Capitolo precedente: 39) Peci, catturato, inizia a parlare. PL uccide il giudice Galli
L’insospettabile Anna Maria

Anna Maria Ludman
Nel fiume di cose che Peci ha raccontato ce n’è una che fa scattare i carabinieri. L’ex capo colonna ha detto di aver partecipato in dicembre alla direzione strategica delle Br, che si è tenuta in un appartamento in via Fracchia, a Genova. Gli uomini di Dalla Chiesa individuano rapidamente l’appartamento, al piano terra di una palazzina di quattro piani, in una via stretta nella parte alta di Genova. La proprietaria è Anna Maria Ludmann, un’insospettabile. Trentenne, fa la segretaria in una ditta di spedizioni. Famiglia benestante, il padre era un capitano di lungo corso. Cattolica, si è diplomata alla scuola svizzera. Non viene da gruppi extraparlamentari, anzi non risulta abbia avuto trascorsi politici. Anche l’aspetto è quello di una donna tranquilla e borghese, occhiali da miope, acconciatura old style. Chi la conosce la descrive come mite e gentile, lontanissima dalla violenza, apprezzata e stimata da tutti.
Eppure casa sua, un bell’appartamento di 7 stanze ereditato dal padre, è la più importante base delle Br a Genova, piena di armi e di clandestini. Pare che la nuova vita sia cominciata quando ha conosciuto un brigatista che è venuto a stare da lei.
I carabinieri tengono d’occhio il numero 12 per alcuni giorni, sanno che ci abitano tre o quattro persone, ma non li conoscono. Cento metri più avanti abitava Guido Rossa e proprio in quell’appartamento si sono infilati i brigatisti dopo averlo ucciso.
Il blitz notturno
La notte del 28 marzo piove a dirotto. Una trentina di carabinieri, per lo più in borghese, hanno circondato la palazzina. Dalla Chiesa in persona ha deciso come deve andare e l’orario. Perchè alla stessa ora scatteranno molti arresti anche a Torino. Alle 4 una decina di carabinieri, con giubbotti antiproiettile e caschi con visiera pure antiproiettile, comandati dal capitano Riccio, bussano alla porta. Il dito sui grilletti, sanno che i brigatisti sparano, è successo più volte e dei colleghi sono morti. Hanno portato anche un fucile a pompa. Sono molto nervosi, al punto che a uno scappa una raffica di mitra, che si pianta nell’intonaco.
<Aprite carabinieri>. Dall’interno una voce femminile risponde: <Va bene, ora apro>, ma invece gira le mandate della serratura. Allora i carabinieri sfondano la porta. Dentro è buio, c’è una tenda che cela un lungo e stretto corridoio. Gridano di nuovo: <Arrendetevi>. Una voce maschile risponde: <Va bene, siamo disarmati>. Il maresciallo Benà, rassicurato, solleva la visiera che si è appannata. In quell’attimo il buio è squarciato da un lampo e un proiettile gli si conficca nell’occhio. Il militare urla, gli altri sparano e sentono il tonfo di un corpo che cade. Intravvedono due persone avanzare carponi nel corridoio, accendono una fotoelettrica, sono armati, la donna ha anche una bomba. Allora sparano a volontà. Poi il silenzio.
Sono tutti morti, quattro cadaveri, in mutande, canottiera e maglietta, sono distesi nel corridoio, in pozze di sangue. Le pareti sono bucate dai pallettoni di piombo.
Ci mettono un po’ a identificare i tre uomini. Uno è Lorenzo Betassa, operaio della Fiat-Presse, delegato sindacale Fim-Cisl, è l’unico vestito, forse era lui di guardia. Un altro è Piero Panciarelli, 25 anni, anche lui operaio, alla Lancia. Due di un certo peso della colonna torinese, autori di diverse azioni armate. Erano scappati da Torino dopo gli arresti di dicembre. Ma il quarto chi è? E’ quello più importante, capo della colonna genovese e membro dell’esecutivo, ma nessuno lo conosce. E’ Riccardo Dura, l’assassino di Rossa.
Ma i conti non tornano
Questa è la stringata ricostruzione fornita dai carabinieri. Ma le cose non sono andate così, ci sono troppe incongruenze e punti oscuri. L’orario innanzitutto: il direttore del Corriere Mercantile assicura che alle tre lo hanno avvertito della carneficina. E questo coincide con l’orologio della Ludmann, che nelle foto segna le 2,45. Perchè i carabinieri parlano delle 4?
Il maresciallo ferito (perderà l’occhio) arriva all’ospedale alle 6. Possibile che sia rimasto due ore (o addirittura tre) con un proiettile in un occhio?
La porta risulta intatta, dunque non è stata sfondata, mentre invece risulta sfondata una porta interna. Anche nel portone dell’edificio non ci sono segni di effrazione, come è stato aperto? Tempo dopo il cap. Riccio dirà che ha aperto una vecchietta. Alle 4 del mattino una vecchietta si alza e scende ad aprire? Poco credibile. Ma sono gli stessi carabinieri poi a far filtrare la notizia che avevano le chiavi, trovate in tasca a Micaletto. Dalla Chiesa smentisce, ma il fatto che entrambe le porte non sono state forzate sembra confermarlo.
O forse invece la Ludman aveva tolto e non dato tre mandate, come dicono i carabinieri, anche perchè è strano che tre clandestini dormano senza aver neppure dato i “giri” alla serratura.
E poi i cadaveri, sono tutti allineati lungo il corridoio, posizione più plausibile per gente che si è arresa, che non impegnata a sparare, cosa che avrebbero fatto affacciandosi dalle porte interne.
I carabinieri dicono di aver sparato raffiche di mitra, ma Dura è stato ucciso da un solo colpo alla nuca sparato da meno di un metro, dall’alto in basso, dice la perizia. E anche gli altri cadaveri, sia per la posizione sia per le ferite, lasciano pensare ad un’esecuzione. In tutti la chiazza di sangue è sotto la testa. Tanto che, 24 anni dopo, quando le foto scattate nell’appartamento furono rese pubbliche, la Procura ha riaperto l’inchiesta, a seguito di un esposto, ma il faldone con tutti gli atti dell’epoca è sparito.
Ci può stare che i carabinieri, di fronte ad un collega colpito (a che ora?), presi dalla paura e dall’eccitazione si siano fatti prendere la mano e abbiano sparato fino ad ucciderli tutti. Ma un colpo alla nuca è qualcosa di più. E non è la solita dietrologia, le cose che non tornano sono troppe. Soprattutto, il maresciallo Benà quando e da chi è stato ferito?

I corpi di Riccardo Dura e Lorenzo Betassa
I sospetti e i dubbi nascono da subito anche per la condotta dei carabinieri, che blindano la casa, non danno informazioni, perquisiscono e prelevano documenti tagliando fuori i magistrati. Anche se non tutti. Quando il magistrato di turno è fatto entrare alle 6,35, trova nell’appartamento un collega, il dott. Di Noto, che rovista tra le carte. Non ha ragione di essere lì, ma forse un motivo c’è. Dirà più di un magistrato: tutti sapevamo che era legato ai servizi segreti. Infatti i carabinieri vanno subito a prenderlo a casa.
Poi la domanda che molta stampa si fa: perchè quel blitz non necessario e anche imprudente? Al buio, in un corridoio angusto. La casa era circondata, si poteva costringerli ad uscire con calma. L’impressione è che Dalla Chiesa volesse l’azione eclatante, volesse impressionare e mandare un segnale ai brigatisti e anche all’opinione pubblica. Le parole del generale sembrano confermarlo: <Con Montenevoso è crollato il mito dell’imprendibilità. Con Peci è crollato il mito del silenzio. E con via Fracchia il mito dell’invincibilità militare>. Non c’è prova che l’ordine fosse di uccidere, ma era un’eventualità prevista. Poche settimane prima quattro loro colleghi erano stati uccisi dalle Br a Genova e la pulsione alla vendetta appartiene anche ai carabinieri.
Insomma il segnale che arriva da via Fracchia è chiaro: d’ora in poi sapete che a fare il brigatista si muore anche. E che lo Stato è pronto ad uccidere.
Il dirigente dell’ Ansaldo, Giobatta Clavarino, può festeggiare. Senza saperlo ha salvato le gambe e forse la vita. Il suo nome era in cima alla lista delle prossime vittime trovata nell’appartamento.
Fulvia Miglietta invece, uno dei capi della colonna, così cattolica che aveva chiarito che lei non avrebbe mai sparato, scappa in Francia, dove diviene l’elemento di contatto tra le Br (di Senzani) e l’Hiperyon. Un giorno dalla finestra del carcere vedrà una <croce illuminata> e finirà ad insegnare catechismo.
Un altro, che di li a poco decide che è meglio cambiare aria, è Livio Baistrocchi, che da un giorno all’altro sparisce e nessuno ha mai più saputo dove sia finito. Dei capi della prima ora a Genova è rimasto solo Lobianco. Per l’imprendibile colonna genovese è iniziata un crisi che sarà rapida e irreversibile.
Il “tesoro” di via Fracchia
C’è un altro mistero, o presunto tale, in via Fracchia. Due anni dopo il procuratore Squadrito fa una dichiarazione clamorosa: <In via Fracchia abbiamo trovato un tesoro… una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Moro>. Anche il sostituto che si occupa delle indagini conferma: <Sentii parlare di appunti di Moro a una riunione con magistrati di altre sedi. Ma a me i documenti sequestrati in via Fracchia non li hanno mai fatti vedere. Squadrito mi disse che erano in possesso di “chi di dovere”>. E, guarda caso, il magistrato soprannominato “Di Noto-Servizi”, era piombato subito in via Fracchia e si era messo a rovistare tra le carte trovate.
In via Fracchia dunque c’era l’originale del memoriale di Moro o comunque una copia completa? E chi l’ha fatta sparire? Squadrito non è uno che passava di lì, è il capo della Procura. Tutti però smentiscono, i carabinieri ed è ovvio, ma anche i magistrati di Torino. Non è mai più stato possibile chiarire se c’erano carte di Moro o no e se di nuovo qualcuno le ha fatta sparire.
E’ certo però che Dalla Chiesa aveva ricevuto l’informazione che in via Fracchia c’erano documenti molto importanti e anche dov’erano nascosti. Del resto quella era una delle basi ritenute più sicure e infatti c’era l’archivio nazionale delle Br. Una conferma viene dal fatto che, appena entrati nell’appartamento e uccisi i brigatisti, i carabinieri si sono messi a scavare nel giardino, riempiendo alcuni grossi sacchi di carte. Forse anche per questo la casa è rimasta inaccessibile per diverse ore.
La stessa notte del 28 marzo a Torino vengono presi una decina di giovani. Sono figure di secondo piano. Il giorno dopo, al processo per direttissima, Domenico Jovine, uno degli arrestati, legge un documento che inizia: “Sono un licenziato Fiat, uno dei 61”
Peci fa terra bruciata
Il primo aprile Peci accetta di parlare coi magistrati o Dalla Chiesa decide che è giunto il momento. Alle sei del mattino, mentre lo trasferiscono a Pescara fa chiamare Caselli, si fermano in una piccola stazione dei carabinieri e per circa 48 ore parla ininterrottamente.
Il primo verbale inizia così: <Collaboro perché non ci credo più, collaboro per fermare questa fabbrica di morte, collaboro anche perché il generale Dalla Chiesa mi ha detto che è in cantiere una legge per aiutare chi si pente a ricostruirsi una vita. Mi sono convinto che la lotta armata porta solo danno alla classe operaia>.

Patrizio Peci
Decine di nomi, indirizzi di basi, nomi e ruoli per ogni attentato, persino le armi usate in ogni singolo agguato. Le Brigate rosse, che erano ancora in larga misura un oggetto misterioso, non hanno più segreti. Le sue confessioni, nel giro di pochi giorni, portano a decine di arresti. La colonna di Torino viene spazzata via, ma scattano arresti anche in altre città.
Secondo Dalla Chiesa la collaborazione di Peci ha portato all’arresto di 85 brigatisti
Molti sono nomi di insospettabili: <Quando li arrestammo – ricorda Caselli – si mostravano indignati per l’accusa. Ma poi, sentendo che conoscevamo il loro segretissimo nome di battaglia…. confessavano. Tutti>.
In realtà in una prima fase i brigatisti resisteranno sulla linea del prigioniero politico che non collabora. L’ondata di pentiti arriverà dopo diversi mesi e il numero di irriducibili, a differenza delle altre organizzazioni combattenti, rimarrà comunque alto.
Quasi tutti coloro che si “pentiranno” diranno che da mesi, prima di essere arrestati, avevano maturato un ripensamento e stavano per abbandonare, la lotta armata. E’ vero solo in pochi casi. E’ vero che molti hanno capito che la lotta armata è sconfitta, che le cose sono cambiate, che non ci credono più o forse sono solo stanchi di quella vita, ma non avrebbero mai abbandonato, non ne hanno la volontà o il coraggio, è troppo difficile. Quando vengono presi per loro è come una liberazione e ci vuole poco a farli parlare. Poi ci sono quelli che non hanno alcun ripensamento, vogliono solo evitare la galera e non pagare il conto.
Il soccorso della spia Russomanno
Ma non è finita. Il 30 aprile il Messaggero pubblica buona parte dei verbali di Peci. Potrebbe essere un duro colpo per le indagini. Le Br scoprono così chi è “l’infame” che ha distrutto la colonna torinese. Ed è un messaggio per coloro che pensano di collaborare: state attenti non siete protetti. A fare avere i verbali al giornale è stato Silvano Russomanno, numero due del Sisde.
Un personaggio chiave degli anni delle trame e delle bombe. Ex nazista, braccio destro di D’Amato agli Affari riservati, è una delle ombre che si sono mosse dietro le stragi. E’ colui che fece arrestare Valpreda e metterà lo zampino anche in quella di Bologna.
Qualcuno non ha interesse a che le Br vengano sconfitte.
Conseguenze di via Fracchia .
La strage di via Fracchia è un duro colpo, non solo per le Br. Tutti ora hanno in testa che la guerra non è più a senso unico, anche dall’altra parte si spara per uccidere. Anche se poi raramente sarà così. Ma non è questo a produrre ripensamenti e defezioni, anzi ancora per tutto l’80 e anche l’81 ci saranno alcune decine di giovani pronti ad arruolarsi. Molto più letale di quel corridoio pieno di sangue e cadaveri, sarà l’esempio di Peci e la prima legge sui pentiti appena approvata: passare dall’altra parte ora si può.
E poi stranamente la vendetta delle Br, che tutti si aspettano, non arriva. E’ vero che la colonna torinese è praticamente azzerata e quella di Genova è decapitata, ma quella romana e veneta sono intatte e a Milano Moretti e la Balzerani hanno già rimesso in piedi una colonna tutta nuova. Eppure sono solo i milanesi della W.Alasia a decidere di rispondere a Dalla Chiesa, non colpendo i carabinieri, ma un obiettivo più facile: la Dc milanese.
Servi di Kossiga
La sera del primo aprile nella sezione Dc Perazzoli a Quarto Oggiaro c’è una riunione, parla l’onorevole Nadir Tedeschi. Ci saranno una ventina di persone. Nella sala entrano quattro brigatisti coi volti coperti. A guidarli è una donna, Aurora Betti, l’insegnante di lettere che è il nuovo capocolonna. Con un basco multicolore calcato fino alle sopracciglie e una sciarpa colorata davanti alla bocca. Tutti a mani in alto, i

Tre delle vittime
quattro si fanno consegnare documenti e chiavi di casa e delle auto di tutti. Costringono due a reggere uno striscione e gli altri dietro, per la foto di gruppo. Un giovane traccia sul muro la scritta “Onore ai compagni cad”, ma non la finisce. La Betti grida che sono anche loro responsabili della strage di Genova, poi ne sceglie quattro, l’onorevole, il segretario della sezione, un giornalista del Popolo e Antonio Iosa, il presidente del circolo Perini che ha organizzato l’incontro.
Non è una scelta a caso, li conoscono. Li portano in fondo alla sala e gli ordinano di inginocchiarsi. Iosa dice qualcosa, allora il giovane che la Betti chiama Silvio, ma si chiama Roberto Adamoli, 20 anni, uno che verrà poi espulso dalla colonna, perchè <era un cane sciolto, troppo individualista>, gli punta la pistola silenziata alla tempia. <Cos’hai da dire bella faccia>. <Ho moglie e bambini, non spararmi>. <Inginocchiati stronzo, verme democristiano>. Ma lui non si inginocchia. E’ certo che sarà ucciso. Invece ad un cenno della Betti sparano alle gambe dei quattro. Adamoli grida: <Ecco quello che meritano i servi di Kossiga>. E se ne vanno.
Disarmo con morto
Guido Manina, uno dei piellini della prima ora a Torino, è un po’ in crisi. A causa di un borsello perso durante una rapina, che ha portato all’arresto di due compagni, è stato congelato. Essendo già in clandestinità, se ne sta a casa di due amici, due delle ronde, il ventenne Daniele Gatto e Giorgio Soldati, uno che farà una brutta fine. A Manina hanno ritirato anche la pistola e allora lui propone di disarmare un poliziotto. Una roba facile, lo si fa da anni. Gli altri due, piuttosto inesperti, prima si tirano indietro ma poi accettano.
Alla fine la scelta cade su una guardia della Mondialpol, Giuseppe Pisciumeri, che ha in dotazione una bella SW calibro 38 e poi sembra mingherlino. Il 10 aprile Manina e Gatto lo aggrediscono alle 7 del mattino per strada. Ma quello è un trentenne proletario calabrese, non uno studentello, reagisce. Sono avvinghiati, Manina riesce a sfilargli la pistola, ma lui lo stende con una gomitata, si libera di Gatto e si ributta su Manina, ma quello spara. Un colpo dritto al cuore. La guardia si rialza, vorrebbe inseguirli, fa due passi e cade morto.
I due non sanno che lo hanno ucciso. <Attendendo le notizie del Tg serale, mi ritrovai a pregare – racconterà Gatto – Io che avevo ormai da anni abbandonato le mie convinzioni religiose, che mi ero allontanato dagli ambienti cattolici, mi ritrovai a pregare, forse nel modo più sincero mai provato… la tragica notizia della morte spezzò ogni speranza e mi sentii sprofondare in un vuoto ancora più profondo>. Un vuoto che non provocherà alcun ripensamento, continuerà la sua militanza e anche quando sarà finita continuerà con le rapine.
Prima Linea nella rete
Un ultimo morto prima di chiudere, perchè a Torino Prima linea ha i giorni contati. I carabinieri hanno arrestato due della ronda di Orbassano, e uno dei due racconta tutto quel che sa, non è molto ma basta per iniziare. Il 22 aprile finiscono in manette in dieci. Tutti ragazzi delle Ronde, a parte un paio, gente di secondo piano. Oltre a quel paio c’è anche un nome grosso, Fabrizio Giai. La carriera di “Ivan il normanno”, forse il piellino con il maggior numero di azioni, ferimenti e uccisioni all’attivo, è finita.

Roberto Sandalo
Grazie a Peci, la settimana dopo la polizia cattura Roberto Sandalo. Il pentito aveva parlato di un “piellino” in procinto di entrare nelle Br. Non ne sapeva il nome, ma gli indizi che fornisce sono sufficienti per risalire a Sandalo. Era uscito da Prima linea al seguito di Donat Cattin, sulle posizioni del <sospendiamo la lotta armata> e invece si dava da fare per diventare brigatista, per questo Peci lo aveva conosciuto. Nel giro di 24 ore Sandalo, soprannominato “‘Roby il pazzo” per la sua propensione alla violenza, passa dalla scelta brigatista a quella di collaboratore.
Sandalo è come Peci, sa tanto e parla, parla, dimostra anche una notevole memoria, fornisce nomi, indirizzi, dettagli.
Nel giro di 15 giorni la Digos arresta 21 militanti di PL, a Torino e Milano. Tra loro due capi storici; Bruno Laronga e Silveria Russo. C’è anche Fiammetta Bertani e pure Piero del Giudice, che non è in PL, ma pare che negli ultimi tempi volesse entrarvi.
Chi sfugge all’arresto lascia Torino e Milano e si sposta verso sud: Firenze, Roma, Napoli, anche in Puglia.
Evasione
In aprile si celebra il processo contro le Fcc. Il suo leader Corrado Alunni è stato portato a S.Vittore e qui incontra Vallanzasca, il bandito. I due si piacciono, forse sentono di avere qualcosa in comune. Di sicuro sono tipi decisi a tutto e decidono di organizzare un’evasione, mettendo assieme politici e comuni. Riescono a far entrare in carcere tre pistole e il 28 aprile, durante l’ora d’aria scatta il piano.
Sono in 11, ci sono, oltre ad Alunni, gli ex Fcc Marocco, Bonato e Klun, e uno dei Nap. Prendono in ostaggio una guardia e usandola come scudo arrivano fino all’uscita del carcere. Sparando convincono i due di guardia ad aprire e sono in strada. Ma la polizia è già stata allertata. Inizia un inseguimento per le vie del centro. I fuggitivi sparano e gli agenti rispondono a raffiche di mitra. Alunni viene colpito alla pancia e Vallanzasca alla testa. Vengono tutti ripresi tranne cinque, tra cui Marocco e Bonato. Il primo decide che il miglior rifugio sono le Brigate rosse.
PL, l’ultima esecuzione
Prima linea è in fuga, sradicata dalla realtà nella quale era nata, senza più alcun legame con le realtà sociali che l’avevano espressa, organizzativamente a pezzi e politicamente morta. Eppure decide di uccidere ancora, come se un nuovo cadavere potesse evitarle un destino segnato. E con una ferocia pari all’assurdità dell’azione. L’omicidio è ormai la scimmia che sta sulla loro spalla, dalla quale non ci si libera, come da una siringa piena di eroina. La vittima è un giovane architetto di 30 anni, Sergio Lenci, colpevole di aver progettato una parte del nuovo carcere di Rebibbia, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei detenuti. E dunque, secondo PL, ridurre il “potenziale rivoluzionario” del proletariato prigioniero.
Il carcere è ormai l’unica realtà sulla quale la lotta armata vuole e può forse incidere.
Il 2 maggio è un venerdì, secondo giorno di un lungo ponte del primo maggio. A Roma molti sono partiti, Lenci è nel suo studio che lavora. Suonano alla porta, apre e si trova di fronte quattro giovani. Capisce subito di essere in pericolo e tenta di richiudere, ma quelli lo spingono dentro. Sono Bignami, Giulia Borelli, Ciro Longo e Mutti, il fondatore dei Pac che, sfuggito all’arresto, è passato in PL.
Gli legano le mani, gli incerottano la bocca e lo portano in bagno. Lo spingono a terra, tra wc e lavandino, a faccia in giù. Mentre uno scrive il solito slogan su un muro, Longo, 23 anni, gli spara un colpo alla nuca. Si era detto che doveva poi girargli la testa e sparargli alla tempia, come se un colpo alla nuca non bastasse ad ammazzare uno. Ma la vista di quel fiotto di sangue che esce dalla testa lo ha impressionato, non se la sente di toccarlo con le mani. Allora spara un altro colpo alla nuca, ma forse gli trema la mano o forse è spaventato dall’idea di bucare di nuovo quella testa o forse ancora un rudimentale silenziatore devia il colpo, che va a vuoto.
Se ne vanno, certi di aver giustiziato un “tecnico dell’antiguerriglia”. Ma Lenci non è morto, vivrà altri 21 anni, continuando a fare l’architetto, con un proiettile nella testa.
g.g.
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