Capitolo precedente 43) Viscardi ditrugge PL. Le Br rapiscono D’Urso

1981

Ave Maria, Br per amore

All’inizio di gennaio ’81 a Roma viene arrestato un altro brigatista, Giulio Cacciotti, 25 anni studente di Economia e commercio. Uno entrato nella colonna sin dalla sua costituzione, che ha partecipato a due omicidi e ad altre azioni sanguinose, come l’assalto alla Dc di piazza Nicosia.

Assieme a lui finisce in manette anche la sua fidanzata, Ave Maria Petricola. La ragazza è nata nelle campagne di Valmontone da una famiglia molto religiosa, da cui il nome. Al liceo conosce Cacciotti, se ne innamora e diventa la sua ragazza. Nel ’77 lui le rivela di far parte delle Br e le spiega che o anche lei entra oppure si debbono lasciare. Ave Maria ha partecipato al movimento del ’77, ma non ha la preparazione politica per una scelta del genere, ne farebbe volentieri a meno, ma accetta, non vuole perderlo. Viene destinata a compiti marginali, far da mangiare o le pulizie, affittare case, non ha mai impugnato una pistola, ma resta dentro fino all’ultimo, solo per amore dirà ai magistrati, con i quali collabora subito.

Bignami si arrende

I resti di Prima linea si dedicano ormai quasi solo alle rapine. Il 4 febbraio Bignami ed altri due vanno a rapinare una gioielleria nel centro di Torino. Arriva la polizia, ne nasce una sparatoria, Bignami è ferito a un piede e viene arrestato, gli altri due riescono a scappare. Ma lui dirà che si è fatto prendere per mettere fine ad una vita insopportabile.

Maurice Bignami con la sua compagna, Maria Teresa Conti

<Era il febbraio dell’81 e quella vita mi stava devastando… Sparai anch’io, ma non per uccidere. Avevo con me delle bombe a frammentazione e sarebbe stato facile. Colpito di rimbalzo da un proiettile a un piede, ma ancora in grado di fuggire, decisi improvvisamente di deporre le armi e mi feci arrestare. Giorni dopo, un poliziotto mi disse che avevo uno strano sorriso stampato sul muso. Io ricordo solamente che pensai: presto rivedrò la mia compagna>.

E’ la fine, a 30 anni, di una delle carriere da terrorista più lunghe e sanguinose. Maurice, come il padre l’aveva chiamato in onore di Maurice Thorez, segretario del Pc francese, aveva cominciato a Bologna nel ’68 come leader degli studenti medi di Potere operaio, per passare poi al nucleo armato legato a Toni Negri, da qui alle Fcc e infine a Prima linea.

Vuol far funzionare l’ospedale, uccidiamolo.

Nelle Br invece non c’è nessuno che si arrende. Anzi, si continuano a progettare ed eseguire omicidi sempre più assurdi.

Luigi Marangoni è il direttore del Policlinico di Milano. Non è un mestiere facile in questo periodo, soprattutto per chi vuol farlo fino in fondo. Ormai fuori dalle fabbriche, autonomi e gruppi armati hanno eletto i servizi pubblici, e in particolare gli ospedali, a loro nuovo terreno di conquista. Il loro estremismo ha trovato nel tradizionale corporativismo del pubblico impiego un qualche seguito. Il Policlinico da un po’ di tempo è scosso da lotte radicali che sfociano spesso in intimidazioni, violenze e veri e propri sabotaggi.

Sia Prima linea sia le Br ci hanno già inzuppato le loro pistole, ferendo alcuni capi infermieri. Marangoni è giovane, molto cattolico e soprattutto non è di quei direttori, e ce ne sono, che cercano il quieto vivere, che fanno finta di non vedere. E così ha preso provvedimenti disciplinari nei confronti di alcuni infermieri, accusati di aver favorito azioni di sabotaggio. Tanto basta per essere classificato come aguzzino. Anche se la maggior parte dei dipendenti gli riconosce di essersi sempre comportato con umanità. C’è un’aggravante però: è democristiano.

Ettorina Zaccheo

Lui sa di essere nel mirino. Ha già subito minacce, il suo nome è comparso su qualche muro. Pochi giorni fa in due lo hanno bloccato e fotografato: <Attento a come ti comporti, perchè ora sappiamo che faccia hai>. In realtà non c’è bisogno di raccogliere tante informazioni su di lui, visto che quella che ha già emesso la sua condanna lo conosce molto bene, perchè lavora gomito a gomito con lui. E’ la caposala Ettorina Zaccheo, che è anche il capo della brigata del Policlinico.

Marangoni si aspetta qualcosa, pensa ad un’aggressione, al massimo una gambizzazione. Ma si sbaglia. L’idea è quella di ucciderlo e la direzione della Walter Alasia ha già approvato. Moretti un mese prima aveva attaccato proprio quelli dell’Alasia: <Chi crede che il problema sia sparare o eliminare qualche nemico del popolo, costruisce nel vuoto>. Bonisoli molti anni dopo sarà ancora più duro: le Br hanno finito per accettare <la logica del serial killer: uccido per esistere>. Certo dirlo dopo è più facile. Ma i capi della Walter Alasia non ascoltano certo il “vecchio”, che hanno già liquidato definendolo un incapace.

Il 17 febbraio il commando si apposta sotto casa di Marangoni. Alle 8,15 il medico, dopo aver salutato moglie e due figlie, scende nei garage a prendere l’auto. I brigatisti vedono la sua Alfasud risalire la rampa. L’auto si deve fermare per immettersi nella strada, è a quel punto che Samuele Zellino, armato di lupara, e Maria Rosa Belloli, travestita da uomo, si avvicinano al finestrino dal lato guida. Poco distante, a far da copertura, c’è Michele Galli con un mitra Sterling. Più in là Nicolò de Maria, un operaio della Breda, a bordo di una Ritmo, pronto per la fuga.

La salma di Luigi Marangoni

Zellino è un ragazzo di 21 anni, disoccupato e da poco entrato nelle Br, quando aveva 16 anni e militava di Democrazia proletaria fu picchiato e ridotto male dai fascisti. E’ lui a sparare con la lupara da mezzo metro, il vetro esplode e i pallettoni investono Marangoni. Poi per sicurezza lascia cadere il fucile e spara due colpi con la 38 special. La Belloli, che poi diverrà sua moglie e che ha una lunga carriera armata essendo passata da Rosso alle Fcc, da queste ai Reparti comunisti e infine alle Br, è al suo fianco pistola in pugno, ma non spara. Deposte le armi si dedicherà alla pittura e scriverà favole illustrate per bambini.
De Maria, che assieme alla Belloli è uno dei capi della Walter Alasia, parte con l’auto, si ferma davanti all’Alfasud e carica i tre.

All’agguato ha assistito un commissario di polizia, assieme ad un’agente. I due bloccano la loro auto in mezzo alla strada per impedire alla Ritmo di fuggire. Ma Zellino scende e apre il fuoco sui poliziotti, ne nasce una sparatoria. Il brigatista ha pochi colpi, la sua arma è presto scarica, alza le braccia e fa per arrendersi. A questo punto anche gli altri si mettono a sparare. I due agenti debbono ripararsi dietro all’auto e la Ritmo, con uno zig-zag, riesce a dileguarsi, lasciando però a piedi Zellino, che deve impossessarsi di un auto di passaggio per fuggire.

La Alasia ci ripensa, forse

In questo inizio di ’81 è la Walter Alasia la colonna più attiva. Le uccisioni di Briano e Mazzanti, fortemente criticate dall’esecutivo e poi quella di Marangoni, hanno sollevato qualche perplessità all’interno della colonna, qualche critica, timida, a questa linea omicidiaria. E soprattutto ha suscitato reazioni negative tra gli operai.

E’ anche per questo che il nucleo della Breda propone di tornare alle origini, alle primissime Br e alle loro azioni dimostrative, senza sangue. Il 5 febbraio, a Cinisello Balsamo, in quattro (Adamoli, uno dei capi; Pagani Cesa entrato da pochi mesi, Toraldo operaio Alfa e Formenti operaio della Falk) sequestrano Salvatore Compare, un caporeparto delle Breda. Lo caricano su un’auto, gli fanno lo scherzetto di sparargli con la pistola scarica, lo portano davanti alla Breda, qui lo scaricano e lo legano a un palo, con un cartello al collo. Proprio come ai vecchi tempi di Macchiarini e Labate.

Il sangue comunque torna a scorrere presto. Nel mirino le solite gambe dell’ennesimo dirigente di fabbrica, ma questa volta l’obiettivo è più ambizioso. Perchè Alberto Valenzasca viene colpito, non sotto casa come gli altri, ma dentro la fabbrica e da due operai che vi lavorano. L’idea è quella di dimostrare quanto le Br siano forti e protette proprio lì in azienda. In effetti la brigata Alfa Romeo è la più numerosa ed ha anche un certo seguito, ma si tratta pur sempre 7/8 operai (per la precisione c’è anche un impiegato), su alcune migliaia di dipendenti. E comunque il calcolo è sbagliato perchè saranno le testimonianze di alcuni colleghi a portare ai due operai. E cioè a Toraldo, che già aveva partecipato al sequestro lampo, e a Pietro di Gennaro.

La mattina prima delle otto del 12 marzo, i due, all’interno del reparto montaggio-motori, intercettano Valenzasca che in bici sta andando a timbrare il cartellino, un colpo con silenziatore al ginocchio e via.

Nascono i Colp

Giulia Borrelli

Quel che resta di Prima linea, in gennaio e poi in aprile, si riunisce a Barzio in provincia di Lecco, per decidere che fare. Una minoranza, capeggiata da Frank D’Ursi, propone lo scioglimento. Costoro, o almeno una parte, non ha in mente di deporre le armi, ma di confluire nelle Brigate rosse, che sono ormai diventate una sorta di rifugio per sbandati e sconfitti. Nei mesi successivi in una decina approderanno alla spicciolata alle Br.

La maggioranza, capeggiata dalla Borelli, decide invece di mantenere in piedi una struttura, un “Polo organizzato” come lo chiamano, che nel suo programma sconta la consapevolezza della sconfitta politica. L’obiettivo che si dà infatti è tutto difensivo: costituire una rete di protezione per i militanti ricercati e di appoggio a quelli in carcere, con l’obiettivo di organizzarne l’evasione.

Questo gruppo, nella seconda metà dell’81, assumerà il nome di “Comunisti organizzati per la liberazione proletaria” (Colp). Ad esso si affiancano, nel senso che collaboreranno a qualche azione, il “Nucleo comunista combattente” di Segio, un gruppetto di amici più che una vera organizzazione, che si è dato lo stesso obiettivo.

Moretti, l’imprendibile è preso

Moretti è stanco, logorato da quasi dieci anni di vita clandestina e otto da capo indiscusso delle Br. Non è da lui dimenticarsi le cose, confondersi. Eppure non molto tempo fa ha preso un taxi ed ha chiesto di essere portato in via Gradoli. E poi ha dimenticato il numero di telefono a Parigi di Louis, il collegamento con i palestinesi e non solo, che sapeva a memoria.

E’ stanco e sfiduciato. Il sequestro D’Urso è andato bene e lui ha pensato che potesse segnare una svolta, una ripresa su basi nuove della lotta armata: meno omicidi e più politica, finalizzare le azioni alla conquista di qualcosa e così conquistare consenso. Ma in fondo non ci crede neanche lui, perchè lo stato di salute delle Br non è buono. Dopo la mazzata Peci, Torino e Genova sono terra bruciata, i tentativi di rimettere in piedi qualcosa sono falliti. Il livello politico dell’ultima leva di militanti è mediocre. Il solo Senzani ha capacità politiche, ma è ambizioso, sgomita, vorrebbe affiancarlo nella leadership e sta trasformando il Fronte carceri in una roba tutta sua. E poi soprattutto c’è Milano, anzi non c’è. La Alasia si è portata via tutti i militanti, le vecchie Br sono a zero. E su una cosa non ha dubbi: se le Br non sono presenti nel triangolo industriale e soprattutto a Milano, dove sono nate, allora non hanno più senso di esistere.

La cattura di Mario Moretti

E’ così che a fine febbraio ha deciso di tornare a Milano, con la Balzerani e Fenzi, per tentare di nuovo di ricostituire una colonna. E’ un’impresa non facile, quasi disperata, quel che c’è su piazza è poco e poco affidabile. E poi quello di far reclutamento non è certo compito suo. Che l’uomo più ricercato d’Italia si metta a cercar contatti è un’imprudenza clamorosa. Sarebbe compito degli irregolari, ma a Milano non ce ne sono.

Moretti incontra alcuni giovani, tra loro c’è un pregiudicato di Pavia, un certo Renato Longo. Si trovano la prima volta a casa di un amico dei ragazzi, un camionista che gira per l’Italia, e dopo un nulla di fatto si danno appuntamento allo stesso indirizzo, due settimane dopo, il 4 aprile.

Nel frattempo però Longo viene arrestato a Pavia e non ci pensa due volte ad offrire la testa di Moretti: se mi liberate ve lo faccio prendere. Alla Digos di Milano non lo prendono sul serio, non credono che un personaggio così sia in contatto con Moretti. Ma un tentativo va fatto.

Il capo delle Br arriva per primo, poco dopo arriva Fenzi, ma è agitato: <Hai visto quelli là sulla piazzetta? Sono troppi, non so, non mi vanno>. E’ un gruppo di ragazzi in jeans che chiaccherano tra loro. Moretti lo tranquillizza: <Non possiamo star dietro a ogni impressione, diventeremmo matti, ti pare?>. Poi vanno in un bar a prendere un caffè. Intanto sono arrivati anche due dei ragazzi da reclutare, manca solo Longo, che ha le chiavi dell’appartamento. Moretti e Fenzi tornano al luogo dell’appuntamento per aspettarlo, è un attimo, intravvedono appena due ombre alle loro spalle che arrivano quasi di corsa e che li sbattono a terra. Per i ragazzi in jeans sarà l’arresto più importante della loro carriera. Moretti e Fenzi vengono infilati in due auto. Il capo storico delle Brigate rosse, il super ricercato, l’imprendibile Moretti ha chiuso la sua carriera di terrorista. E quasi nessuno se ne è accorto.

Qualcuno ha ipotizzato che in realtà la storia di Longo sia una copertura e che Moretti fosse seguito da tempo. Tesi avvalorata da un’allusione di Morucci al fatto che qualcuno aveva venduto il capo delle Br. A sostegno però non c’è nulla, lo stesso Moretti ha confermato la versione della polizia.
Comunque sia, per le Br può essere l’inizio della fine. Molti lo sperano, alcuni ne sono convinti. Ma non sarà così.

A Roma si torna a uccidere

Solo tre giorni dopo la cattura di Moretti a Roma viene uccisa una guardia di Rebibbia. Qualche giornale parla di vendetta per gli arresti, ma non è così. L’uccisione era stata decisa da qualche settimana. E a quanto se ne sa, il fronte carceri incaricato dell’esecuzione, non ne era neanche troppo convinto. Ma da dentro il carcere avevano insistito. In particolare Iannelli aveva indicato in Raffaele Cinotti l’obiettivo, in quanto capo delle guardie al braccio G13, quello di massima sicurezza, e accusato di pestaggi dei detenuti.
Sono Senzani, Di Rocco, Buzzati e Petrella ad aspettarlo quando alle 6,45 esce dalla sua casa nella borgata di Torbellamonaca e a sparargli 16 colpi nella schiena.

Il dopo Moretti

Per Senzani la strada verso la leadership è ora spianata, almeno così crede. Del resto il professore, quanto a preparazione politica ed anche capacità organizzativa, è sicuramente una spanna sopra gli altri; è lui ad aver gestito, assieme a Moretti, il sequestro D’Urso; e Moretti era l’unico nei confronti del quale Senzani si piegava, ma ora il “vecchio” non c’è più.

Ma agli altri capi Senzani non piace, anzi ne diffidano proprio. E’ troppo ambizioso e si comporta come se le Br fossero già una cosa sua.

Quando furono catturati la Ponti e Guagliardo, questi informarono il Fronte carceri di un deposito segreto di armi a Torino. E Senzani se ne era impossessato senza dire niente a nessuno. Dopo la cattura di Moretti, Guagliardo fa avere a Senzani il telefono del famoso Louis (Louis Baudet), che solo lui conosce oltre a Moretti, e Senzani lo tiene per sè e riallaccia i rapporti con Parigi, tagliando fuori l’esecutivo.

Barbara Balzerani

Quando questi lo vengono a sapere non la prendono bene. E infatti nella direzione strategica che si tiene in aprile la proposta di inserire Senzani nell’esecutivo viene respinta ed anzi l’aspirante capo viene mandato a dirigere la colonna napoletana. L’esecutivo rimane composto da tre persone: Balzerani, Savasta e Novelli. Un contentino alle tesi di Senzani viene dato con la creazione del Fronte del proletariato marginale.

Ma lo scontro è destinato ad acuirsi. Senzani progetta l’uccisione del giudice di sorveglianza di Pianosa e incarica elementi toscani di raccogliere informazioni. Quando l’esecutivo, che non è stato informato, lo viene a sapere ordina ai toscani di non fare nulla e così il piano salta.

La cosa si ripete qualche tempo dopo. Questa volta il progetto è un’evasione dal carcere di Pisa. Senzani contatta un membro del comitato toscano e fissano un appuntamento. Ma invece del toscano si presenta la Balzerani che avverte il professore che gli avrebbe ficcato una pallottola in testa se si permetteva ancora di prendere simili iniziative scavalcando l’esecutivo.

Ma chi è Senzani?

Quella pallottola forse gliela avrebbero già sparata se fossero stati a conoscenza di alcuni fatti nascosti nelle pieghe della vita di Senzani. (ne abbiamo parlato anche nel cap. 25)

Ora ha 39 anni, è un criminologo, ha studiato a Berkeley e insegnato alle università di Firenze e Siena, ma soprattutto è stato fino a un paio d’anni addietro un consulente del ministero della Giustizia. Era lui a passare alle Br molte informazioni riservate su giudici e funzionari da colpire. Già nel 77 era a capo del comitato brigatista toscano ed è molto forte il sospetto che fosse lui ad ospitare le riunioni del comitato esecutivo durante il sequestro Moro, probabilmente non avendovi solo il ruolo di ospite. Nel giugno del 79 è entrato in clandestinità divenendo un “regolare”.
Ma questo gli altri capi delle Br lo sanno, quello che non conoscono sono una serie di episodi sospetti che accompagnano il suo avvicinamento e poi ingresso nelle Br.

Giovanni Senzani

Nel 72 cedette temporaneamente casa sua a Roma a un giovane regista che poi divenne collaboratore del Sismi. Certo, può essere solo una coincidenza. Ma i servizi segreti torneranno a far capolino nella sua vita più volte.

A Firenze il capo locale del Sid è Mannucci Benincasa, uno che ha messo il suo ufficio a disposizione di Gelli ed è gran protettore degli stragisti neri. Costui ha preso in affitto un appartamento per incontrare regolarmente un uomo delle Br, a cominciare dal 78 e fino all’82. Non si sa chi sia, ma si sa che i brigatisti fiorentini, tranne uno, Senzani, erano tutti ragazzotti di modesta levatura, tanto che i capi avevano ritenuto non ci fossero le condizioni per creare una colonna. E, ma forse anche questa è solo una coincidenza, i contatti col misterioso brigatista cessano quando Senzani viene arrestato.

Il generale Notarnicola, che dentro il Sismi venne duramente osteggiato dai colleghi piduisti, fornisce un ulteriore indizio: <Senzani venne fermato a Genova nel dicembre 1978. Chiesero informazioni al controspionaggio di Firenze, dove Senzani abitava, ma il controspionaggio lesinò le informazioni>. Un eufemismo per dire che Mannucci proteggeva Senzani.

Il brigatista Galati ha rivelato che Roberto Buzzati, altro brigatista, gli disse che Senzani aveva avuto rapporti col Sismi.
E’ un fatto certo che Senzani uscì dal processo Moro, perchè il capo del Sismi, Santovito, fece avere una nota nella quale si diceva che Senzani in quei mesi era negli Usa. Cosa mai accertata e smentita dal vicequestore Molinari che indagava su di lui. Lo stesso racconta che, quando a Genova indagarono su Senzani, furono bloccati da Roma, tanto che il questore si dimise.

Ed è anche certo che nel marzo 79 fu fermato, perchè aveva ospitato in casa un giovane brigatista, e dopo tre giorni fu rilasciato, cosa che gli permise di sparire e entrare in clandestinità. Nonostante che ci fossero buone ragioni per sospettare di lui. Quando, ad esempio, gli chiesero perchè avesse un’agendina in codice, la risposta fu: <io scrivo in tram e quando lo faccio scrivo delle cose che neanche io riesco poi a decifrare>. A giudici, servizi e polizia parve una risposta convincente.

Senzani è dunque un infiltrato dei servizi, un uomo della P2 o degli americani? Non ci sono prove per dirlo, di certo è un personaggio con tratti di notevole ambiguità. Ed anche la sua condotta come capo brigatista non sarà del tutto limpida.

Le Br a Napoli

Senzani ora ha anche una colonna tutta sua e nel posto giusto: Napoli. La città perfetta per mettere in pratica la sua linea politica: uscire dall’enclave fabbrichista e militarista, per puntare sul più ampio proletariato urbano fatto di sottoproletari, disoccupati, emarginati, tutta quella gente che sbarca il lunario nella fascia grigia della semilegalità ed anche più in là, fino alla vera e propria attività criminale.

Dopo la cattura dei quattro che hanno ucciso Pino Amato, nel maggio dell’80, tra cui i due capi della colonna appena fondata, Seghetti e Nicolotti, venuti da Roma, era arrivato a Napoli Moretti per cercare di riorganizzare quel che ne restava. La nuova direzione viene affidata a Vittorio Bolognesi e Antonio Chiocchi. Due anziani, il primo ha 31 anni e il secondo 33. Bolognesi lascia il lavoro di operaio ed entra in clandestinità. Ha fatto le scuole professionali, ma nel corso della sua militanza nel collettivo autonomo di Bagnoli, ha acquisito un buon livello culturale. E siccome è anche un uomo d’azione, è lui il capo riconosciuto, almeno fino all’arrivo di Senzani. Chiocchi è avellinese, un intellettuale di estrazione borghese, quello che i giornali, senza molta fantasia, etichettano come l’ideologo del gruppo. Con loro c’è un muratore, Emilio Manna, detto Mandingo per il fisico possente, 25 anni, anche lui viene dall’Autonomia di Bagnoli. Più un’altra decina di militanti, un paio dei quali vengono dai vecchi Nap.

I due fanno un buon lavoro, perchè a fine anno la colonna conta già una quarantina di uomini. Di sottoproletari ed emarginati non ce ne sono molti, a parte Giovanni Planzio, che diventa uno dei capi, e un altro paio. Ci sono alcuni studenti, un paio di dipendenti statali, un medico, un insegnante. Quasi tutti molto giovani, gente che nel ’68 aveva 8 o 10 anni. Nonostante la lotta armata sia in buona parte estinta e quel che ne resta sia lacerato dai morsi di una crisi senza sbocchi, ancora per tutto l”80 e l”81 ci sono alcune decine di giovani e giovanissimi pronti ad arruolarsi.

Tra i capi c’è anche una ragazza di 22 anni, Natalia Ligas. Piccola, mora, minuta, è sarda, di estrazione borghese, rimasta orfana di madre a 14 anni. A 15 anni si avvicina a Comunione e Liberazione, poi fa l’università a Roma e passa al collettivo dei Volsci. Lavora anche come inserviente in ospedale e qui conosce Savasta, che l’arruola. Ora fa la spola tra Roma e Napoli.

g.g.

Capitolo successivo 45) I sequestri Cirillo e Taliercio