Capitolo precedente: 37) Strage di poliziotti. Studenti messi al muro da PL
1980
Uccidi, uccidi, uccidi
Il 79 è stato un anno di crisi per le Brigate rosse milanesi dopo gli arresti di via Montenevoso e seguenti. Moretti e la Balzerani sono saliti a Milano per rimettere in piedi la colonna. C’è stato qualche nuovo reclutamento ed ora è pronta a tornare in azione. Anche Milano, ha deciso l’esecutivo, deve dare il suo contributo di morti alla campagna contro le forze dell’ordine.

Il funerale dei tre poliziotti
E’ Moretti ha preparare il piano, che infatti è la fotocopia di via Fani. L’obiettivo è un’auto della Digos che tutte le mattine fa il giro delle scuole più calde. L’hanno seguita e controllata per un paio di settimane. L’8 gennaio un’auto con a bordo Nicolò De Maria, operaio alla Breda, segue la Ritmo con a bordo tre agenti. Nel punto stabilito la sorpassa e poi frena bloccandola. L’azione è rapidissima, dal marciapiede scendono Moretti a viso scoperto, la Balzerani e Nicola Giancola, un tecnico della Philips di 29 anni alla sua prima azione, con il passamontagna. I tre sparano con le pistole trenta colpi contro i vetri e uccidono i tre poliziotti, Cestari, Santoro e Tatulli. Giancola, appena fatto, corre al lavoro, entrando con 18 minuti di ritardo. Dirà poi al compagno Galli di essere rimasto turbato dall’uccisione di quei tre. Turbamento che però non gli impedirà di compiere altre azioni armate.
Ai funerali c’è il popolo milanese. La reazione della gente dimostra che il clima in città è cambiato rispetto a quello di qualche anno prima. Non più l’indifferenza o la pavidità, ma la repulsione per una violenza che appare ormai, oltre che non condivisibile, del tutto insensata.
Il 25 gennaio a Sanpierdarena viene portato a termine un agguato simile. Un’auto dei carabinieri con a bordo il col. Emanuele Tuttobene, l’autista Antonio Tosa e un ufficiale dell’esercito, percorre via Riboli, una stradina stretta che è molto facile bloccare. L’auto va piano e a Baistrocchi, Lo Bianco e Carpi basta portarsi in mezzo alla strada per fermare l’auto e scaricare sul parabrezza una raffica di colpi.
I due carabinieri muoiono sul colpo, l’ufficiale resta solo ferito. Baistrocchi, l’ex pittore, conferma così la sua fama di spietato esecutore. Enrico Fenzi dirà che era <l’unico vero “terrorista” che abbia conosciuto all’interno delle Brigate Rosse, interessato solo alle armi e ben poco alla politica>. Va detto che a Genova non è proprio l’unico, anche Dura e Lo Bianco si sono conquistati la fama di rozzi e violenti. Il secondo prenderà a cazzotti un’altra brigatista, solo perchè lo aveva criticato.
Bruciata in casa
La sera del 28 gennaio, a Roma, qualcuno che si firma Nuclei proletari combattenti da fuoco alla porta di casa della segretaria della sezione di quartiere della Dc. Ritenuta forse una pericolosa avanguardia dell’imperialismo delle multinazionali. In casa c’è la sorella Iolanda Rozzi di 62 anni che, vedendo fumo, apre la porta ed è investita dalle fiamme. Muore dopo un mese di sofferenze. Si tratta probabilmente di giovani aspiranti brigatisti. La sigla è stata usata altre volte dagli Mpro delle Br. L’intenzione probabilmente non era di uccidere, ma non è la prima volta che a dar fuoco alle porte succede.
Rinasce la colonna veneta
Alla crisi politica delle Brigate rosse non corrisponde una crisi organizzativa. Tutt’altro, oltre alla rinata colonna milanese, nel corso del 79 si è ricostituita la colonna veneta (sciolta dopo l’arresto di Semeria) ed entro qualche mese nascerà anche la colonna napoletana.

Nadia Ponti e Vincenzo Guagliardo
Il veronese Michele Galati, ex studente di scienze politiche, e Marco Fasoli sono stati scarcerati nell’estate del 78 e sono stati subito incaricati di riallacciare i fili della presenza in Veneto. Ci hanno lavorato per un anno pescando soprattutto nell’area dell’Autonomia. Dapprima hanno aggregato alcuni elementi di un microgruppo che si chiamava “Iniziativa armata per il comunismo”. L’elemento di spicco è il mestrino Vittorio Olivero, trentenne, ha un banchetto di souvernir a Venezia. Qui c’è anche Sandro Galletta, l’elettricista del Comune imbarcato sul Papago, la barca con la quale Moretti andò a prendere armi in Libano. Poi c’è il 22enne Ruggero Volinia, un operaio veronese, già processato per un attentato, che entra con la sua ragazza e viene mandato a Padova ad arruolare autonomi. Entra anche l’udinese ed ex potoppino Gianni Francescutti, già irregolare della prima colonna, fa l’insegnante ed è considerato l’intellettuale del gruppo. Con lui anche la moglie Marina. La militanza nelle formazioni armate è spesso di coppia.
Per qualche settimana si ferma in Veneto anche Moretti, ospite di una coppia di fiancheggiatori, che vivono a Mestre con un bimbo di un anno, che si trova a giocare tra le nuvole di fumo delle Gauloise che Moretti fuma in quantità. Come già aveva mostrato nella prigione di via Montalcini, dove si dedicò a rimettere a posto il giardino, Moretti non ama il troppo disordine, così, trovando una pila di piatti sporchi di alcuni giorni, si mette a lavarli.
Il Friuli è un buon serbatoio, in particolare Codroipo. Qui nel 77, attorno a Radio Talpa, si è aggregato un gruppo di giovani, prevalentemente studenti. Alcuni di questi entrano nella neonata colonna. Tra loro anche un giovane operaio di Italcantieri, Cesare di Lenardo e pure la figlia di un dirigente della Dc codroipese, Anna Maria Sudati, che si fa comprare da papà un’appartamento a Venezia. Luogo sicuro, la ragazza è un’insospettabile, tanto che verrà usato da Moretti e Senzani e dall’esecutivo.
Vengono affittate con prestanomi basi a Venezia, Mestre, Treviso e Udine.
A metà 79 sono arrivati Nadia Ponti da Torino e Guagliardo da Genova, marito e moglie, per comandare la colonna. Finora sono stati messi a segno solo azioni minori, qualche auto bruciata e piccoli attentati, neppure firmati come Br. Azioni di addestramento, considerato che, a parte i quattro regolari, Ponti, Guagliardo, Galati e Fasoli, tutti gli altri sono nuovi e giovani. Molti studenti, ma anche qualche operaio. In totale tra 40 e 50.
Se l’idea di una rivoluzione armata era un errore politico, per non dire una sciocchezza politica, nei primi anni 70. Nel 79, in una situazione politica pressochè normalizzata, e socio-economica completamente diversa, è un’assurdità che va al di là della politica ed attinge alla perdita di qualunque razionalità. Eppure ci sono ancora, non grandi masse e neppure piccole folle, ma alcune decine di giovani che decidono di imbracciare le armi e vecchi che ancora li arruolano.
… e uccide il vicedirettore del Petrolchimico
Il Petrolchimico di Porto Marghera è un simbolo delle lotte operaie degli anni 70, delle quali è stato protagonista un Comitato autonomo con un discreto seguito. Dunque può essere un terreno fertile e comunque un simbolo da cui cominciare, anche se, può sembrare incredibile, tra le migliaia di operai non c’è neppure un brigatista.

Il corpo di Sergio Gori coperto da un lenzuolo
L’intervento politico delle Br conosce un solo schema: sparare a qualcuno. Si sceglie il direttore dello stabilimento, ma poco dopo viene trasferito. Il nuovo si chiama Taliercio, ma di lui si sa poco allora si passa al vice, Sergio Gori. Un ingegnere di bell’aspetto, dalla brillante carriera, rimasto orfano e cresciuto dalla sorella. E’ un obiettivo facile, perchè è un abitudinario. Il piano è di gambizzarlo, ma nel frattempo PL, A Torino, uccide Ghiglieno dirigente Fiat e allora, per non essere da meno, si decide di ucciderlo. Questo è il livello politico. Naturalmente la decisione viene dall’esecutivo. Galati non condivide e per questo si pensa di congelarlo, ma il dissenso poi rientra.
Gori tutte le mattine alle 7,30 scende nel cortile interno e prende la sua 500. La mattina del 29 gennaio non fa in tempo ad aprire la portiera, alle sue spalle sopraggiungono Guagliardo e Olivero, soprannominato Reptilia per il suo sangue freddo, aria dimessa, di politica ne mastica poca, è un fedele esecutore. Negli anni 90 sarà arrestato per spaccio di droga.
Gori non li sente, la pioggia battente copre i loro passi. Il primo spara alcuni colpi con la sua 7,65. Gori cade a terra urlando per il dolore. Olivero si avvicina e gli spara in testa. I tre di copertura, la Ponti, Fasoli e Marinella Venturi, una romana rifugiatasi in Veneto, possono ripiegare, è tutto tranquillo. Anche i due killer si allontanano. Si sentono solo le grida straziate della moglie, che è corsa giù, ed è inginocchiata accanto al cadavere, mentre la pioggia porta via il sangue.
Guagliardo dirà che rimase impressionato dalle grida di dolore. Gli spiegarono che doveva usare un calibro più grosso, che provoca un effetto shock e meno dolore.
Si spara anche in fabbrica
L’Alfa Romeo, o meglio i suoi dirigenti, sono da sempre un obiettivo privilegiato delle Br milanesi. Come il Petrolchimico, l’Alfa è una delle aziende dove, prima soprattutto Lotta Continua, poi l’Autonomia hanno avuto una presenza di qualche peso, anche numerico nei primi anni 70, ora soprattutto in termini di radicalità nelle forme di lotta, che spesso sfociano nella violenza.
Le Br non vi hanno mai attecchito, ma negli ultimi tempi sei o sette operai sono entrati a far parte della ricostituita colonna. Il capo all’Alfa è Vittorio Alfieri, un passato nell’associazionismo cattolico poi in Rosso, ben camuffato nelle vesti di delegato Fim-Cisl ed anche nell’esecutivo del consiglio di fabbrica.
La gambizzazione di Pietro Dallera, un dirigente dell’Alfa di Arese, il 30 gennaio, rientrerebbe nella cupa routine brigatista, se non fosse per le modalità. Viene infatti ferito dentro alla fabbrica, in un viale interno, da tre uomini con la tuta dell’Alfa. Sono certamente tre esterni, anche perchè agiscono a volto scoperto, ma qualcuno li ha aiutati ad entrare con tesserini falsi e poi ad uscire. Un messaggio dirompente che le Br lanciano all’azienda ed anche agli operai: siamo dentro e padroni della fabbrica.
Nuclei comunisti territoriali.
L’ennesima sigla è Nct ed è una sigla esclusivamente torinese. In realtà è l’appendice locale di Rosso. Il leader è uno studente di lettere, Guido Borio, non sono un’organizzazione strutturata, ma hanno una presenza in alcune fabbriche. Si tratta in tutto di una cinquantina di persone, con un nucleo armato di una decina o poco più. Le loro azioni sono a bassa intensità militare: auto bruciate, sabotaggi e così via.
Il 31 gennaio decidono di alzare il tiro. Fanno irruzione in una fabbrica, la Framtek. Immobilizzano nella guardiola quattro persone e lanciano alcune bombe incendiarie. Prima di andarsene, fanno sdraiare a terra i due guardiani e gli sparano una decina di colpi alle gambe. Uno dei due, Carlo Ala, muore per dissanguamento. L’azione viene criticata anche all’interno del gruppo e segna la fine dei Nct. Anche perchè tre mesi dopo vengono arrestati Borio e altri due leader e i Nuclei si sciolgono.
Omicidio all’Icmesa
La campagna di Prima linea contro il comando d’impresa sembra già abbandonata. Ora si parla di campagna sulla sanità. L’obiettivo scelto è l’Icmesa, la fabbrica di Seveso che nel 76 provocò il più grave disastro ambientale in Italia. L’azienda eviterà i processi e le probabili condanne pagando un risarcimento di alcuni miliardi. Già i Cocorì avevano scelto di fare giustizia sparando all’ufficiale medico di Seveso, accusato di aver nascosto la gravità dell’inquinamento. E infatti pare che la nuova iniziativa sia nata da un suggerimento di Maurizio Costa, che era uno dei capi dei Cocori, ora in PL
Questa volta, i tempi son cambiati, non si ferisce più, si uccide. Il bersaglio scelto è un dirigente dell’azienda, Paolo Paoletti, che già era finito in carcere per disastro colposo, ma per pochi mesi.
Il 5 febbraio, quando esce di casa, nel centro di Monza, lo affrontano Viscardi e la Borelli, tornata in piena attività. L’uomo non è sorpreso, aveva detto alla moglie che ogni volta che usciva o entrava si aspettava qualcosa. Il primo gli spara alcuni colpi, l’uomo muore sul colpo, loro se ne vanno. Poco distanti li aspettano Laronga e Forastieri, che lanciano un paio di fumogeni per coprirsi la fuga.
L’azione è stata decisa dal ricostituito comando nazionale, ora piuttosto numeroso: Segio, Bignami, Laronga, Rosso, Ronconi, Giai, Costa e Ciro Longo, un napoletano da poco trasferitosi a Milano. Un ruolo lo ha avuto anche Fiammetta Bertani, la giovane consulente aziendale, che ora è la ragazza di Bignami. E’ stata lei a studiare la vittima e a raccogliere due del commando e portarli a casa propria.
La legge Cossiga
Il giorno dopo, il 6 febbraio, il governo vara nuove misure, le prime di una qualche consistenza, per combattere il terrorismo. Prevedono un inasprimento delle pene e del carcere preventivo per reati attinenti al terrorismo, più estesi poteri di perquisizione per la polizia e soprattutto sconti di pena per chi collabora con la giustizia.
Ora si uccidono anche i compagni
Nel luglio del 79 la polizia ha arrestato due di PL, Russo Palombi, che faceva parte del commando che uccise Alessandrini, e Claudio Vaccher, che lo ospitava. Assieme, poco prima, avevano fatto una rapina. Vaccher ha un cugino, William, 26 anni impiegato alla Snam. E’ uno che da qualche tempo è nel giro di PL, e ora pare sia pronto per diventarne un militante a tutti gli effetti. La polizia lo interroga, William non è un duro, ha paura di finire in galera e allora racconta un po’ di cose, non molto, perchè non sa molto. Dice che quello che lo ha reclutato si chiama Alberto, gira con un cane lupo e abita in zona Corvetto. E’ Donat Cattin.
Qui succede una cosa strana, perchè le sue informazioni vengono passate all'”Occhio”, il giornale della P2 diretto da Maurizio Costanzo, dove però l’Alberto viene identificato con Segio. L’impressione è che la polizia abbia voluto mettere sull’avviso Donat Cattin, facendo però un altro nome, perchè non apparisse come un favore fatto al padre.

La disperazione del padre di fronte al corpo del figlio William
Presto comincia a girare voce che sia stato William a parlare. <Fino a quel giorno – dirà Bignami – nessuno di noi concepiva il fatto che il compagno arrestato potesse collaborare>.
La cosa allarma i capi di PL. Anche loro sanno che non può aver detto chissà che, che l’organizzazione non corre seri pericoli. Ma, dopo che la sede di Firenze è stata smantellata grazie ad alcuni che han parlato, questo è un gran brutto segnale. E’ la conferma che alcuni militanti non ci credono più tanto, forse hanno annusato l’aria, comunque non sono disposti a farsi la galera e son pronti a tradire. Ci vuol poco a capire che questo è un rischio mortale. Dunque bisogna mandare un segnale. William è solo un ragazzo che ha avuto paura, ma deve essere giustiziato, per dare l’esempio.
E così Prima linea scende un altro gradino dentro al buco nero della feroce, ma anche disperata, follia omicida. E’ lei a inaugurare la stagione dello scannamento dei compagni più deboli, anche se poi saranno i brigatisti i più attivi su questo nuovo fronte.
La mattina del 7 febbraio, appena due giorni dopo l’uccisione di Paoletti, William esce di casa, s’incontra con un paio di amici, ma improvvisamente sbianca e tenta di scappare. Ha visto avvicinarsi quattro persone, almeno un paio li conosce, e immagina anche perchè lo cercano. Sono Bignami, Segio, Rosso e la Ronconi. Forse non è stata una decisione facile e comunque non è un agguato come altri, per cui è il comando nazionale a incaricarsene. Fa pochi passi William e gli sono addosso, Rosso e la Ronconi più avanti degli altri. Cade colpito al torace, poi i colpi di grazia alla testa e alla gola.
Dopo qualche ora una voce femminile, è di nuovo Fiammetta, rivendica l’agguato. Il giorno dopo un lungo volantino cerca di spiegare l’omicidio.
Il linguaggio di PL è sempre contorto, astratto, iniziatico. Un magistrato, dopo aver interrogato Rosso (che era l’autore abituale dei volantini), ammise di non non aver capito quasi nulla di quel che diceva. Questo volantino è ancora più involuto e oscuro del solito, sembra quasi tradire un certo imbarazzo. <… la guerra civile è una porta stretta in cui i momenti di valorizzazione antagonista della personalità dell’uomo vengono confrontati con la necessità di costruire forza…. L’eliminazione di un delatore è la scelta di spaccare con un rapporto opportunista, di imporre ad ogni compagno la chiarezza sul livello di scontro che oggi si affronta, di imporre una rottura dell’esistenza privata separata… >.
Gambizzato in casa. Il suicidio di Dario
Il 10 febbraio ricompaiono sulla scena (rapine e piccoli attentati a parte) i Reparti comunisti d’attacco. Maria Teresa Zoni e Dario Bertagna, che chiamano canarino, un trentenne che lavora come tecnico in un’azienda del milanese, suonano alla porta di Mario Miraglia, esperto di formazione e selezione dei quadri d’azienda. Fanno finta di vendere Famiglia cristiana, lui apre e loro entrano. Sotto la minaccia delle armi legano la moglie e il figlio di 18 anni, fanno stendere lui sul letto e Dario gli spara a una gamba. Poi se ne vanno dopo aver tracciato scritte sui muri. Pare che non sappiano che Miraglia è un dirigente del Pdup, il partito erede del Manifesto.
Dario è una figura minore, non molti lo conoscono, ha cominciato in Rosso, poi nelle squadre delle Fcc. La sua scelta di lotta armata, così ha raccontato, nasce anche dalla scoperta che alcuni capi d’azienda erano iscritti al Pci. E’ un ragazzo chiuso, introverso, forse per questo gli hanno dato quel soprannome. Verrà arrestato dopo qualche mese, condannato a 15 anni. Dopo otto anni, quando gli negano la libertà provvisoria, si suicida
L’omicidio Bachelet
Vittorio Bachelet, 54 anni, è l’uomo perfetto per un nuovo attacco al cuore dello Stato. E’ un democristiano, è stato presidente dell’Azione cattolica, molto vicino a due Papi ed è vicepresidente del Csm, che nella fantasia delle Brigate rosse significa il capo di tutti i magistrati. Per di più, quasi un sigillo simbolico, era molto vicino a Moro.
Bachelet insegna all’università di Roma. E, sorprendente coincidenza, una delle poche persone che conoscono bene la Braghetti, e cioè l’inquilina di via Montalcini che già l’aveva segnalata alla polizia, ai primi di febbraio la vede aggirarsi vicino all’ingresso di Scienze politiche. Lei non sa che sta studiando orari e abitudini di Bachelet, ma corre comunque dalla polizia ad avvertirli. Ma non servirà.
Il 12 febbraio Bachelet termina la sua lezione nell’aula di scienze politiche intitolata a Moro. Sono le 10 e mezza, sale le scale assieme alla sua assistente, che è Rosy Bindi, e due studenti. Si fermano sul pianerottolo a parlare, proprio di fronte alla vetrata d’ingresso. Intorno ci sono altri studenti. A cavallo della porta c’è una ragazza, con il suo faccino infantile, da santarellina. Fissa il professore, aspetta che esca, ma quello continua a parlare. Allora entra lei, fa pochi passi e arriva alle spalle di Bachelet. E’ la metà di lui, ma con piglio deciso lo prende per un braccio e lo gira verso di sè. Nessuno si è accorto che ha in mano una pistola, forse gli dice qualcosa, poi spara quattro colpi calibro 32 alla pancia, quasi appoggiando la canna contro la giacca. La Bindi urla, gli studenti attorno non capiscono, tra loro sicuramente ci sono almeno un paio di brigatisti.
Bachelet barcolla, cerca di appoggiarsi al muro, ma scivola a terra. In quell’attimo compare dal nulla un ragazzo, anche lui basso e magrolino, è Seghetti il capo-colonna, si avvicina e spara 4 colpi, l’ultimo alla testa. Ormai è una regola fissa, il colpo di grazia dentro al cervello.
I due si defilano gridando: <C’è una bomba, scappate!>. Panico, fuggi, fuggi.
Nel volantino le Br sostengono che Bachelet aveva <trasformato il Csm da organismo formale a mente politica assumendo il controllo delle attività giuridiche dei singoli magistrati e assicurando un collegamento organico all’Esecutivo>.
La Braghetti racconterà: <Grazie anche all’omicidio Bachelet ho fatto carriera nelle Br>. Di lì a poco entrerà nella direzione della colonna romana.
In soli due mesi sono già state uccise 12 persone.
g.g.
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