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Br, strage di poliziotti e carabinieri
Tralasciati, almeno per il momento, democristiani, magistrati e dirigenti d’azienda, l’attività si concentra sulle forze antiguerriglia: polizia e carabinieri.
La prima azione a Roma è più un’esercitazione per una recluta. Si tratta di disarmare un anziano agente della Polfer, richiamato in servizio perchè c’è carenza di personale. Una prova, visto che le Br non hanno bisogno di armi. Il 31 ottobre del 79 in quattro lo aspettano nell’androne di casa, gli intimano di consegnare l’arma, ma Michele Tedesco reagisce e allora Arreni gli spara a una spalla poi lo ammanettano alla ringhiera.
Truppe di occupazione?

Roberta Cappelli
Il 9 novembre invece si fa sul serio. Michele Granato è un poliziotto di 24 anni, siciliano, lavora al commissariato S.Lorenzo, storico quartiere di sinistra, qui c’è anche la sede dei Volsci. Michele è uno che indaga, raccoglie informazioni, non gira mai in divisa, sempre in jeans e frequenta le zone dell’ultrasinistra. Dicono sia bravo e la voce è
giunta anche alle Br. Lo seguono da un po’ e hanno scoperto che spesso va a prendere la fidanzata a scuola e l’accompagna a casa. E qui lo aspettano. E’ un nucleo di gente che non ha mai sparato. Quando Michele e la fidanzata sono quasi al portone, alle loro spalle arrivano Salvatore Ricciardi, il ferroviere, e Roberta Cappelli, una studentessa di architettura di 23 anni, passata alle Br dalle Ucc l’anno prima al seguito di Seghetti, a cui si è legata.
I due sparano alla schiena. Il poliziotto cade, la fidanzata si getta su di lui urlando. Ma la Cappelli la scosta: <Levati di mezzo! Non ce l’abbiamo con te! Non c’entri tu!> e spara di nuovo alla testa. Poco distante, nel solito ruolo di copertura, c’è un’altra ragazza, Nanà (Annunziata Francola), anche lei studentessa di architettura, anche lei ex Ucc. In auto aspetta Ennio di Rocco. Nel volantino il solito linguaggio brigatista: <Abbiamo giustiziato un killer di stato …alla militarizzazione capillare per l’annientamento proletario rispondiamo con l’annientamento selettivo… le truppe di occupazione vanno espulse dai quartieri proletari>.
Due carabinieri a caso
Il 21 sono i genovesi a uccidere. Questa volta sono due carabinieri, scelti a caso. I brigatisti hanno notato che una pattuglia della radiomobile, verso le 7 prima di iniziare il giro, si ferma al bar per un caffè. Quella mattina come d’abitudine, Tosa e Battaglini lasciano mitra e giubbotti antiproiettile in auto e entrano nel bar. Stanno per sorseggiare i caffè e non si sono accorti che nel bar sono entrati due giovani, che gli scaricano nella schiena 11 colpi. Prima di andarsene prendono una mitraglietta dall’auto dei militari. Secondo una testimonianza a sparare sono Dura e Panciarelli, ma sono stati fatti anche i nomi di Baistrocchi e Lo Bianco. Cambia poco, sono i killer della colonna genovese. Panciarelli si è trasferito da Torino, perchè ormai individuato.
Vi prego non uccidetemi
Ma sono i romani a mettere il maggior impegno nell’annientamento dei “cani da guardia della borghesia“. Una settimana dopo la vittima è Domenico Taverna, un maresciallo di polizia del commissariato Appio Nuovo. In linea con la scelta di colpire le “truppe di occupazione“, più concretamente i poliziotti che, lavorando sul territorio, sono ritenuti quelli più in grado di conoscere gli ambienti di reclutamento, attraverso ai quali penetrare nelle Br.

Il corpo di DomenicoTaverna
In realtà la scelta è casuale. Taverna è prossimo alla pensione, diabetico e non si è mai occupato di reati politici. Ma prima della pensione arrivano una decina di colpi nella schiena mentre scende in garage. Del commando fanno parte anche Iannelli e la Braghetti, pure lei appena entrata in direzione di colonna, assieme a Ricciardi. Ha fatto carriera in fretta.
Passano dieci giorni e il 7 dicembre ammazzano un altro poliziotto, commissariato di Centocelle. Il dramma di una morte questa volta è ancora più penoso. Mariano Romiti sta andando a prendere l’autobus, quando tre giovani (Arreni, Cacciotti, uno nuovo di Ostia) escono da dietro un muretto e gli si fanno incontro. Lui capisce subito, è disarmato, si guarda attorno, vede lì vicino un uomo, ha un viso gentile, incorniciato da tanti riccioli, gli chiede aiuto. Questo lo guarda, estrae la pistola e gli spara. Il viso è gentile, ma è anche lui un brigatista, Maurizio Iannelli. Anche gli altri fanno fuoco. Il maresciallo, caduto in ginocchio, si mette a pregare, invoca la Madonna. Le sue preghiere sono troncate quando il colpo di grazia gli trapassa la testa.
L’obiettivo di tante uccisioni prive di qualunque senso politico è spiegato nelle rivendicazioni: <Spaccare, neutralizzare, destabilizzare psicologicamente il personale militare che la borghesia imperialista assolda per difendere i suoi esclusivi interessi…. demoralizzare il nemico,… esortare i servi armati dello stato a cambiare mestiere, abbandonare la divisa, prima che diventi troppo tardi>.
La rottura col nucleo storico
Il dissidio con i capi storici non è rientrato. Anzi, la fallita evasione dall’Asinara e la fallita rivolta lo hanno reso più acuto. Durante il processo d’appello a Torino, a fine novembre, Curcio, Franceschini e gli altri rinnovano le accuse. Parlano di incapacità a dialettizzarsi con le lotte carcerarie e di massa e chiedono le dimissioni dell’esecutivo.

Mario Moretti
Viene convocata la direzione strategica. Una quindicina di capi e sottocapi si riuniscono per due giorni in un appartamento a Genova. Moretti e Micaletto si dimettono, ma vengono riconfermati all’unanimità. Del resto il livello dei dirigenti brigatisti è basso, non c’è nessuno che voglia e che sia in grado di prenderne il posto. I due vecchi vengono integrati con Seghetti e Dura. E di certo il livello politico del vertice brigatista non ne guadagna. Pietro Bertolazzi, uno dei fondatori, alludendo a Dura, dirà: <C’è stata gente nell’esecutivo che non aveva lo spessore culturale e politico>.
Non si sviluppa nessun dibattito sul “documentone” arrivato dall’Asinara. Viene rinviato a tempi migliori. Semplicemente si risponde che le richieste che vengono dal carcere sono velleitarie e inapplicabili. <Brancoliamo nel buio sulla svolta da fare – dirà Moretti – siamo sicuri che la proposta dei compagni prigionieri è sbagliata, ma più in là non siamo in grado di andare>. Del resto l’unica conclusione possibile sarebbe la presa d’atto del totale fallimento della lotta armata. infatti non viene partorito nessun controdocumento, ma solo un biglietto con una risposta lapidaria e ironica.
E’ il segnale d’inizio della crisi e delle scissioni che verranno. Ma, pur brancolando nel buio, le armi continueranno a sparare con buona mira. .
Si spara sugli aborti clandestini
Prima linea continua la sua campagna contro il comando di impresa. Prima però va detto di un ferimento a Roma. Il 30 novembre in cinque entrano nello studio di un ginecologo, accusato di fare aborti clandestini. Legano e imbavagliano tutte le donne in sala d’aspetto. Poi legano anche lui, lo portano in bagno e gli sparano diversi colpi nelle mani. L’azione è firmata “Reparti proletari dell’esercito di liberazione comunista”, una sigla usata un paio di volte da PL, che però a Roma non è presente. Di più non si sa.
Il 7 dicembre a Torino otto delle Ronde occupano una piccola fabbrica. Fanno sdraiare a terra tutti i dipendenti. Giai tiene una sorta di comizio, Franco Albesano deve sparare alle gambe di Pietro Orecchia, proprietario dell’azienda, ma è molto agitato, gli trema la mano, allora spara Giai, che di certo non ha tremori. La colpa del “gambizzato” è che nella sua fabbrica non vengono rispettate le norme di sicurezza, un mese prima un operaio ha perso dieci dita in una pressa. Nel gruppo ci sono anche D’Ursi e Lucio Di Giacomo, 21enne capo della ronda di Orbassano.
Messi al muro e decimati
Quattro giorni dopo, l’11 dicembre, Prima linea compie una delle sue azioni più efferate. Tanto che qualcuno commenterà: ci paragonerrano ai nazisti. L’obiettivo sono gli aspiranti manager, vale a dire la Scuola di formazione aziendale. L’azione dal punto di vista militare è complessa, si tratta di occupare un intero edificio con decine di persone all’interno e tenerlo per circa mezz’ora. Per questo son venuti la Ronconi da Napoli e in tre anche da Milano: Segio, Viscardi e Palmero, l’ex Cocori da poco entrato in PL assieme a Maurizio Costa. Viscardi è uno che fa a gara con Giai per il più stakanovista della pistola. <Uno senza scrupoli> lo definirà Segio. Forse anche segnato da una tragedia familiare durante l’infanzia.
In tutto sono 12, c’è quasi tutto il comando nazionale: Bignami, Giai, Rosso e poi Zambianchi, D’Ursi, Albesano, la Conti, e Liviana Tosi. Manca Sandalo, perchè pochi giorni prima ha lasciato PL per riunirsi a Donat Cattin e da Milano manca un altro che non manca quasi mai, Mazzola. Anche lui si è ritirato, per motivi familiari, ha detto.
Alle 15,15 i primi tre travestiti da manager, giacca e cravatta e valigette 24 ore, che però sono piene di armi e non di carte, entrano indisturbati, scambiati per studenti. Preso possesso dell’atrio, entrano gli altri. Un paio restano a sorvegliare l’ingresso, gli altri si dirigono verso le aule. Due entrano in aula magna, dove è in corso una lezione davanti a 90 studenti. <Siamo di Prima linea, l’edificio è occupato, state calmi e nessuno si farà male>. Per rendere più convincente l’invito, uno apre la giacca e mostra due pistole, l’altro estrae un kalashnicov e spiega <Questo è un AK47, un’arma che spara molto bene>.
Intanto decine di persone, studenti, docenti e impiegati vengono rastrellati dalle altre aule e radunati tutti in aula magna, alla fine sono circa 200. I terroristi mostrano grande calma, sono quasi gentili. La Tosi legge un comunicato, il cui succo è: voi state per diventare un ingranaggio in un sistema di sfruttamento della classe operaia…. Non dovete venire più in questa scuola. Uno studente prova dire: <Io vengo dal Sud, son qui perchè ho bisogno di lavorare>, la risposta secca: <Allora vai a rubare>. Molti si rassicurano, sembra un’azione incruenta. Ma non è così.
Una ventina tra prof e studenti sono stati tenuti in un’altra aula, sono quelli che fanno il master, tra i docenti ci sono dirigenti della Fiat e dell’Olivetti. E’ qui che Rosso ne sceglie dieci, sei docenti e quattro studenti, che vengono portati nel corridoio, messi al muro, legati e imbavagliati e fatti sedere. Poi Segio, Giai e Viscardi sparano nelle gambe a tutti e dieci. E’ passata ormai mezz’ora e di polizia non c’è traccia. Con calma i dodici si avviano all’uscita. Sui muri lasciano grandi scritte con lo spray rosso. Tra le altre: “Onore a Barbara e Matteo”. Prima di uscire Palmero mette in mano al custode un proiettile: <Questo è per Dalla Chiesa>.
Dopo dieci minuti arriva la polizia e si trova di fronte a una scena di macelleria sudamericana, dieci persone con le gambe fracassate, sedute nel loro sangue.
Ucciso un giovane piellino
Tre giorni dopo, di notte, una volante sorprende un gruppo di giovani che sta preparando un attentato a una fabbrica, la Elgat. E’ la ronda della val di Susa, zona da cui provengono molti piellini. All’alt rispondono aprendo il fuoco. Al termine della sparatoria ci sono due agenti feriti, uno in modo serio. E un giovane, Roberto Pautasso, 21 anni, per terra morto.
Tra novembre e dicembre PL mette a segno tre grosse rapine in banca nel milanese. Nel corso di una vengono fatte stendere a terra ben 30 persone.
Infermieri
Pare che gli ospedali siano diventati la prima linea dello scontro di classe. Ormai fuori dalle fabbriche, la galassia dell’Autonomia si concentra sul pubblico impiego. I vari comitati di base dirigono le lotte, spesso corporative, fatte anche di insubordinazione spicciola, minacce, sabotaggi e violenza. Al Policlinico di Roma sono i Volsci a guidare le agitazioni. Al Policlinico di Milano Prima linea si è già inserita nel clima di forte tensione, sparando a un capo infermiere. Ora tocca alle Br, che sono presenti con una brigata, quattro infermieri capeggiati da una caposala, Ettorina Zaccheo, che cela la sua militanza dietro il ruolo di delegata sindacale. Hanno allestito anche un nascondiglio nell’ospedale, nel quale decenni dopo verrà trovato un piccolo archivio delle Br.
L’impressione è che con questa azione, fotocopia della precedente, le Br vogliano affermare la loro egemonia in quella realtà. Sul Policlinico c’è una sorta di competizione tra Br e PL. Le vittime designate non sono baroni della sanità, ma due vicecapi infermieri. Il 20 dicembre un commando di due uomini e una donna, entra nella sala infermieri, lega e imabavaglia i due, più una collega sopraggiunta. Poi spara alle gambe dei due uomini, accusati di essere servi del direttore sanitario e di aver organizzato turni di sorveglianza per prevenire manomissioni e sabotaggi.
Negli stessi giorni Prima linea è pronta ad uccidere un primario, il prof Fara, accusato di un atteggiamento dispotico nei confronti degli infermieri. Dopo i soliti pedinamenti, all’interno del policlinico si appostano in sette, ci sono molti capi: Segio, Bignami, Russo, Ronconi, Giai più Viscardi e Manina. Ma il medico non arriva, l’secuzione è rinviata. Riprendono i controlli, ma si accorgono che anche le Br lo seguono. Alla fine non se ne fa niente.
I Reparti d’attacco
Il giorno dopo tornano a sparare i Reparti comunisti d’attacco. L’obiettivo è l’ennesimo dirigente dalla Fiat, Ezio Gavello. Lo feriscono per strada a Torino. Sono in tre, a guidare il gruppo è l’esperta Maria Teresa Zoni ed è lei a sparare. Gli altri due sono il torinese Ugo Armenise, 22 anni, e il milanese Andrea Gemelli, 20 anni. Sono l’ultima generazione della lotta armata, gente che nel 68 andava alle elementari. Gemelli è giovanissimo, ma è un tipo deciso ed ha già un discreto curriculum, alcune rapine e attentati di quando stava nei Cocori.
Mcr
Dopo qualche mese, passato a mettere in piedi un po’ di organizzazione, entra in azione a Roma anche il Movimento comunista rivoluzionario (Mcr), il gruppo nato dalla scissione di Morucci e Faranda, al quale si sono aggregati gente dei Cocori, alcuni ex Ucc e autonomi.
La linea politica è quella di occuparsi dei bisogni materiali e immediati del proletariato, lasciando perdere gli attacchi al cuore dello Stato. E’ un ritorno alle prime Ucc, che sequestrarono un grossista di carni, per distribuire bistecche el popolo. L’obiettivo scelto è la casa. Si comincia in novembre con alcune irruzioni all’Unione piccoli proprietari immobiliari e alla Gabetti.
Si era detto di smetterla di sparare alla gente, ma il proposito viene presto abbandonato. Anche se per una volta sola. Il 22 dicembre un gruppo fa irruzione nella sede dell’impresa di costruzioni di Settimio Imperi, che viene messo alla gogna e poi ferito alle gambe. Qualche tempo dopo nuova incursione nella sede di un’immobiliare, quella di Colombo Masi, che riesce ad evitare la distruzione dell’ufficio in cambio della promessa, poi mantenuta, di affittare e non vendere i suoi immobili.
Casimirri e Algranati se ne vanno
Alla fine dell’anno Casimirri decide di lasciare le Br, assieme alla moglie Rita Algranati. Non risulta abbia argomentato un dissenso politico. Lo avevano mandato a Napoli e non ha gradito e poi forse pensa che sia il momento giusto per mollare. Casimirri, assieme alla moglie, è stato uno dei più attivi della colonna romana. Ha sparato a Mario Perlini, ha partecipato all’agguato di via Fani, all’omicidio del giudice Palma, all’attacco alla scorta dell’on Galloni e all’assalto alla sede Dc di piazza Nicosia, sparando sulla volante della polizia; ha ucciso il giudice Tartaglione.

Alessio Casimirri
Uscito dalle Br, Casimirri trascorre due anni tranquilli a Roma, forse un po’ troppo tranquilli, tanto da destare qualche sospetto. Si scoprirà una scheda fotosegnaletica su di lui dei carabinieri con diverse anomalie e la dicitura “arrestato”. Cosa non vera che però lo ha tenuto al riparo da indagini più approfondite. Quando nel febbraio 82 Savasta comincerà a parlare e viene spiccato un mandato di cattura, nel giro di 24 ore, lui e la moglie spariscono. Con un passaporto falso se ne vanno a Parigi poi in Africa, a Mosaca e infine in Nicaragua. Dove trova la protezione del regime di Ortega e per qualche tempo fa l’istruttore militare. Poi apre due ristoranti. E dove si trova tuttora.
Stranamente nessuno indaga su quel passaporto falso. Forse la ragione è che quel passaporto potrebbe essergli arrivato dal gen. Santovito, capo del Sismi, che conosceva bene il padre di Casimirri, come noto un pezzo grosso del Vaticano. Non si può escludere che a dare una mano, per avere il visto per il Nicaragua, sia stato lo stesso che procurò il visto per il Mozambico a Morucci e Faranda.
Quando negli anni 90 il Sisde lo raggiungerà in Nicaragua e Casimirri inizierà a parlare, altri uomini del Sisde daranno la notizia alla stampa, bruciando così l’operazione.
Un trafficante libanese in carcere rivelerà che Casimirri era stato arrestato dal gen. Delfino poi rilasciato per fare da informatore. La cosa non ha trovato alcun riscontro ed anzi si è rivelata poco attendibile. Di certo Casimirri ha goduto di protezioni e appoggi grazie alle conoscenze del padre. Ma non c’è nulla per dire che fosse un informatore o addirittura un infiltrato.
Decreto antiterrorismo
Il 15 dicembre il governo vara un decreto che inasprisce le pene e la durata del carcere preventivo per i reati con fine di terrorismo e amplia i poteri della polizia, portando il fermo a 96 ore e concedendo la possibilità di perquisizioni senza autorizzazione del magistrato in situazioni di urgenza. Lo Stato ha aspettato nove anni prima di adottare misure repressive, comunque largamente più blande di quelle adottate in altri paesi, come la Francia, tanto amata dai “combattenti” di casa nostra. Ed anche abbastanza inefficaci
Bilancio del 1979
Il 1979 si chiude con 31 morti e 46 feriti. Le vittime sono: sei poliziotti, quattro carabinieri e 2 guardie carcerarie. Tre commercianti, un operaio, un magistrato, un democristiano, un dirigente d’azienda e tre persone uccise per sbaglio. Tre terroristi sono stati dilaniati da una bomba, due si sono suicidati e quattro uccisi dalla polizia.
I feriti sono: 5 dirigenti d’azienda, 5 poliziotti, 5 medici, 5 democristiani, 7 professori, 4 studenti, tre infermieri e un’ostetrica, due guardie, un capofficine, due terroristi, 5 ragazze ferite dai fascisti e un fascista dai rossi.
Dall’estate del 78 alla fine del 79 ci sono stati 197 arresti, 94 entro i 25 anni. 47 studenti univ; 33 operai; 20 insegnanti; 19 impiegati.
g.g.
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