Capitolo precedente: 42) Prima linea in fuga. Le Br si spaccano. La Fiat vince
Prima Linea, nessuna resa
Nell’agosto dell’80 Prima linea si riunisce a Rimini e poi a Senigallia. Si tratta di decidere che fare, dopo i colpi subiti. La maggioranza non ha dubbi: si va avanti comunque, anche se la prospettiva politica è un buco nero. C’è però chi dice no. E’ un capo, anzi uno dei fondatori di PL. Sergio Segio se ne va, ma nonostante il suo indubbio carisma, nessuno lo segue, nemmeno Susanna, la sua donna. <Sono uscito per spezzare la spirale impazzita. La lotta armata da mezzo si era trasformata in un fine sostitutivo della politica, del lavoro sociale e di massa. La militanza politica si era disumanizzata….. E poi ormai la mia vita in Pl era divenuta asfissiante, riunioni inutili a mascherare il vuoto>.
Ma quella di Segio non è una ritirata e neppure una resa. E’ solo un cambio di obiettivo e il rifiuto di stare in un’organizzazione. Perchè o ci si consegna al nemico o si va fino in fondo. E per Segio: <Ci sono dei doveri e dei sentimenti ai quali non ci si può sottrarre>. Non si abbandonano i compagni in carcere. <Le loro vite è tutto ciò che resta del nostro sogno>. L’obiettivo ora è liberarli. E’ un’idea folle e romantica, che nasconde anche quell’incapacità a buttare la pistola e cambiare vita, che in tanti hanno raccontato.

Maria Teresa Conti e Maurice Bignami
Segio mette in piedi un piccolo gruppo di compagni fidati, che si chiamerà “Nucleo dei comunisti”. Tra i primi il vecchio Pedro (Maurizio Pedrazzini), dei tempi di Lotta continua. Innanzitutto per continuare a fare rapine. E poi per dare l’assalto alle carceri.
Anche un altro capo, Bignami, si sta ormai allontanando. Ma anche per lui non è una resa, ancora meno che per Segio. Perchè sta pensando di passare alle Brigate rosse, assieme a Viscardi.
Ma l’effetto Sandalo non si è ancora esaurito. Il 7 ottobre tra Milano e Torino vengono arrestati in 22. Tra i nomi di spicco c’è solo Zambianchi, altri sono giovani entrati in PL da poco e altri sono vecchi, che hanno avuto ruoli importanti, ma ormai usciti.
Una settimana dopo cadono nella rete anche Viscardi e Maria Teresa Conti, presi a Sorrento. Tra gli ultimi arrestati qualcuno ha parlato.
Nelle carceri
Nelle carceri ci sono ormai circa mille terroristi o comunque coinvolti in vario grado nella lotta armata. La maggior parte sono nelle sezioni speciali. Qui le condizioni di vita sono dure, isolati rispetto agli altri detenuti, tagliati fuori dalle attività interne, poche ore d’aria e poche visite. E poi evadere, nonostante i tanti progetti e tentativi, è quasi impossibile. E’ una condizione che porta ad una esasperazione politica e poi anche personale. Non tutti gli speciali sono uguali, alcuni hanno regimi più duri, altri meno. Ma uno in particolare è lo spauracchio di tutti: l’Asinara.
Inevitabilmente ormai il fronte della lotta armata è qui, dietro le sbarre delle carceri speciali. In ottobre esplodono una serie di rivolte, forse coordinate o forse solo per imitazione.
La prima scoppia nel carcere di Volterra, dove un’ottantina di detenuti, capeggiati dal nappista Zicchitella e da Nicola Solimano, prendono in ostaggio cinque guardie. Chiedono la chiusura degli “speciali” e in particolare dell’Asinara e il trasferimento ad altro carcere.
Il giorno dopo parte la rivolta nel carcere di Fossombrone. In quattro, tra cui il brigatista Fiore, prendono in ostaggio tre guardie. Chiedono di non essere trasferiti all’Asinara, la rivolta cessa dopo 7 ore con l’accoglimento delle richieste.
Dopo alcuni giorni è la volta del carcere Badu’ e Carros a Nuoro. Una cinquantina di detenuti, tra cui Franceschini, Ognibene, Morucci, si barricano nella sezione di massima sicurezza e la devastano. Polizia e carabinieri tentano l’assalto, ma vengono respinti con molotov rudimentali ed altri oggetti. La camorra approfitta della rivolta per uccidere due detenuti, uno strangolato e uno decapitato.
La direzione del carcere cede e accoglie le richieste dei detenuti, tra cui la pubblicizzazione di un comunicato, che si conclude con <chiudere l’Asinara, chiudere i campi di massima sicurezza>. Ed è da qui che nasce la decisione del vertice brigatista di sequestrare un alto funzionario della direzione degli istituti di pena. Al progetto lavorano Moretti e Senzani.
Br, ancora arresti
Ma intanto le Br continuano a perdere pezzi. A Roma il 23 novembre la Digos sta tenendo d’occhio un’auto rubata che qualcuno ha segnalato. Arrivano due, ma quando stanno per salire sull’auto, si accorgono degli agenti e scappano. Sono Maurizio Iannelli e Pietro Vanzi, l’attuale capocolonna e quello che fa il commesso da Feltrinelli. L’auto doveva servire per il sequestro di un alto magistrato. Inizia l’inseguimento, i due si dividono. Vanzi spara contro gli agenti poi entra in un portone, sale fino all’ultimo piano, entra in un terrazzo e da lì in un appartamento, dal quale esce scendendo per un altra scala. Lascia il palazzo da un altro numero civico e sparisce. Una fuga degna di un film. E’ la seconda volta che riesce a fuggire, l’altra fu quando la polizia ferì alla testa e catturò Gallinari.
Iannelli invece viene arrestato, ha una pistola in tasca e un mitra nella borsa. In questura viene pesantemente picchiato.
Viscardi e la grande retata
I piellini continuano a lasciare una scia di morti sulla loro strada, come effetto collaterale. A Bari hanno individuato un poliziotto che lavora all’archivio della questura, con l’intenzione di disarmarlo. E’ un obiettivo facile, pensano. Il 28 novembre lo aspettano davanti al portone di casa e, quando rientra, in due cercano di disarmarlo, ma quello non ci sta e reagisce, uno gli spara due colpi a una gamba, gli prendono l’arma e scappano. Un colpo però ha reciso la femorale e Filippo Giuseppe muore dissanguato.
E’ l’ultimo cristo ammazzato da Prima linea. Perchè una nuova mazzata, peggio di quella inferta da Sandalo, si sta per abbattere su quel che resta di PL. Non sono passati molti giorni dall’arresto di Viscardi, che il “lungo” decide di collaborare. Lui e Sandalo, almeno a sentire i loro ex compagni, sono accumunati dallo stesso giudizio: erano tra i più cattivi e freddi e sono stati i primi a passare dall’altra parte.

Michele Viscardi
In effetti il termine pentiti, in questi due casi più che in altri, è del tutto fuori luogo. O Viscardi ha una memoria prodigiosa o si era preparato gli appunti, casomai venisse arrestato. Infatti fa decine di nomi, parla di decine di episodi, ma soprattutto indica in modo dettagliato almeno una quindicina di basi. Poi accompagnerà la polizia e carabinieri in giro per l’Italia per indicarli ancor meglio.
Negli ultimi tempi le regole della compartimentazione sono saltate. Ci si sposta in continuazione da una base all’atra e da una città all’altra. In qualche caso i piellini dormono anche in dieci nella stessa base. Questo ha consentito a Viscardi di conoscere gran parte della rete logistica.
La retata inizia la notte del 2 dicembre e si conclude all’alba del 4, toccando 11 città e portando all’arresto di una trentina di persone. Accanto a molti giovani, da poco entrati in PL, alcuni degli ultimi capi rimasti: la Ronconi, presa a Firenze assieme a Manina e Longo; Rosso nel covo di Ostia, assieme ad altri cinque, viene ferito a una gamba. A Tivoli viene trovato un arsenale sepolto in un campo con anche un bazooka. Nelle settimane successive gli arresti divengono oltre 150. Tra loro anche figure marginali e fiancheggiatori. Ma anche un altro personaggio di spicco.
La polizia segue da qualche giorno un paio di sospettati, la mattina del 20 dicembre in una piazzetta tra i vicoli di Napoli i due si trovano con altri, cinque o sei. Ma tutto attorno ci sono poliziotti travestiti da venditori di sigarette e spazzini. All’alt i terroristi estraggono li pistole e inizia una violenta sparatoria. Alla fine sono catturati Marco Fagiano e Federica Meroni, un’infermiera. Gli altri riescono a fuggire.
Rapina con due morti

Claudio Pallone
Il Movimento comunista rivoluzionario, fondato a Roma da Morucci e Faranda dopo la loro uscita dalle Br, che aveva raccolto militanti dalla diaspora dei Cocori e delle Ucc, ha concentrato le sue iniziative sul tema della lotta per la casa. Tra novembre e dicembre del 79 ha compiuto diverse azioni armate. Incursioni nella sede dei “Piccoli proprietari” e in quelle di alcune immobiliari, tra cui quella di Colombo Masi che ha evitato la distruzione dell’ufficio in cambio della promessa (mantenuta) di affittare e non vendere le sue case. In un’altra occasione hanno anche dato luogo ad un ferimento.
Il gruppo è poi andato in crisi. Nell’estate dell’80 ha tentato una riorganizzazione. E, si sa, la prima cosa che serve sono i soldi. Il 13 novembre, dopo una rapina vicino all’Aquila, in due incappano in un posto di blocco. Ne nasce una sparatoria, Claudio Pallone rimane ucciso. Fausto Genoino, regista di professione, uno dei capi, che già aveva militato nelle Fac di Morucci, muore settimane dopo per le ferite. E con loro muore l’Mcr che, di fatto, si scioglie.
Altre gambe piene di piombo
Tutte le organizzazioni armate ancora attive sono concentrate sul fronte delle carceri ad eccezione della Walter Alasia che, fedele alla ragione della sua uscita dalle Br, continua ad andare a caccia dell’ennesimo dirigente d’industria.
L’obiettivo questa volta è Maurizio Caramello dell’Italtrafo-Breda. L’11 dicembre, uscito dallo stabilimento è alla fermata dell’autobus, quando dietro di sé sente un rumore sordo e bruciore a una gamba. Si gira e vede un giovane con la pistola silenziata in pugno. L’uomo si lancia sullo sparatore ed entrambi finiscono a terra. Il giovane, che è Roberto Adamoli, riesce a sparare di nuovo, l’altro si arrende. Adamoli si alza e svuota il caricatore. Nove colpi tutti a segno nelle gambe.
Ucciso Serafini
La sera stessa però sparatori e vittime si invertono.
Il “postino” (cioè Rocco Ricciardi) continua a passare informazioni ai carabinieri. Negli ultimi giorni lo ha contattato Roberto Serafini che cerca di reclutarlo nelle Br e ha subito segnalato la cosa, indicando un bar, in una bocciofila della periferia di Milano, dove si incontrano brigatisti. Un paio di carabinieri sorvegliano il locale.
Una sera vedono entrare una faccia nota, proprio quella di Serafini. Uno con una lunga carriera: era già in Rosso nel 74 poi passato con Alunni nelle Fcc e infine da poco entrato nella WA. Ha fama di ottimo tiratore ed è forse quello che lo frega. Assieme a lui c’è un ragazzo più giovane, che i carabinieri non conoscono. Si chiama Walter Pezzoli, 23 anni di Pero, uno che bazzicava tra gli anarchici. Due anni prima era stato arrestato e processato come appartenente ad Azione rivoluzionaria. Ma assolto. Uscito dal carcere ha mollato le idee anarchiche ed è diventato brigatista.
I carabinieri sanno della fama di Serafini e chiamano la caserma di via Moscova. Rispondono di aspettare che arriva sul posto gente più esperta con le armi. Quando 5 o 6 carabinieri in borghese arrivano, i due sono appena usciti. Li seguono per qualche metro, ma quelli se ne sono accorti, accelerano il passo. Allora i carabinieri impugnano le armi e ordinano l’alt. I due fanno per estrarre le pistole, ma alcune raffiche di mitra li falciano. L’accusa ai carabinieri sarà la stessa di ogni volta che un terrorista è ucciso: è stata un’esecuzione premeditata. E’ vero che questa volta i due ragazzi non hanno sparato nemmeno un colpo, ma la guerra è spietata, troppi ammazzati, ora si pensa solo a sparare prima degli altri.
Sequestro D’Urso
Giovanni D’Urso è un alto dirigente del ministero di Giustizia, dove si occupa di carceri. Uno in cima alla lista degli obiettivi possibili. Ma gira senza scorta, pare l’abbia rifiutata. Tutti i giorni parcheggia l’auto nella stessa strada. Fa lo stesso anche la sera del 12 dicembre. Scende e si avvia verso casa. C’è un furgone poco più in là dal quale scendono in tre, sono Moretti, Capuano e Vanzi, uno dei più attivi della colonna romana. Moretti controlla, gli altri due bloccano il magistrato, che si divincola e grida di non avere soldi. Lo prendono a pugni e poi lo caricano sul furgone, dove ci sono Senzani e Di Rocco al volante.
<Non è una rapina, siamo le Br>. Allora il magistrato si calma. Lo bendano e lo chiudono in una cassa. Il furgone parte seguito da un’auto con due a bordo, uno è Stefano Petrella. Poco dopo la cassa viene trasferita su una 128 familiare, sulla quale salgono Moretti, Senzani e Petrella, gli altri quattro se ne vanno. Tutto facile.
La prigione l’ha allestita Moretti, del resto lui è un esperto. Una tenda da campeggio al centro di una stanza, le pareti foderate col solito polistirolo, una branda, un bagno chimico. Rispetto a quella per Moro, una cosa molto più rudimentale. L’appartamento, in via Stazione di Tor Sapienza, è quello di Roberto Buzzati, un giovane militante, ha appena 20 anni, da poco entrato nelle Br. Lui non vi abita, vive con i genitori e lavora con il padre.
I tre portano la cassa nell’appartamento, dove ad attendere ci sono Marina Petrella e Buzzati. Saranno lei e il fratello Stefano i carcerieri. I due, lei 26 e lui 24 anni, erano stati arrestati un anno prima e mandati in soggiorno obbligato, da dove ovviamente sono fuggiti.

Giovanni D’Urso
Moretti e Senzani, dopo essersi reciprocamente dati la colpa per aver dimenticato un mitra sull’auto, indossano due camici molto larghi e passamontagna. Tirano fuori dalla cassa il magistrato, gli fanno indossare una tuta da ginnastica e lo legano con una catena lunga alla branda. E’ Moretti a fargli un discorsino. Dopo essersi scusato per il viaggio scomodo, avendo dovuto percorrere alcune strade sterrate fuori Roma, tanto per depistare un po’. Il succo è: se lei collabora con noi, la tratteremo bene. D’Urso risponde che non pensa certo di fare l’eroe e che collaborerà.
La sera stessa il sequestro è rivendicato con una telefonata e il giorno dopo viene diffusa una foto del prigioniero, accompagnata dal solito comunicato, nel quale il magistrato è accusato di “torture nei confronti di migliaia di proletari, che il porco credeva di massacrare impunemente“. Contiene anche una richiesta precisa: la chiusura del carcere dell’Asinara.
La svolta o quasi
Con il sequestro D’Urso è chiaro che l’orizzonte della lotta armata è ormai rinchiuso dietro le sbarre del carcere. L’attacco al cuore dello stato si è ridotto a una battaglia difensiva, di retroguardia.
Ma ci sono anche due novità, nelle quali si riconosce la mano di Senzani, che cerca di dare una patina ideologica a quello che invece è il segno di una sconfitta. La prima è la constatazione, anche se non esplicita, che la classe operaia non è più il soggetto rivoluzionario, rimpiazzato dal proletariato marginale, che ha la sua avanguardia nel proletariato extralegale, cioè nelle carceri. “Luoghi abituali di vita …. di quello strato di classe che subisce fino in fondo il costo della crisi e il peso della ristrutturazione produttiva. Le carceri diventano perciò il terreno decisivo dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione”.
Non è una gran novità. Lo avevano già teorizzato i Nap sei anni prima e poi anche i Pac.
La seconda è che nel braccio di ferro con lo Stato, a differenza che nel caso Moro, le Br mettono sul tavolo una richiesta modesta: la chiusura di un carcere che è già in via di smantellamento. All’Asinara, dopo la rivolta dell’anno prima, sono rimasti solo pochi brigatisti.
E’ un abbassare il tiro frutto di una revisione politica, elaborata soprattutto dal nucleo storico in carcere, di cui Senzani è un po’ il portavoce fuori. Nel lungo documento “L’Ape e il comunista”, scritto da Curcio e Franceschini si sostiene la necessità di dotarsi di “un programma immediato“. Cioè puntare ad ottenere dei risultati concreti a favore del proletariato, per rendere più credibile la prospettiva della lotta armata, mostrando che paga. Visto che fino ad allora aveva pagato zero, se non addirittura prodotto perdite
Una vera e propria svolta, visto che fin dalla loro nascita le Br non si sono mai preoccupate di porsi obiettivi concreti, di darsi un programma, ma solo di attaccare lo Stato e propagandare la lotta armata. Dopo dieci anni arriva la svolta riformista, seppur un riformismo armato.
Anche qui poco di nuovo, visto che questa era già la linea delle Ucc alla loro nascita, quando, come riscatto di un sequestrato, chiesero la distribuzione di quintali di carne al popolo.
Nei comunicati i brigatisti la spiegano con il loro linguaggio, ma il succo è questo: “Dobbiamo far vivere i contenuti di distruzione e disarticolazione dentro una linea di massa che dialettizza i programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo“.
Una svolta e, per certi aspetti, una svolta che potrebbe cambiare davvero la storia della lotta armata. Scrivono infatti: “Chi crede che il problema sia sparare o eliminare qualche nemico del popolo, costruisce nel vuoto (il riferimento è alla Walter Alasia, ndr). Lo abbiamo già detto e lo ripeteremo all’infinito: impugnare le armi non basta! Chi si limita a questo dimostra di non aver capito nulla del percorso fin qui compiuto dalla lotta armata e il suo avvenire“. Sparare meno e fare più politica, ma così non sarà.

Marina Petrella
I comunicati sono scritti da Moretti e Senzani. Mentre gli interrogatori del magistrato, che si mostra molto collaborativo, sono condotti da quest’ultimo e da Petrella e vengono registrati. Dirà D’Urso: <Chi mi interrogava sapeva moltissime cose sulle carceri. Più di me…aveva una buona conoscenza del ministero della Giustizia e dei magistrati che si occupano delle carceri>.
La prigionia scorre tranquilla. D’Urso viene tenuto spesso con cuffie e musica sulle orecchie. Buzzati fa la spesa e sorveglia i dintorni. Mentre Marina Petrella si occupa delle faccende domestiche e prepara da mangiare. Insomma, il ruolo delle donne.
Moretti non torna più nell’appartamento. E’ Senzani di fatto a gestire direttamente il sequestro. Pur non facendo parte dell’esecutivo è ormai il numero due delle Br. Il professore è convinto che debba essere sviluppato l’aspetto comunicativo dell’attività terroristica, che le Br, a parte i primi anni, hanno del tutto trascurato. E’ moderno Senzani e ha capito che nella società degli anni 80 ci vuole un po’ di spettacolarizzazione.
E’ sua l’idea di contattare l’Espresso per offrire un’intervista. Che viene fatta. E qui o la spettacolarizzazione gli scappa di mano o forse è uno dei suoi comportamenti strani. Perchè, con una certa imprudenza, si fa riconoscere. Tanto che fino a quel momento era più o meno un insospettabile, grazie anche alle protezioni di cui gode, ed ora invece è costretto ad entrare in clandestinità. Sembra quasi che voglia far sapere che al vertice delle Br c’è lui.
La trappola di Torino
Tutto procede per il meglio, ma all’improvviso le Br subiscono un duro colpo. Nadia Ponti e il suo compagno Guagliardo, sono stati mandati a Torino, che conoscono bene avendovi militato per qualche anno, per cercare di rimettere in piedi una colonna.

Nadia Ponti e Vincenzo Guagliardo
Qui ci sono un paio di operai che sono sfuggiti alle retate, sono figure minori, ma è quel che c’è per ricominciare. I due rifondatori ignorano che la tecnica di Dalla Chiesa è quella di lasciare sempre qualcuno libero, da usare come esca. In questo caso l’esca collabora anche. I carabinieri hanno promesso soldi in cambio di una segnalazione, perchè si aspettano che qualcuno torni a Torino. E infatti la segnalazione arriva e il 22 dicembre Guagliardo e la Ponti si ritrovano ammanettati al tavolino di un bar. Sono entrambi membri dell’esecutivo e Guagliardo è uno degli uomini di maggior fiducia di Moretti
Il governo e la rivolta di Trani
Anche la reazione del governo è diversa rispetto al caso Moro. Senza più il Pci nella maggioranza la linea della fermezza viene abbandonata. Il giorno di Natale la direzione del Psi craxiano afferma che: <la chiusura dell’Asinara è un adempimento giustificato e da più parti richiesto>. Il giorno dopo il ministro Sarti, democristiano, annuncia lo sgombero del carcere. E’ una chiusura camuffata.
Si aspetta la risposta delle Br, che due giorni dopo arriva, ma non è quella attesa. A Trani, altro carcere speciale, esplode una rivolta capeggiata dai brigatisti. In realtà non doveva essere una rivolta, ma un’evasione. Era stata preparata da settimane, riuscendo a introdurre nel carcere una certa quantità di esplosivo, nascosto dentro salsicce, formaggi, termos o sotto forma di finti dadi da brodo. Evidentemente la massima sicurezza non è poi tale.
I contatti con l’esterno sono intensi e tutto sommato facili, soprattutto attraverso i familiari e gli avvocati, alcuni dei quali sono anche brigatisti. Appunti, piantine, informazioni entrano ed escono con diversi sistemi, incollati nella copertina dei libri oppure all’interno di sigarette svuotate del tabacco o nelle noci vuotate e incollate, o scritti su pezzi di stoffa cuciti negli abiti.
Ennio Di Rocco è stato mandato a Trani con i soldi per noleggiare alcune auto per la fuga. E delle armi sono state nascoste in vari punti attorno al carcere, che gli evasi avrebbero preso.
Ma qualcuno deve aver parlato o qualcosa ha insospettito le guardie. Scattano le perquisizioni delle celle. Non trovano nulla, ma ormai l’evasione è sfumata. Non resta che la rivolta. I brigatisti, capeggiati da Seghetti sequestrano 18 guardie e occupano due piani. Con bombe rudimentali respingono un tentativo di sgombrarli. Avanzano richieste e chiedono di trattare, ma questa volta la risposta è dura: nessuna concessione. Il giorno dopo i Gis dei carabinieri prendono d’assalto il carcere con elicotteri, esplosivo e raffiche di mitra. In poco tempo tutto è finito e senza morti. Ma, ripreso possesso della struttura, scatta il pestaggio dei rivoltosi.
I brigatisti subiscono anche un piccolo smacco politico, perchè Negri, Vesce e altri imputati del “7 aprile” si dissociano dalla rivolta.
La vendetta per Trani
Moretti e Senzani decidono che una risposta va data. La scelta di abbandonare la linea omicidiaria è accantonata. I rivoltosi se la sono cavata con un po’ di botte, ma qualcuno deve morire per questo. La scelta cade sul generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, stretto collaboratore di Dalla Chiesa e capo dei servizi di sicurezza per le carceri. E’ lui che ha diretto da Roma l’assalto a Trani.
In pochi conoscono il suo ruolo, ma i brigatisti sanno già tutto di lui. E’ stato lo stesso D’Urso a indicarlo come un uomo chiave. Senzani dirà che già sapevano di lui da un’altra talpa al ministero, ma forse è solo un modo per scagionare l’alto magistrato..
L’agguato viene organizzato da Senzani, ma nascono contrasti con la direzione della colonna romana sulle modalità. Tanto che Luigi Novelli e la Libera ordinano di sospendere una prima azione. E’ il primo segnale dell’insofferenza di molti brigatisti nei confronti di Senzani, che si è messo a fare il capo, non facendo parte neppure dell’esecutivo. Deve intervenire Moretti per dare il via libera all’azione per la sera del 31 dicembre.
Vengono acquistate due ceste regalo. Senzani si prende le bottiglie migliori per la festa che la sera stessa si svolgerà a casa di Buzzati, assieme ai carcerieri di D’Urso, i fratelli Petrella. Anche Novelli fa sua una bottiglia di barbera. Con il rimanente viene riconfezionata una cesta, con la quale Pancelli e Vanzi si mettono sotto casa del generale. Con la Cappelli e la Petrella di copertura.
Debbono aspettare oltre un’ora, perchè Galvaligi è uscito assieme alla moglie poi è andato a messa. Alle 19 il generale arriva, parcheggia e si avvia verso il portone. I due lo fermano: abbiamo una cesta da consegnare. Il generale ringrazia, estrae il portafoglio per dare una mancia. Ma resta con i soldi in mano, perchè Pancelli gli sta sparando cinque colpi, dritti nel cuore. Corre la moglie, ma Galvaligi è già morto.
Pancelli è uno anziano, ha già 38 anni, è impiegato alle Poste, pare un impiegato modello, comunque un insospettabile. Fino al 76 è stato un sindacalista Uil. Nel 77 dalla Uil è passato direttamente alle Br. Dopo alcuni anni da gregario, prendendo parte a diverse azioni, tra cui l’omicidio Schettini, a causa dei tanti arresti, è da poche settimane al vertice della colonna. Solo da un mese la polizia ha cominciato a sospettare di lui. Ma ormai è tardi, in maggio è sparito dal lavoro e anche da casa, lasciando moglie e due figlie. Ora è clandestino.
I giornali e i Radicali
Doveva essere un sequestro pulito. Ora è sporco di sangue, ma non cambia molto. Alcuni intellettuali firmano appelli per chiudere le carceri speciali. Il governo ha ormai deciso di chiudere l’Asinara. Le Br si sentono forti e alzano la posta. Annunciano la condanna a morte di D’Urso e chiedono che i comunicati dei brigatisti carcerati a Trani e Palmi siano pubblicati sui giornali. La moglie di D’Urso lancia un appello in tv, perchè sia accolta la richiesta. I principali quotidiani si rifiutano, l’Avanti, il Manifesto e Lotta Continua accettano, poi a seguire altri di area socialista, come il Messaggero, pubblicano. Ma alle Br non basta, vogliono la tv. Il Partito Radicale offre allora la sua tribuna elettorale alla figlia di D’Urso, perchè vi legga quello che vogliono le Br. Il 10 gennaio la ragazza, dopo aver rivolto un accorato appello per la liberazione del padre, legge ampi stralci dai due comunicati, chiamando il padre “il boia D’Urso“.
Il 15 gennaio il magistrato viene liberato e ritrovato legato e imbavagliato all’interno di un’auto, nella zona del ghetto.
Un capolavoro politico?
Moretti definirà il sequestro D’Urso: <un capolavoro politico…Abbiamo vinto, la sensazione è che si sta risalendo>. Definirlo un capolavoro equivale a definire tutto quello che si è fatto negli ultimi sei anni un disastro politico. Ma tant’è. Non è un capolavoro, non risolve minimamente la crisi in cui versano le Br, che restano immerse nella loro folle inutilità politica.
E’ però un successo tattico, che ha un solo riflesso positivo: l’arruolamento di nuovi militanti, soprattutto a Roma. Per quanto incredibile possa sembrare, ci sono ancora giovani che subiscono il fascino dell’essere ammessi nel mondo brigatista. Un mondo che non solo non è avanguardia di nulla, non solo non crea più alcun consenso o simpatia, ma è ormai fuori dalla cronaca oltre che dalla realtà. L’opinione pubblica segue con distacco e disinteresse le loro imprese. Su Canale 5 ci sono Dallas e Dinasty e sta per arrivare Drive In. Le Br sono roba del secolo passato.
Bilancio del 1980
L’80 si chiude con 32 morti e 16 feriti. Anche i numeri rivelano come si è andata modificando la lotta armata. Per la prima volta i morti superano i feriti, è il segno di un terrorismo che si è fatto più feroce. Ma complessivamente le vittime sono meno, soprattutto i feriti. E’ il segno di una riduzione dell’attività del partito armato nel suo complesso, dovuta alla quasi sparizione del cosiddetto terrorismo diffuso, vale a dire dei gruppi minori e meno militarizzati.
Il maggior numero di morti è delle forze dell’ordine: 6 carabinieri e 5 poliziotti. Alto il numero di vittime anche tra i dirigenti d’azienda con 6 morti e 4 feriti. Ancor più alto il numero dei morti nelle file del partito armato, sono otto, più due suicidi. Uccisi anche tre esponenti Dc, un piellino che ha parlato, un giornalista e un detenuto.
Tra i feriti ci sono 5 democristiani, un carabiniere, un militare, un architetto un giornalista e tre terroristi.
g.g.
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