Capitolo precedente 40) La strage di via Fracchia. L’inizio della fine per PL
Br, Peci continua a colpire
Nell’aprile e ancora in maggio dell’80 continuano gli arresti di brigatisti indicati da Peci. Finiscono dentro anche tre operai della Fiat, D’Amore, Di Blasi e Mattacchini, che era un altro dei 61 licenziati. Rosaria Roppoli, che per qualche tempo era stata la compagna di Peci, si costituisce. Anche se il “pentito”, per proteggerla, non aveva fatto il suo nome.

Sergio Spazzali
Tra i tanti nomi fatti da Peci ci sono anche quelli di due avvocati piuttosto noti. Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali. I due fanno parte di Soccorso Rosso, un gruppo di legali che dall’inizio degli anni 70 difende i militanti dell’estrema sinistra. Ma, ha raccontato Peci, questi non fanno solo il loro mestiere di avvocati, bensì collaborano con l’organizzazione, forniscono informazioni, fanno da messaggeri tra i brigatisti fuori e quelli in carcere. Il 19 aprile i carabinieri si presentano a casa dei due. Spazzali è arrestato a Milano e sarà condannato a 13 anni, che non sconterà, perchè scappa in Francia. Arnaldi, mentre i militari gli perquisiscono la casa, afferra una pistola e si spara.
Si torna a sparare a Roma
In maggio torna in azione la colonna romana, ma niente di clamoroso, diciamo la solita routine. Dopo la campagna contro magistrati e poliziotti, le Br scelgono un obiettivo nuovo, un dirigente del ministero del Lavoro, quello che gestisce l’ufficio di collocamento. Pericle Pirri viene ferito con sei colpi alle gambe il 7 maggio da Vanzi, Padula e Iannelli .
Nella notte due vigili notturni erano stati aggrediti, feriti (uno in maniera grave) e derubati delle armi. I “Gruppi proletari armati organizzati” spiegano con una telefonata: <hanno reagito e siamo stati costretti a sparare>.
Colpisci il tuo democristiano
Appena due giorni dopo le Brigate rosse tornano a far fuoco su un democristiano. Ancora una volta un oscuro segretario di sezione. Il commando è guidato da Arreni e composto da Roberta Cappelli, da Di Rocco e Marcello Basili.
Di Rocco, che già aveva partecipato all’uccisione dell’agente Granato, ha 23 anni, figlio di un muratore, cresciuto nel quartiere popolare di Casalbertone, ha frequentato un istituto tecnico, diventando il leader del collettivo della scuola. La famiglia, piuttosto povera, voleva mandarlo a lavorare, lui ha insistito per continuare a studiare. <Non voglio essere un altro ignorante nelle mani del padrone>. Ora lavora saltuariamente in cantiere e il 9 maggio fa da autista.
Tutt’altra storia quella di Basili, studente universitario, prima nelle Ucc, passato alle Br poco prima di Moro, a 19 anni, diverrà docente universitario di economia. Ma oggi per la prima volta deve sparare. Domenico Gallucci esce alle 7 del mattino a portare fuori il cane, loro lo sanno, lo fa tutte le mattine. Di Rocco lo accosta con l’auto, al suo fianco c’è Arreni che finge di chiedere un’informazione, dietro Marcello, che sporge il braccio e spara. La mano trema e lo scaglia, quello scappa, l’auto lo insegue in retromarcia, spara di nuovo, ma ancora a vuoto, Gallucci cade e altri sei proiettili vanno a segno. A terra, ferito, cerca aiuto, vede una ragazza giovane poco distante, che lo guarda e se ne va. Non sa che sotto l’impermeabile ha un mitra, era lì di copertura, come si dice in gergo.
Qualche settimana prima la stessa ragazza, la Cappelli, assieme al solito Iannelli aveva aggredito e messo alla gogna, cartello al collo, vernice rossa sulla testa e un paio di bastonate un altro Dc, un consigliere di circoscrizione. Sicuramente una dei capi dell’imperialismo mondiale. E’ curioso che le Br, Moro a parte, non abbiano mai colpito i dirigenti nazionali della Dc.
Alfredo Albanese, la vendetta per via Fracchia
L’incarico di vendicare i quattro uccisi a Genova, dopo l’iniziativa a caldo della Walter Alasia, è stato affidato alla colonna Veneta. L’idea è ovviamente quella di colpire i carabinieri. Dapprima si pensa di uccidere il capitano Ganzer, che è il braccio destro di Dalla Chiesa in Veneto. Ma dopo giorni di studio i brigatisti sono costretti a cambiare idea, Ganzer non ha orari, cambia spesso città. Si punta allora su un altro ufficiale, ma dopo giorni e giorni di appostamenti non sono riusciti nemmeno a vederlo. Il fatto è che i carabinieri dormono spesso in caserma.
Si pensa allora di sparare a una pattuglia. C’è un auto che fa spesso lo stesso tragitto con quattro militari a bordo. Il piano, che prevede di ucciderli tutti, è ormai pronto. Ma l’auto sparisce, forse si sono accorti di qualcosa. E’ passato ormai un mese da via Fracchia, a Venezia arriva Moretti: basta aspettare, dobbiamo dare una risposta. Se invece di un carabiniere sarà un poliziotto va bene lo stesso.
Ce n’è uno che sembra fare al caso, Alfredo Albanese, il capo della Digos di Venezia. Si occupa di terrorismo, ha orari regolari e non ha scorta. Sta indagando sull’uccisione del dirigente del Petrolchimico, Sergio Gori, ucciso dalle Br in gennaio. Ha lavorato anche con il giudice Calogero all’inchiesta “7 aprile”, è odiato dagli autonomi, infatti i Collettivi politici veneti hanno sparato una raffica di mitra contro casa sua. Un buon motivo in più per scegliere Albanese, attrarre i militanti dei Cpv in crisi.
Del resto i rapporti sono stabili e proficui da tempo. Savasta dirà che i collettivi autonomi avevano fornito la maggior parte delle informazioni e delle schedature su obiettivi da colpire in Veneto.
A tenere i contatti con le BR nell’80 è soprattutto Fausto Schiavetto, assistente di Toni Negri a Scienze politiche e responsabile dei “Nuclei Clandestini di Resistenza”. Una sigla collaterale ai Cpv, in sostanza coloro che ormai accettano il riconoscimento delle Br come nucleo centrale del partito in costruzione. Ed anche Claudio Cerica, 28 anni studente universitario e figlio di un esponente della Dc veneta, nonchè uno dei leader del nucleo armato dei Cpv e del Comitato autonomo di Porto Marghera

Il commissario Albanese davanti al corpo di Sergio Gori ucciso dalle Br
Il commissario non fa caso ad una ragazza, con una folta capigliatura, che più volte lo segue in motorino. E’ Marina Bono, appena 20 anni, fa l’impiegata a Treviso, è entrata nelle Br al seguito del suo ragazzo, quell’Adamoli che ora sta a Milano.
La mattina del 12 maggio il commando è pronto poco distante dalla casa di Albanese, in una frazione di Mestre. Nadia Ponti con un mitra e Michele Galati fanno da copertura. Vittorio Olivero, il venditore di souvenir, è su una 850, pronto a bloccare l’auto del commissario. La Bono e Marco Fasoli sono sul marciapiede, usando il vecchio trucco di scambiarsi qualche effusione. E’ la ragazza che deve dare il segnale che l’auto di Albanese sta arrivando, aggiustandosi i capelli.
Appena lo fa la 850 taglia la strada all’auto del poliziotto. Fasoli e la Bono corrono, Albanese sa di essere un obiettivo e tiene la pistola sul sedile. Ma è una questione di secondi, i due sparano sul finestrino, che va in frantumi, Albanese risponde al fuoco, ma è già ferito e i colpi vanno a vuoto. Li vicino c’è una scuola, ci sono mamme e bambini che urlano e fuggono. Fasoli gira attorno all’auto e dal lato di guida con una seconda pistola, una 38 special, spara quattro colpi da mezzo metro.
E’ tutto finito. La Ponti e Fasoli, dopo aver abbandonato l’auto della fuga, entrano in pasticceria ed escono, mentre sfrecciano le sirene, con un vistoso cabaret. Una coppia con le paste non desta sospetti. Nella rivendicazione le Br annunciano che la colonna veneta prende il nome di Annamaria Ludmann.
Pochi giorni dopo la Digos arresta Fasoli e la Venturi a Jesolo. Un arresto casuale. I due stavano in un appartamento in affitto, il proprietario un giorno entra per un controllo, trova delle armi e avverte la polizia.
Razzi contro i carabinieri
La caserma di via Moscova è quella dove, pare, alloggi Dalla Chiesa quando viene a Milano. Un obiettivo perfetto per soddisfare il desiderio di vendetta delle Br. Si studia un piano ambizioso, un vero e proprio attacco militare con armi pesanti, utilizzando i razzi controcarro ricevuti dai palestinesi. C’è un abbaino, di fronte alla caserma, a cui si può accedere senza problemi. Qui viene piazzata una batteria di 4 razzi, azionati con un timer. Sarebbe un’azione clamorosa, se funzionasse. Ma non funziona: di razzi ne partono solo due, con un lancio debole che finisce contro un cornicione. Il botto è grosso, vanno in frantumi i vetri anche delle case vicine, ma il risultato sono due modeste sbrecciature nel muro.
Con i razzi le Br non hanno molta fortuna. Alcuni mesi prima Peci ne aveva sparati due contro un blindato, davanti alle carceri di Torino, mancando il bersaglio.
Le Br sono arrivate a Napoli
L’impressione è che l’uccisione di quattro brigatisti e la raffica di arresti non abbia messo in crisi le Br. Non è vero, la crisi c’è e nel giro di qualche mese si accentuerà, ma a stare alle cronache non sembra. Nelle ultime settimane c’è stato un agguato ogni due o tre giorni e non è finta.
A Napoli, da un paio di mesi, Seghetti e Nicolotti stanno lavorando ad organizzare la neonata colonna. Le Br, in quasi dieci anni di vita, non erano mai scese al Sud. Già Roma, ai primi brigatisti, piaceva poco, per un motivo semplice: non ci sono fabbriche. La loro ferma impostazione operaista e marxista-leninista rendeva ancor meno interessante Napoli, città di sottoproletariato disgregato e clientelare. Ma i tempi sono quel che sono e bisogna adattarsi.
Su al Nord, Torino è persa. A Genova, dopo via Fracchia, è arrivata la Balzerani, ma la colonna è lacerata da dissidi. I capi della brigata porto, Angela Scozzafava, e della brigata Italsider, Giovanni Cocconi, criticano la linea militarista e troppo sanguinaria. Francesco Lo Bianco, non un fine politico, pensa di risolvere la cosa prendendo a pugni la donna. I due pensano di andarsene, ma non fanno in tempo, vengono espulsi assieme ad altri due. Anche Lorenzo Carpi, membro della direzione, viene espulso e, da allora è ancora latitante. A fine settembre arriva una nuova ondata di arresti, compresi i due dissidenti, che iniziano a collaborare. Lo Bianco si scontra anche con Baistrocchi, militante storico, lo accusa di essere responsabile degli arresti. Da questo momento Baistrocchi sparisce nel nulla. La Scozzafava arriva a ipotizzare che sia stato eliminato. Insomma a Genova la situazione non è buona.
Ecco dunque che Napoli può essere il posto giusto per rompere l’accerchiamento.
Occorre un’azione eclatante per dimostrare che le Br, nonostante i colpi ricevuti, non sono in crisi anzi si espandono e che funzioni da richiamo per i potenziali reclutandi. Eclatante significa ovviamente uccidere qualcuno.
Pino Amato, ma per la prima volta…
La vittima designata è un democristiano, Pino Amato assessore regionale. E’ stato scelto perchè, secondo un’analisi, fondata su nulla se non sull’ipotesi dell’immancabile ristrutturazione in chiave tecnocratica, questa volta riguardante la Dc, Amato sarebbe l’uomo di punta della corrente andreottiana che sta scalzando la vecchia Dc dei Gava. L’analisi si rivelerà sbagliata, non è la prima volta, ma intanto si spara.

Bruno Seghetti ferito dopo l’agguato ad Amato
Tutte le mattine un autista viene a prendere Amato e lo accompagna in Regione. L’assessore abita in centro, in un palazzo nobiliare, dove abita anche lo stilista Valentino e l’auto deve percorrere alcune vie strette. Situazione ideale.
Il 19 maggio mentre la Fiat 131 dell’assessore percorre vico Alabardieri, si deve fermare, c’è un 500 blu con una ragazza al volante che fa manovra per posteggiare, ma sembra non esserne capace. L’autista sbuffa: ma guarda questa. La ragazza scende e va verso la 131, sembra voler chiedere aiuto, ma in un attimo accanto a lei compare un giovane con impermeabile e occhiali scuri e poco distante un altro. Sono Nicolotti e Seghetti. Ancora più in là c’è un altro giovane, Salvatore Colonna, uno appena reclutato.
I due guardano nell’auto e la ragazza dice: <Sì è proprio lui>. L’altro estrae una pistola silenziata a fa fuoco. Gli spara in faccia, in testa, nel petto, sembra non smettere mai, dieci proiettili, tutti a segno. Si allontano di qualche passo, ma hanno sottovalutato l’autista, che è armato, apre lo sportello e spara ferendo Seghetti a una spalla. Il commando perde il controllo della situazione e scappa a piedi, Seghetti resta indietro, perchè cerca di prendere un’auto tra quelle parcheggiate. Prova con due o tre e finalmente trova una Skoda, che l’autista ha abbandonato con le chiavi inserite quando è cominciata la sparatoria.

L’intero commando brigatista durante il processo
La prende, percorre alcune strade e arriva in una piazza, luogo evidentemente concordato, perchè lì ci sono gli altri tre, che salgano e fuggono. Una volante li ha però intercettati e li insegue. Sono strade strette e questa volta è la Skoda a rimanere bloccata da un furgone, i quattro scendono e sparano sulla polizia, che risponde al fuoco, un passante viene ferito. I brigatisti lanciano anche due bombe a mano, hanno sempre con se delle bombe per coprirsi la fuga. Ma gli ordigni, invece di esplodere, rotolano a terra con rumore metallico, inerti. Alle loro spalle è giunta un’altra volante, sono circondati e si arrendono.
E’ la prima volta che un commando viene catturato durante un’azione. La ragazza è Maria Teresa Romeo, una studentessa di Avellino, prima stava nelle Fcc assieme a Capone e gli altri che uccisero il giudice Calvosa.
Pedinati e catturati
Dopo Torino e Genova, anche a Roma la rete si sta stringendo attorno alle Brigate rosse.
In dicembre la Digos ha arrestato due del Mpro di Monte Mario. Uno si chiama Paolo Santini e casa sua è un deposito di armi. Appena portato in questura comincia a parlare, fa i nomi di altri sette, sempre del Mpro, che vengono arrestati. Ci sono anche quelli che hanno rapinato in casa un colonnello dei carabinieri. Santini rivela che a organizzare la cosa era stato il nipote del militare.
Ma, con sorpresa dei poliziotti, dice anche che lui lavora per il col. Cornacchia, un pezzo grosso dei carabinieri. E’ un infiltrato che da tempo passa le informazioni all’Arma. Cornacchia, avvisato, conferma: l’abbiamo infiltrato noi nel 76.
La cosa strana però è che quattro anni di informazioni, passate dall’infiltrato, non hanno prodotto nulla. Che ne ha fatto Cornacchia? Lui dice che non c’era nulla di interessante. Non c’entrerà invece il fatto che il colonnello è iscritto alla P2? Intanto anche l’altro arrestato, Marino Pallotto, comincia a parlare e fa alcuni nomi. Informazioni utili, ma al momento non producono granchè. Pochi mesi dopo si impiccherà in carcere a 23 anni.
La pista buona ce l’hanno invece i carabinieri di Dalla Chiesa. Il nucleo al comando del colonnello Di Petrillo opera a Roma da un anno, ma le indagini sono a zero, delle Br non sanno praticamente nulla. Ma all’inizio dell’anno è arrivato in aiuto il Pci.
Dopo l’uccisione di Rossa, Berlinguer ha deciso che la lotta al terrorismo rosso deve essere totale. Già da tre anni è stata data l’indicazione ai militanti di combattere l’estremismo armato nei luoghi di lavoro e nelle scuole, anche denunciando eventuali sospettati. Rossa lo ha fatto e ci ha perso la vita. Ora si deve fare di più. Pecchioli, quello che chiamano il ministro dell’interno del Pci, contatta Dalla Chiesa e gli offre la collaborazione del partito per infiltrare qualcuno nelle Br.
A Roma c’è un militante, addentro agli ambienti dell’estremismo, che è disponibile. I carabinieri accettano. Il primo incontro avviene alla fontana del Gianicolo e così gli danno il criptonimo di “Fontanone”. Di lui non si saprà mai nulla o quasi, è un tipo schivo, di pochissime parole, pare sia un insegnante. Ma se è un militante del Pci, la sua militanza è segreta, perchè la sua attività politica nell’estrema sinistra e nell’area che si muove a cavallo con l’illegalità è di lunga data. Cosa non possibile per uno del Pci.
Il suo compito è avvicinare uomini delle Br. E ci riesce in poco tempo, mostrandosi così affidabile che gli viene proposto di diventarne un militante. “Fontanone” avverte Di Petrillo che deve incontrarsi con uno della colonna romana. I carabinieri vanno e dall’interno di un furgone, fotografano l’incontro,

Francesco Piccioni
Il brigatista è Piccioni, perchè ad un incontro di valutazione di un reclutando vanno i capi. E’ quello che ha sparato sulla volante in piazza Nicosia, uccidendo due poliziotti e che ha ucciso il giudice Minervini, ma questo i carabinieri non lo sanno. E neppure riescono ad identificarlo. Un po’ strano, perchè Piccioni è un volto abbastanza noto, prima di entrare in clandestinità nell’estate del 78, era spesso in prima linea nelle manifestazioni di piazza. Ed è uno che non passa inosservato, è alto, grande e grosso. La sua foto viene allora mostrata a Peci. Che dice di conoscerlo, perchè fa parte della direzione strategica, ma non ne sa il nome. Anche tra capi ci si conosce solo con il nome di battaglia, che è Rocco. Però, aggiunge, so che faceva judo.
A Roma le palestre di judo non sono poi tante e in breve trovano quella giusta, una palestra frequentata dai carabinieri. Scoprono così che anni prima lì aveva fatto un combattimento con un carabiniere ed è rimasto il suo nome. Vanno a cercarlo a casa, ma non c’è, due anni prima non si è più presentato a scuola dove insegnava ginnastica ed è sparito. Due segnali inequivocabili.
Arriva in soccorso “Fontanone”, che aggiunge un altro dettaglio: l’ho visto prendere il bus 38. I carabinieri per settimane vanno su è giù col 38 e alla fine lo vedono, lo seguono e scoprono dove abita, via Silvani 7.Ora è agganciato e iniziano i pedinamenti.
Un giorno si incontra in trattoria con altri tre. I carabinieri si appostano e quando escono li fotografano. Bingo! Sono Arreni, Braghetti e Ricciardi. Praticamente quasi l’intero vertice della colonna.
E anche questi cominciano a girare con una coda di carabinieri. Gli incontri si susseguono, nei bar, per strada, nei giardini e il numero dei pedinati aumenta. Tra loro c’è una ragazza mora, sconosciuta, una nuova, è Natalia Ligas. Un’altra è Alessandra, non una figura di primo piano, ma comunque un soggetto importante, perchè lavora in Procura e può avere accesso a informazioni delicate.
A un certo punto quelli sotto controllo sono otto. Non è facile, perchè i brigatisti si muovono secondo tutte le regole della clandestinità. Fanno giri lunghi e tortuosi, non vanno mai diretti in un posto e si guardano di continuo le spalle. Prendono un autubus e ridiscendono subito, per prendre quello dopo. Poi scendono e prendono quello che va in direzione opposta. Salgono sulla metro, ma quando la porta si sta per chiudere ridiscendono, se anche il carabiniere lo facesse sarebbe scoperto. La metro è un problema, così i carabinieri fanno sapere ai giornali che in tutte le stazioni ci sono telecamere. Non è vero, ma funziona.
E’ un lavoro difficile e lungo. A volte i brigatisti riescono a seminare i carabinieri, ma questi si rivelano particolarmente capaci e riescono a registrare molti dei loro incontri e a fotografarli. A volte sono persino in venti a pedinarne uno. Una volta debbono seguire Ricciardi in auto fino a Primavalle. Di sera le strade sono quasi deserte, possono essere notati. Allora creano un traffico finto, utilizzando una quarantina di auto, comprese quelle di mogli e e fidanzate. Alla fine scoprono tre covi.
Il 20 maggio scattano gli arresti. Il primo obiettivo è il covo di via Pesci. Da alcune ore un furgone lo sorveglia. Ma i brigatisti lo hanno notato. Arreni e la Ligas scendono in strada e girano attorno al furgone. E’ notte, l’uomo all’interno sente i passi e avvicina gli occhi a una feritoia per guardare e viene colpito dal getto di uno spray. Poi i due scappano. La prima azione è fallita.
Intanto altri carabinieri bussano alla porta di via Silvani. Piccioni impugna il kalashnikov, Di Petrillo, dall’altra parte, un fucile a pompa. Poi i due parlamentano un po’ e alla fine Piccioni apre. In casa ci sono un numero impressionante di armi.
Poi è il turno di Ricciardi, Braghetti e quel Zanetti che viene dalle Fcc, sono seduti al bar, in un attimo una decina di uomini gli sono addosso, le due pistole che ognuno ha in tasca, sono inutili. Due giorni dopo viene bloccato Arreni, assieme a una recluta, in tasca ha 5 milioni, l’equivalente di 12mila euro di oggi. E poi altri due brigatisti minori.
E’ una mazzata, di tutta la colonna sono rimasti liberi solo due regolari, la Cappelli e la Libera. E tra i capi solo Iannelli. Savasta è stato mandato a dirigere la colonna Veneta, perchè la Ponti e Guagliardo debbono tornare a Torino per cercare di rimettere in piedi qualcosa.
Una mazzata, ma non risolutiva, perchè in estate dal serbatoio degli Mpro arrivano una dozzina di nuovi militanti e il flusso del reclutamento continuerà fino all’81. Un serbatoio ampio, gli Mpro attivi a Roma sono circa venti, per un totale di almeno un’ottantina di giovani militanti. Gente che nel 68 andava alle elementari, ma per i quali le Br e la lotta armata continuano ad essere un modo credibile ed accettabili di lottare contro il sistema.
A Milano frammenti di guerriglia
A Milano l’unica organizzazione armata ancora in piedi è la ricostituita colonna delle Br. Prima Linea è in fuga verso il Sud, i Reparti comunisti sono ormai poca cosa, le Fcc sono estinte, i Cocori in via di dissoluzione. Il resto è una frammentazione di microgruppi e cani sciolti. Ancora non gettano la pistola, ma le loro esistenze hanno ormai ben poco a che fare con le logiche di un’organizzazione politica, per quanto armata. Spesso a tenerli assieme sono solo vincoli di amicizia o comuni frequentazioni. Hanno un solo punto di riferimento: conquistarsi l’ingresso nelle Brigate rosse.
Il gruppo più efficiente è Guerriglia rossa del vecchio Barbone. Vecchio si fa per dire, ha 22 anni. Non arrivano a quindici, ma già stanno per dividersi. Pasini Gatti, un altro che già stava nel collettivo Romana con Barbone, in maggio se ne va con altri quattro o forse viene allontanato, non è chiaro, ma non è l’esito di un dissidio politico-ideologico, piccole beghe.
Se ne va e con gente di sua conoscenza, pochi e inesperti, fonda la brigata Lo Muscio, in onore del militante dei Nap ucciso dai carabinieri nel 77. Obiettivo dichiarato collegarsi alle Br. Strano, perchè è lo stesso obiettivo di Barbone e compagni.
Fanno una rapina in giugno, ma la cassaforte era vuota. In tre, pochi giorni dopo, tentano un’altra rapina che ha successo, così decidono di farne un’altra nel pomeriggio, a un negozio di abbigliamento, ma due vengono arrestati. L’ingloriosa storia della Lo Muscio volge già alla fine. In ottobre non esiste più e Pasini Gatti diverrà collaboratore di giustizia.
La “28 marzo” e Tobagi
In maggio Guerriglia rossa invece decide di cambiare nome. Proprio per strizzare l’occhio alle Br, si ribattezza Brigata 28 marzo, in onore dei caduti di via Fracchia. <Tutti rimanemmo colpiti – dirà Barbone– capimmo che si faceva dura. Ma si doveva rispondere>.
Il gruppo è aperto, c’è chi esce e chi entra. Arrivano due nuovi, che poi son vecchi “combattenti”, già nel 75 erano nelle Ucc. Mario Marano detto French e Franco Giordano detto Cina per gli occhi a mandorla, due sempre insieme, prima in LC poi nelle Ucc.

Marco Barbone
Intanto le rapine rendono bene e i sei componenti della “28 marzo”, più che una brigata una banda, si assegnano uno stipendio mensile di 500mila lire.
Rapine a parte, che sono la principale attività, l’interesse del gruppo rimane puntato sui giornalisti. <Quelli intelligenti – come spiega Barbone – che analizzano il movimento armato e le sue radici sociali>. Ne individuano quattro: Pansa, Nozza, Passalacqua e Walter Tobagi. Il primo aveva ricevuto minacce e così ha cambiato abitudini, <non lo vedemmo più uscire col suo cane>. Il secondo <non si sapeva mai dov’era>. Restano gli altri due. Passalacqua è l’obiettivo più facile, perchè lo conoscono bene, due del gruppo erano anche stati a casa sua, tramite amici comuni. Scrive su Repubblica, è uno di sinistra, per anni ha militato in Lotta Continua, ma questo non conta nulla, anzi. E’ giunto il momento di fare sul serio e fare qualcosa per farsi notare.
Il 7 maggio, mentre Daniele Laus aspetta in auto, Barbone, Paolo Morandini e Manfredi de Stefano, ex operaio licenziato per assenteismo e già in Rosso, si presentano con tesserini da poliziotto e baffi finti a casa di Passalacqua e, come il giornalista apre, entrano armi in pugno e lo fanno stendere a terra. Barbone traccia scritte sui muri, De Stefano spara un colpo alle gambe, poi la pistola si inceppa. <Cercò di disincepparla sbattendola contro il muro – racconta Barbone – ma era nervoso, allora la disinceppai io, gliela ridiedi e sparò un secondo colpo. Il ferimento di Passalacqua fu molto criticato nel movimento>.

Mario Marano
Ora tocca a Tobagi, che è una delle firme di punta del Corriere e si occupa di terrorismo. E’ giovane ma molto noto, anche perchè è il presidente dell’Associazione stampa lombarda, il sindacato dei giornalisti. Infatti aveva già rischiato di essere sequestrato dalle Fcc nel 78. Alunni aveva pensato fosse un buon modo per costringere la stampa a pubblicare i loro comunicati, poi la cosa saltò. E, da qualche mese, forse è nel mirino anche dei Reparti comunisti d’attacco.
Vero o no, Barbone e i suoi sono più rapidi. Per una decina di giorni a turno stanno sotto casa sua, per registrarne gli orari. Ma questa volta le gambe non bastano, Tobagi va ucciso, perchè ormai un ferimento viene archiviato come azione minore, se vuoi essere qualcuno devi prenderti una vita. E solo così si può far colpo sulle Br, per essere accolti.
Ma all’ultimo Marano e Giordano, gli ultimi arrivati, ci ripensano: forse può bastare una gambizzazione. Gli altri dicono di no, non si torna indietro. Allora il 27enne Marano, per non apparire uno che non ha coraggio, vuole sparare anche lui e non solo Barbone come si era deciso.
Il 28 maggio sono pronti tutti e sei. De Stefano alle 7,30 è già sotto casa di Tobagi. Quando, verso le 9 arrivano gli altri se ne va. Barbone e Marano si appostano più avanti, lungo la strada che Tobagi fa a piedi per raggiungere un garage. Giordano dall’altra parte della strada di copertura. Laus più avanti in auto e Morandini in bici davanti al portone.
Dopo 45 minuti quello in bici si muove, è il segnale che Tobagi è uscito. Forse teme qualcosa, qualche tempo prima gli avevano proposto la scorta (anche se la cosa è controversa), ma lui pare abbia rifiutato, perchè cammina veloce, tanto che i due che lo aspettano debbono riconcorrerlo. Quando sono a qualche metro, Marano spara tre colpi, mirando al cuore. Tobagi fa ancora un paio di passi e cade. Vuole sparare ancora, ma la pistola si inceppa. Allora Barbone, passando accanto al corpo già a terra e morente, gli spara altri due colpi. La fuga è tranquilla senza problemi.

Il corpo di Walter Tobagi
Il giorno dopo distribuiscono il volantino di rivendicazione, che spediscono anche ad alcuni giornalisti per spaventarli. Oltre la rivendicazione contiene anche una lunga analisi dei mutamenti tecnologici e organizzativi dei quotidiani, tesi secondo loro ad aumentare la dipendenza degli stessi dal potere politico ed economico e a trasformare sempre più i giornalisti in strumento del consenso e della lotta alle avanguardie rivoluzionarie. Per loro la definizione è di ” vermi e spregevoli, fiancheggiatori dello Stato, agenti della controguerriglia“.
E’ l’ennesimo morto lasciato sull’asfalto dai combattenti della rivoluzione proletaria. Ma lo stupore e il clamore provocato da questa morte a Milano è maggiore di altre volte. Tobagi era molto conosciuto e di certo non era un reazionario, ma non lo erano neppure Alessandrini e Galli e Casalegno. Ma a sei ragazzotti della Milano bene serviva una morte eclatante.
In giugno e luglio ancora due rapine, servono soldi per andare in vacanza, in una oltre ai soldi si portano via il direttore della banca, poi rilasciato. Appena tornato dal mare, Barbone parte militare, ma la naia durerà solo qualche giorno. Il 25 settembre viene arrestato, ufficialmente perchè è stata riconosciuta la sua calligrafia su un foglio trovato nel covo di Alunni e la sua faccia in un video dell’ultima banca, ma senza sapere che uno degli assassini di Tobagi. In realtà già dai primi di giugno è sotto controllo, perchè sospettato di quell’omicidio.
Dopo una settimana inizia a collaborare. Sarà uno dei “pentiti” più importanti. Racconterà un pezzo rilevante della storia della lotta armata dalle prime azioni di Rosso fino a Tobagi .
Nel giro di alcuni giorni vengono arrestati tutti e sei, Morandini lo prendono seguendo la madre che gli porta la biancheria pulita nel suo nascondiglio. E poi finiscono in manette un’altra decina almeno dei Reparti comunisti e di Rosso. Dopo sei anni quelli della 28 marzo sono tutti liberi, a parte Giordano, l’unico a non collaborare. E De Stefano, morto in carcere nell’84.
Sospetti e dubbi
L’uccisione di Tobagi ha prodotto polemiche e ipotesi di misteriosi retroscena. Tutto nasce dalle dichiarazioni di un ex carabiniere, noto come Ciondolo, che teneva i contatti con il confidente Rocco Ricciardi, alias “il postino”, uno delle Fcc che ha fatto arrestare un certo numero di suoi compagni. Costui sostiene che Ricciardi, mesi prima dell’uccisione, gli rivelò che era in preparazione un attentato a Tobagi e fece i nomi di Barbone e della sua fidanzata tra coloro che preparavano l’omicidio. Stranamente i suoi superiori trascurarono la segnalazione. Dunque Tobagi poteva essere salvato. Non solo, ma essendo Ricciardi un informatore molto affidabile, se ne può dedurre che i carabinieri di Dalla Chiesa (non è chiaro fino a che livello) assecondarono l’uccisione di Tobagi.
Ciondolo è stato però smentito da Ricciardi che ha detto di aver solo segnalato di aver saputo da Franzetti, (dei Reparti comunisti di attacco) che stavano pensando ad un’azione nell’ambito dell’informazione e che fu lui stesso, ricordando che già le Fcc (da cui derivarono i Rca) nel 78 volevano rapire Tobagi, a ipotizzare che l’obiettivo poteva essere Tobagi. Ma che non disse altro. Di quelle informazioni esiste un appunto di Ciondolo del 13 dicembre 79 nel quale si legge che: <il Postino ritiene che vi sia in programma un attentato… o il rapimento di Walter>. Confermando dunque quanto sostenuto da Ricciardi, significativo che si parli di rapimento. Il carabiniere però sostiene che lui fece successivamente altri appunti con il nome di Barbone, che però furono fatti sparire.
Che buona parte delle informative di fonte Ricciardi siano sparite lo lascia intendere anche il col. Bozzo. Però non si sa cosa ci fosse scritto, in particolare riguardo Barbone. Si può solo notare che Ricciardi parla dei Reparti d’attacco e non della “28 marzo”, della quale infatti Franzetti non faceva parte e che Barbone e gli altri hanno sempre detto che la scelta di Tobagi fu fatta dopo via Fracchia, dunque non in dicembre. C’è però un fatto certo, pochi giorni dopo l’uccisione di Tobagi i carabinieri si mettono a pedinare Barbone e tengono nascosta la cosa, come se non potessero rivelare per quale motivo sapevano che c’entrava con Tobagi. Va però detto che Ricciardi, subito dopo l’omicidio indicò, seppur molto vagamente, la “28 marzo” come una pista da seguire, questo spiegherebbe l’interesse per Barbone.
In conclusione, difficile dire che mesi prima gli uomini di Dalla Chiesa sapevano che Barbone stava per uccidere Tobagi e che lo hanno lasciato fare (nessuno tra l’altro ha avanzato una qualche ipotesi sul motivo di ciò), ma è quasi certo che sottovalutarono informazioni che avevano ricevuto e poi cercarono di tenerlo nascosto.

Manfredi de Stefano
Nella vicenda si inserisce un altro episodio oscuro, la morte di De Stefano, uno del commando. Poco prima di morire, nel carcere di Udine, era stato pesantemente picchiato da un altro detenuto. Ma la cartella clinica fu alterata per nascondere le vere cause della morte e poi le carte dell’inchiesta sulla vicenda furono fatte sparire. Secondo il fratello era stato proprio De Stefano ad aver passato a Franzetti, del quale era amico da tempo, notizie riguardo a Tobagi (ma Franzetti ha negato). Gli si è voluto chiudere la bocca perchè non rivelasse che informazioni aveva dato a Franzetti , da costui passate poi a Ricciardi, ignorandone il ruolo di spia e poi finite ai carabinieri?
C’è stato infine chi ha sostenuto che il comunicato di rivendicazione era troppo informato sulle faccende del Corriere e che dunque qualche collega di Tobagi era in combutta con Barbone. Una tesi poco credibile e che non ha mai trovato neppure il minimo riscontro. Frutto della solita sottovalutazione delle capacità, sia pratiche sia teoriche, delle organizzazioni armate e del desiderio che ci fosse qualche grande o piccolo vecchio a pilotarle.
g.g.
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