Capitolo precedente: 41) Dall’omicidio Albanese a quello Tobagi

 

Scannato

<Scanneremo tutti i traditori dentro e fuori delle carceri, rivendichiamo l’uccisione dellla spia Viele>. Sono le parole che Seghetti e Nicolotti gridano nell’aula del tribunale di Napoli. La scelta delle parole è importante. Rivela l’alienazione feroce e disperata dei brigatisti e degli altri rinchiusi nelle carceri. Si scannano gli agnelli, ma questa volta non è il solito linguaggio brutale ed esagerato delle Brigate rosse, è termine tecnico.

Nelle carceri è iniziato lo scannamento dei traditori, dei quasi traditori, dei forse, dei si dice e dei deboli. Sono i topi chiusi in gabbia che si sbranano.

Pietro Bertolazzi

A inaugurare questa nuova stagione di morte è Pasquale Viele che viene garrotato con una corda di nylon stretta girando un manico di scopa, nel carcere di Torino. Tra l’altro è una storia anche poco chiara. Viele è un comune, a Pianosa, dove stava, è girata voce che fosse stato lui a rivelare un piano di evasione, facendolo fallire. Per sottrarlo alla vendetta lo trasferiscono a Torino, Ma i tribunali delle carceri non sono come quelli dello Stato, conoscono una sola pena, la morte e la eseguono sempre.

I “politici” si assumono il compito di eseguire la sentenza, anche se Viele non è dei loro. In cella con lui sono in quattro: il brigatista Bertolazzi, Carlo Carbone dei Nap, Giorgio Piantamore un cane sciolto e Zoccola un comune. I primi due coprono lo spioncino della porta, gli altri due eseguono. Poi si mettono a giocare a carte. Viele probabilmente era solo un chiaccherone, ma le Br l’hanno scelto e poi rivendicato per dare un esempio: questo è quel che aspetta i pentiti quando varcheranno le porte del carcere.

Suicidi

Tredici anni dopo Carbone si ucciderà in carcere, soffocandosi.

Qualche mese dopo invece un altro dei Nap, Alberto Buonoconto, si impicca nella casa dei genitori. Arrestato giovanissimo nel 75, sottoposto a percosse e sevizie dalla polizia, da tempo era caduto in uno stato di depressione e di prostrazione fisica, tanto che nel 79 era stato scarcerato. Poi riarrestato per furto di un’auto, dove in realtà si era messo solo a dormire. Riscarcerato e tornato a casa dalla madre a Napoli, il 20 dicembre si toglie la vita.

PL, la banda in fuga

Prima linea ormai è poco più di una banda in fuga, essenzialmente dedita a rapine per sopravvivere. Il grosso si è spostato al Sud, gravitano su Roma, Napoli e Taranto, dove Rosso punta sull’Italsider per far proseliti.

A causa delle rivelazioni di Sandalo in molti si son dovuti dare alla clandestinità. Ma la rete logistica è saltata, trovare case sicure è sempre più difficile, anche se ci sono ancora alcuni fiancheggiatori ad offrire ospitalità. Spesso insospettabili, a Roma una docente universitaria molto ricca ha messo a disposizione alcuni appartamenti; a Firenze un tranquillo impiegato di banca. Ma a volte si è costretti a dormire sui treni. Tutto ciò aumenta la necessità di soldi e dunque di rapine.

E uccidere è ormai così abituale, quasi un destino ineluttabile. Il 3 giugno dell’80 Ciro Longo e Lucio Di Giacomo entrano in una banca di Martinafranca, fuori restano Viscardi e Zambianchi. Ma appena gridano: questa è una rapina, si accorgono che c’è un uomo in divisa, un carabiniere. Potrebbero andarsene, ci sono altre banche, invece Longo punta la pistola contro l’appuntato Chionna, che con una gomitata lo atterra, poi gli è sopra. Ma Longo ha un altra pistola nella cintura, la estrae a spara a bruciapelo. Al funerale del carabiniere c’è l’intero paese.

Appello alla resa

Alcuni giorni prima Fabrizio Giai, il piellino che forse ha compiuto più azioni militari di chiunque altro. dal carcere, aveva lanciato un appello ad abbandonare le armi. La pericolosità di un’iniziativa del genere è evidente. Se ai “pentiti” si affiancano ex capi che invitano alla resa la cosa si fa drammatica. Occorre rispondere. Nel tentativo di dimostrare che gli arresti non hanno sconfitto PL nel torinese e per dare una risposta all’appello di “Ivan il normanno”,  si organizza un’azione orginale, una specie di assalto ad un treno, ma innocuo.
Il 26 giugno in sette salgono su un affollato convoglio di pendolari che parte dalla val di Susa, armi in pugno disarmano una guardia e tengono a bada i passeggeri. Poi distribuiscono volantini nei quali è scritto che <nessuno è autorizzato a parlare di resanon sono certo quattro uomini di merda che possono negare la necessità della lotta armata>. Poi tirano il freno d’emergenza, scendono in aperta campagna e se ne vanno. Bastasse un volantino.

Rapina, morti, fuga, una famiglia sequestrata

Un’altra rapina finisce nel sangue due mesi dopo. Questa volta sono due capi di PL, Segio e

Sergio Segio

Bignami, assieme all’inmancabile Viscardi, a Roberto Vielli, a Ubaldo e Pio, tre provenienti dai collettivi autonomi, da poco avvicinatisi a PL, quando questa è sbarcata a Roma, a rapinare una banca a Viterbo.

Rapina facile. Fuggono in auto. Poi Segio, Bignami, Viscardi e Vitelli si fanno scaricare a una fermata del bus per Roma, in un paesino che si chiama Ponte di Cetti. I mezzi pubblici sono sempre i più sicuri. Si sono anche cambiati, Bignami si è messo braghe corte e una macchina fotografica a tracolla. E’ l’11 agosto, e fa un caldo cane. Si mischiano alla gente che aspetta il bus. Ma arriva un’auto dei carabinieri, a caccia dei rapinatori. Scendono e chiedono i documenti. Viscardi ha un documento falso, potrebbe mostrarlo e poi vedere. Ma ormai si spara sempre e comunque, tira fuori la pistola e spara al brigadiere Cuzzoli. Questi, ferito, riesce a spar

are a sua volta e colpisce Viscardi a una gamba.

I corpi dei due carabinieri

Accorre anche l’appuntato Cortellessa. Non ha idea che ce ne sono altri tre. Del resto che potrebbe fare. Segio, Bignami e Vitelli hanno già le armi in mano e sparano su entrambi i carabinieri, che restano sull’asfalto morti. Segio e Bignami si caricano sulle spalle Viscardi, che ha una tibia spezzata. Bloccano un auto, fanno scendere il conducente e scappano con quella. Ma arrivare a Roma è pericoloso, la zona sarà piena di pattuglie, allora si fermano in un casolare, sequestrano tutta la famiglia che vi abita e vi restano fino a notte fonda.

Maria Teresa, fine della corsa

Maria Teresa Zoni, assieme a Patrizia e al di lei marito, due che stavano già nelle Fcc, hanno scelto Pontenure, un paesino del piacentino, per una rapina. Ma quell’auto con targa falsa parcheggiata da un giorno ha attirato l’attenzione. Il 18 giugno i carabinieri si appostano e arrestano l’uomo che sta per salirvi sopra. Poco dopo, a un posto di blocco, fermano le due donne.  Nella loro auto ci sono quattro pistole e un fucile a pompa Remington.

Maria Teresa Zoni

Maria Teresa, animata dalla fede cattolica oltrechè da quella rivoluzionaria,  è una guerrigliera della prima ora, passata da Rosso alle Fcc e ora nei Reparti comunisti d’attacco. Ha partecipato a decine di azioni, rapine e ferimenti, ha sparato al dirigente Fiat, Gavello, e tentato di uccidere due carabinieri.  <Avevamo messo in conto tutti di lasciarci la pelle. Nessuno, dentro di sé, aveva contemplato, neppure per un attimo, la resa>. Ora le mantette le stringono i polsi.

Una settimana dopo, grazie alle informazioni del “postino” Ricciardi, i carabinieri arrestano anche Pietro Guido Felice e Dario Bertagna. I Reparti comunisti di fatto non esistono più. Uno dei suoi capi, Antonio Marocco, passa alle Br.

Le Br vanno in pezzi

Mentre tutte le altre organizzazioni armate sono in via di dissoluzione, le Brigate rosse, nonostante i colpi presi, conservano una certa forza numerica ed organizzativa.
Ma tutti sono consapevoli della crisi nella quale sono dentro fino al collo. Gli arresti cominciano ad essere tanti, ma a quelli si può far fronte, c’è ancora gente che bussa per entrare. La crisi vera è politica, tutte le campagne sono fallite, tutte le previsioni si son rivelate sbagliate, si annaspa in un vuoto di idee.  E quando le cose non vanno ci si comincia a dividere, a scambiarsi accuse a cercare colpevoli. Inizia nell’estate dell’80 la stagione delle scissioni.

I primi ad attaccare l’esecutivo, riprendendo in parte le critiche del nucleo storico, sono i milanesi. Dopo gli arresti di buona parte della colonna storica, a inizio 80 Moretti e la Balzerani si sono stabiliti a Milano e con un paziente lavoro di tessitura hanno rimesso in piedi la colonna. Quasi tutta gente nuova, con una forte presenza operaia, ma anche diversi elementi provenienti dall’Autonomia. Un certo numero è stato reclutato al circolo Leoncavallo. La direzione di colonna viene in buona parte (Alfieri, Betti, De Maria) dal collettivo autonomo ticinese, assieme a loro viene inserito anche un brigatista della prima ora, Carnelutti, dalle ridotte capacità politiche, ma serve per far vedere la continuità con le prime Br.

Ora la Walter Alasia conta una quarantina di persone più un certo numero di fiancheggiatori. E continuerà ad ingrossare le sue fila, alla fine dell’81 i militanti saranno circa 70. Ma il livello politico di molti di questi giovani è piuttosto basso. Moretti dirà: <Ricordo uno che si chiamava Zellino che ci diceva ridendo che la più grande lotta cui aveva partecipato prima era la rivendicazione del sei politico alle medie>.

L’Alasia chiede le dimissioni di Moretti

Il nodo sul quale si appuntano le critiche dell’Alasia è sempre quello: l’isolamento, l’incapacità di essere guida politica dei movimenti di massa, una gestione affetta da “organizzativismo”.

In luglio si riunisce la direzione strategica a Tor S.Lorenzo, per cercare di appianare i contrasti, ma finisce a insulti. I tre che rappresentano la Walter Alasia (Betti, Alfieri e De Maria) accusano Moretti e la Balzerani di aver fallito come dirigenti e ne chiedono le dimissioni. Le Br, sostengono, sono ormai fuori da ogni luogo di lavoro, tranne che a Milano, dunque siamo noi gli unici autentici brigatisti e a noi spetta il comando.

Vittorio Alfieri

Quello che i milanesi invocano è un ritorno alle origini, un ritorno alla fabbrica e un programma politico che unifichi i movimenti. E’ evidente la forte influenza che ha Vittorio Alfieri, l’operaio dell’Alfa che viene da Rosso.  Uno che in fabbrica, per la sua attività sindacale, ha un certo seguito. Uno con una formazione molto operaista e movimentista e si sente. I milanesi lamentano anche l’abbandono dei prigionieri al loro destino, ma questa è solo una mossa per ingraziarsi il nucleo storico, che invece li sconfesserà.

Gira e rigira siamo sempre lì, le critiche hanno un indubbio fondamento, ma le proposte sono inservibili, perchè sono frutto di illusioni e di cecità. E dell’incapacità a vedere che non solo la fabbrica, ma la società, il mondo sono cambiati in questi dieci anni e nella direzione opposta a quella sognata dalle Br. E che il vero errore è uno solo: la lotta armata.

Moretti cerca in ogni modo di ricucire, ma è difficile di fronte ad una linea che butta a mare sei anni di Brigate rosse, centrati sull’attacco al cuore dello Stato.
Alla fine di due giorni di scontri, l’esecutivo manda un commissario a Milano, Vincenzo Guagliardo. Ma la Walter Alasia lo respinge. La rottura è ormai inevitabile.

Nasce il Fronte carceri

A metà settembre a S.Marinella si tiene una nuova direzione strategica, alla quale per la prima volta partecipa anche Giovanni Senzani, pronto a dare battaglia anche lui. L’esecutivo si presenta con una lunga risoluzione, scritta da Moretti, Guagliardo e Fenzi, piena di buoni propositi, nella quale si cerca di tenere insieme le critiche del nucleo storico, della Alasia e la linea dell’esecutivo. La novità è la creazione del fronte carceri, per venire incontro alle pressioni dei “prigionieri” e anche di Senzani, che se ne è fatto portavoce. La non novità su cui si insiste è il rilancio degli organismi di massa, mai decollati e regolarmente falliti. Infine si lancia il “programma (niente meno) di transizione al comunismo.

Il nucleo storico fa sapere di approvare la risoluzione e questo evita l’apertura di un nuovo fronte con la colonna napoletana e con Senzani. Avevano preparato un documento critico, ma dicono che ormai è superato e se lo sono anche dimenticato a casa. Per di più Senzani viene nominato capo del Fronte carceri, con sua grande soddisfazione. Visto che così controlla un pezzo di organizzazione, che può servirgli per scalare le Brigate rosse. Il fronte numericamente è poca cosa, 6 o 7 elementi, ma dispone di molti soldi, oltre 50 milioni l’anno, per assistere i detenuti, compresi gli avvocati da pagare.

Il nuovo comitato esecutivo è composto da: Moretti, Balzerani, Guagliardo, Iannelli e Ponti. Senzani, che sperava di entrarci, è fuori.

La Walter Alasia

I milanesi snobbano la riunione, è presente il solo Alfieri, che fa scena muta. La Walter

Pasqua Aurora Betti

Alasia si comporta ormai come un’organizzazione autonoma, articolata su tre brigate: Alfa Romeo, fabbriche di Sesto e Policlinico, con una forte componente operaia, che opera in un ottica di sindacalismo armato. Viene nominata una direzione di colonna,

escludendo il commissario Guagliardo, composta da Betti, Alfieri, De Maria e Adamoli, poi si aggiungerà la Belloli, che lascia la colonna romana. Anche lei è nata politicamente in Rosso, poi è passata dalle Fcc alle Br.

Accanto ad Alfieri l’altra leader è Pasqua Aurora Betti, la prof di lettere, grazie anche al suo febbrile attivismo. Agli altri appare come inesauribile: scrive, contatta, organizza, ordina senza soste. Il suo protagonismo finirà per alimentare qualche dissenso nei suoi confronti.

La Fiat e i 40mila

Pochi giorni dopo a Torino capita qualcosa che sancisce il totale fallimento di dieci anni di lotta armata.

In settembre la Fiat ha annunciato la messa in cassa integrazione a zero ore di 24mila operai, causa la crisi del mercato dell’auto. Il sindacato si oppone, si tratta, ma siccome la situazione non si sblocca, Romiti (il gran capo della Fiat) annuncia 14.469 licenziamenti. E’ chiaramente una provocazione per forzare i sindacati. La risposta del consiglio di fabbrica  e dei sindacati è immediata. Tutti i cancelli di Mirafiori vengono bloccati. Il blocco continuerà per 35 giorni.
La trattativa è bloccata su un punto, i sindacati chiedono meno cassa, riduzioni di orario e la sospensione dal lavoro a rotazione per tutti i dipendenti. La Fiat invece vuole scegliere chi mettere a casa e dalla prima lista si capisce che sono soprattutto delegati sindacali e gli operai più sindacalizzati.

La crisi dell’auto c’è, non è una scusa. Ma è chiaro che la mossa di Romiti è il seguito del licenziamento dei 61. E’ l’occasione per porre fine a un decennio di lotte operaie e mettere nell’angolo il sindacato. Grazie anche ai processi di ristrutturazione che la Fiat per prima ha avviato in Italia.

Berlinguer davanti alla Fiat

La partita è così chiaramente politica, che persino Berlinguer si presenta ai cancelli è assicura agli operai l’appoggio del Pci, anche nel caso decidessero di occupare la fabbrica.

Il 14 ottobre sindacati e Romiti sono a un passo da un accordo, quando a Torino i capireparto e gli impiegati, organizzati dalla dirigenza Fiat, fanno un corteo per protestare contro operai e sindacati che bloccano la fabbrica. Vogliono tornare al lavoro e attaccano il “sindacato padrone”.
Romiti sa ovviamente di questa manifestazione, ma aspetta di vedere come va. E’ un indubbio successo, sfilano in migliaia, anche se decisamente meno dei 40mila con cui è passata alla storia. Ma certo non si erano mai visti capi e capetti in corteo contro i sindacati. Il successo è anche il frutto dell’esasperazione via via cresciuta negli anni nei quali dirigenti, capi e quadri hanno subito una perdita di ruolo e autorità ed attacchi e violenze continui da parte delle frange autonome ed armate.
Improvvisamente Romiti si alza dal tavolo e non firma più. Tre giorni dopo i sindacati accettano le condizioni della Fiat. I lavoratori a maggioranza respingono l’accordo, che però viene dichiarato approvato.

La parabola si era invertita da qualche tempo, ma questa vertenza Fiat segna una svolta di 180 gradi, un cambio d’epoca. Al posto del lavoro, il centro di tutto diventa l’impresa e con l’impresa il mercato, il privato, il profitto, come sta accadendo in tutto il mondo. Il progressivo peggioramento delle condizioni del lavoro fino alle attuali forme di spietato sfruttamento inizia quel 14 ottobre dell’80.

E le Brigate rosse? E Prima linea? A Torino non ci sono più, sono morte lasciando dietro di sè terra bruciata. Dopo anni di azzoppamenti e omicidi, la classe operaia è battuta, a vincere è stato Romiti. <Per noi fu uno choc – dirà Franceschini – che tutto questo passasse senza alcun tipo di risposta da parte degli operai. Mi duole dirlo, ma le Br sono state sconfitte da Agnelli>.

La risposta della Walter Alasia

Chi non trae alcuna lezione dalla vicenda Fiat e vive ancora nella bolla delle loro illusioni sono quelli della Walter Alasia, che vogliono rispondere uccidendo due dirigenti d’azienda. Rivelando così come la loro critica alle linea militarsita dell’esecutivo nascondesse il totale vuoto di analisi politica.

Tanto che è Moretti a dimostrare invece lucidità e capacità di riflessione critica. Infatti si oppone al duplice omicidio, ritenendolo sbagliato o totalmente inutile. Non si affronta uno snodo politico di fondo ammazzando qualcuno.

Il corpo di Renato Briano

Ma i milanesi tirano dritto. Alfieri spiega. <Per ciò che era successo alla FIAT è necessario dare una risposta allo stesso livello di attacco feroce>. Il 12 novembre il ventiduenne Sergio Tornaghi, operaio della Marelli, spara due colpi a bruciapelo alla testa di Renato Briano, sulla metropolitana, in mezzo alla gente che alle 8,30 va al lavoro. Passeggeri che per interminabili secondi debbono rimanere nel vagone, con quell’uomo in ginocchio sul pavimento e la testa appoggiata su un sedile pieno di sangue e i due terroristi che li tengono lontani puntando le pistole. L’altro è Roberto Serafini anche lui da poco entrato nelle Br, proveniente dalle Fcc, uno dei pistoleri della primissima ora al seguito di Toni Negri. Tornaghi grida <Non preoccupatevi, era uno sfruttatore>. E Serafini ordina che nessuno scenda alla fermata Gorla, dove i due fuggono.

Briano era il capo del personale della Ercole Marelli, aveva tre figli ed aveva appena firmato un accordo con i sindacati. La Walter Alasia rivendica firmandosi Brigate rosse. E’ uno schiaffo al comitato esecutivo che aveva posto il veto all’omicidio. La rottura è definitiva. Lo stesso giorno doveva essere ucciso anche Manfredo Mazzanti, dirigente della Falk, ma l’azione è saltata per banali disguidi.

Verrà eseguita due settimane dopo. Mazzanti l’hanno scelto solo perchè hanno trovato una sua foto e quindi è facilmente riconoscibile. Mentre la Betti e Adamoli fanno da copertura, Alfieri e Sergio Faggeti hanno il compito di sparagli appena esce di casa. Il primo corre incontro a Mazzanti uscito dal portone, che capisce a scappa. Alfieri spara ma lo manca.  Ma la vittima corre dalla parte sbagliata, incrocia Faggetti che fa fuoco alle sue spalle, uccidendolo. I due scappano in bicicletta. Questo Faggetti è un operaio di 37 anni, psicologicamente fragile ed anche malato. E’ la sua prima azione e già lo hanno incaricato di uccidere. Ci è riuscito, ma rimarrà così sconvolto che dopo non molto uscirà dalle Br e, una volta arrestato collaborerà. Anche questo secondo delitto viene rivendicato come Br.

L’esecutivo risponde con durezza, smentendo la paternità dei due agguati e accusando la Walter Alasia di <un’inaudita provocazione….essersi appropriati di una sigla che non gli appartiene> e di <settarismo gruppettaro>. Concludendo con l’annuncio della loro espulsione. Il problema è che ora le Brigate rosse non sono più presenti nè a Torino nè a Milano, dove sono nate, sono decapitate a Genova e azzoppate a Roma.

g.g.

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