ragazzi riescono a sparire, la Nanni, inseguita, si nasconde in un garage, sotto un’auto e lì la ammanettano. In borsa a tre pistole. Era già stata arrestata nel marzo 77 e scarcerata dopo un anno, era subito entrata nelle Br.

Prospero Gallinari

Vanzi ha 23 anni, faceva il liceo ma non l’ha terminato ora fa il commesso da Feltrinelli, è entrato nelle Br con l’afflusso che seguì il rapimento Moro, proveniente anche lui da “Viva il Comunismo”, il gruppo che è stato un vero serbatoio di reclutamento per le Br romane.

Gallinari viene ricoverato al S.Giovanni, sembra in fin di vita, invece si riprenderà. Qualcuno telefona ai medici e li minaccia, in caso non curassero bene il capo. Nell’ospedale lavora un infermiere da poco diventato brigatista. Savasta e Maurizio Iannelli (27 anni, lavora all’Alitalia), che fanno parte della nuova direzione di colonna, lo incaricano di controllare come sta e di chiedergli se è pronto per essere liberato con un assalto all’ospedale. Savasta ha pensato di dare un caffè avvelenato alle due guardie che lo piantonano.

Siccome Gallinari non lo conosce, gli danno una collana e gli orecchini della Braghetti. <Glieli feci vedere e rimase stupito. Mi disse: digli che non debbono fare niente, sto bene, sono uscito una volta, riuscirò ancora>. Dopo un infarto e un’operazione al cuore, uscirà nel ’96.

Lojacono se ne va

Negli stessi giorni le Br romane perdono un altro elemento di spicco. Alvaro Lojacono lascia l’organizzazione, sulla stessa posizione critica di Morucci. Se ne andrà poi in Svizzera, grazie al doppio passaporto, essendo la madre di nazionalità elvetica. Qui sconterà 11 anni per l’omicidio Tartaglione. La Svizzera rifiuterà l’estradizione per il sequestro Moro.

Dal punto di vista numerico le tre perdite non sono un gran problema per le Br romane, perchè l’ingresso di giovani militanti continua ad essere consistente. Nel corso del 79 sono circa una dozzina. Dal punto di vista politico la perdita di Gallinari, uno della prima ora e ormai un capo storico, invece è un duro colpo.

Angelo Ventura

Angelo Ventura è uno dei pochi docenti dell’università di Padova a non piegarsi alle imposizioni e alla violenza dei Collettivi politici. Come altri docenti è stato sequestrato e malmenato. Sui muri sono comparse le scritte: <Ventura attento, ti faremo fuori>. Ora è in cima alla lista, perchè è anche un importante teste nel processo “7 aprile”, per di più scrive articoli sul Corriere contro l’Autonomia.

Militanti dei Cpv

Si aspetta un agguato e, siccome non ha scorta, si è comprato una pistola. Quel che ha previsto accade regolarmente il 26 settembre. Due giovani lo aspettano, lui capisce, quelli sparano e lo colpiscono a un piede, ma lui risponde subito al fuoco e i due scappano. La firma è del Fronte comunista combattente, il nucleo armato dei Cpv: <Tutti i provocatori e i collaborazionisti sono avvertiti. Non sempre il tiro sarà basso>. L’attentato verrà classificato come reato di “lesioni personali” ed estinto da una delle frequenti amnistie. Tipico di un regime liberticida che si regge su leggi speciali. Solo Giuseppe Zambon sarà condannato per aver fornito l’arma.

Il volantino lancia anche un appello alle Br per la ricerca dell’unità: <Onore e un abbraccio fraterno al compagno Prospero Gallinari e a tutti i compagni caduti per il comunismo….. Riunificare i comunisti in un processo politico-militare per il partito>. I Cpv hanno buoni rapporti con la colonna brigatista locale. Zambon aveva preannunciato a Galati e a Guagliardo il progetto di colpire un padovano “che aveva collaborato con Calogero”, cioè Ventura.
Ma più in generale, in questa fase di crisi per tutti i gruppi armati, le Brigate rosse sono sempre più un punto di riferimento e un porto amico.

La rivolta dell’Asinara

In tasca a Gallinari la polizia ha trovato i piani per l’evasione dall’Asinara. Ora è chiaro che le speranze dei brigatisti di fuggire non sono solo rimandate, ma finite. E’ così che i capi del nucleo storico decidono la rivolta, con loro ci sono anche alcuni dei Nap. Non si illudono di evadere, ma sperano nel trasferimento in un carcere meno duro. E male che vada avranno sfogato la loro frustrazione.

Il via alla rivolta lo debbono dare Azzolini, Abatangelo e Ognibene sequestrando alcune guardie. Ma, il 2 ottobre, il piano fallisce, la guardia che sta per aprire la loro cella ha capito e, invece di aprire le due mandate, apre e richiude. I brigatisti sentono i due scrocchi e scattano, ma la porta è chiusa. La rivolta scoppia ugualmente, ma senza ostaggi non c’è trattativa. I detenuti sfondano i soffitti e raggiungono il sottotetto, sperano di sfondare anche lì e salire sul tetto. Ma è tutto cemento, allora devastano le celle. Quando le guardie e i carabinieri cercano di entrare, vengono più volte respinti con il lancio di caffettiere imbottite di esplosivo, quello che doveva servire per l’evasione.
All’alba la sezione viene inondata di gas lacrimogeni e devono arrendersi. La sezione Fornelli ora però è inagibile e vengono trasferiti.

Ancora il comando di impresa

Continua intanto a Torino, l’unica sede realmente operativa di Prima linea, la campagna contro il comando di impresa diretta dal Rosso.
L’obiettivo è l’amministratore della Praxi, una società di consulenza aziendale. L’occasione è buona anche per mettere alla prova Liviana Tosi, alla sua prima vera azione. Il 2 ottobre il nucleo è comandato dallo stakanovista della lotta armata, Fabrizio Giai. Sandalo deve sparare. Viene neutralizzata la custode e un’amica casualmente sul posto. Albesano, al quale di solito è affidato il compito di rubare le auto, le tiene in custodia.
Gli altri tre salgono negli uffici, radunano sei impiegati e li legano con cinghiette fermacavi. Anzi per far prima ad alcuni ordinano di legarsi da soli. Sandalo prende l’amministratore, Piercarlo Andreoletti, lo porta in bagno e gli spara due colpi nelle gambe.

Anche Milano tenta un’identica operazione, contro una società di consulenza. Ma il direttore fa in tempo a chiudersi in ufficio e allora Forastieri, Viscardi e altri due rinunciano.
Il giorno prima, il 10 ottobre, era fallita anche una rapina ad un laboratorio che lavora l’oro. E’ un’azione a metà coi rapinatori comunisti, perchè oltre a Segio, Mazzola e Viscardi ci sono Zanon e Pedrazzini. Un nucleo superesperto. Ma sbagliano porta e così scatta l’allarme.

g.g.

1] Sandalo rivelerà che fu Cossiga a consigliare a Donat Cattin padre di farlo espatriare. Quest’ultimo ammetterà di aver chiesto aiuto a Cossiga, ma che questi gli consigliò solo che il figlio si costituisse. A naso è più credibile la prima versione.

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