Nel capitolo precedente: 45) I sequestri Cirillo e Taliercio
Colpire gli uffici di collocamento
Subito dopo il sequestro Taliercio, la colonna romana dà il via alla campagna sul lavoro, lanciata dall’ultima risoluzione strategica.
Quella romana è l’unica colonna che continua a reclutare forze nuove. Nonostante l’ondata di arresti del maggio ’80, continua a contare su una cinquantina di elementi, più altrettanti nei vari Mpro che la fiancheggiano. A guidarla ora sono: Pancelli, Capuano, la Cappelli, la Libera e Vittorio Antonini, uno entrato da meno di un anno, ma già ai vertici, evidentemente uno molto apprezzato.
Oltre agli uomini anche i soldi non mancano. Dopo il mezzo miliardo rapinato al ministero dei Trasporti l’anno prima, in marzo è stato messo a segno un altro colpo, questa volta alla banca che si trova all’interno del Cnen, bottino 150 milioni. E un mese dopo un nuovo colpo alla Sip con un bottino record: 736 milioni
Di soldi ne servono tanti. Solo la colonna romana ha spese attorno ai 60 milioni all’anno. I sei regolari prendono uno stipendio di 300 mila lire al mese. Poi c’è il fronte carceri, che ha uscite ancora maggiori, perchè ci sono tanti carcerati e le loro famiglie da aiutare, e gli avvocati da pagare. E’ capitato a volte che non ci fossero i soldi per arrivare alla fine del mese, ma ora le casse sono piene.
Due le azioni principali della campagna sul lavoro. Ovviamente due gambizzazioni. La prima, il 22 maggio 81, ai danni del direttore dell’Ufficio di collocamento. Già l’anno precedente ne era stato ferito un altro. Il commando composto da otto persone anche alcune nuove reclute, guidato da Novelli e dalla Cappelli, entra nei locali, chiusi al pubblico, fa inginocchiare il direttore gli mette un cartello al collo con scritto “Lavorare tutti, lavorare meno” e gli spara alle gambe.
Una settimana dopo azione identica, ma con un obiettivo e in uno scenario sorprendenti. La scuola professionale dei salesiani sulla Tiburtina. Un ragazzino di 14 anni, si sente chiedere da una donna: chi è il prof Magagna? L’alunno ignaro lo indica. La donna estrae la pistola e gli intima: <Fai finta di niente>. Altre due donne e un uomo si avvicinano, dicono che vogliono intervistarlo. Lui li fa entrare in ufficio, ma quelli lo fanno inginocchiare, gli mettono un cartello al collo: <Lavorare meno, lavorare tutti. Contro i corsi di formazione professionale, che selezionano e disgregano il proletariato>. Poi gli sparano. Le tre donne sono la Petrella, la Cappelli e Anna.
Davvero difficile dare un senso al ferimento di un insegnante di elettrotecnica in rapporto alla crisi del mercato del lavoro.
Alcuni giorni dopo Massimiliano Corsi va all’Ufficio di collocamento per raccogliere le opinioni di disoccupati e lavoratori: <Non ne trovai uno che fosse d’accordo con noi>. Nemmeno loro hanno trovato un senso a quel sangue.
Terzo sequestrato: Sandrucci
Il 3 giugno 81 i sequestrati diventano tre. Tutti fotografati sotto la stessa stella a 5 punte, ma in realtà nelle mani di tre organizzazioni ormai separate. Il terzo e Renzo Sandrucci, un dirigente dell’Alfa Romeo di Arese. A rapirlo sono stati quelli della Walter Alasia, d’altra parte quella è la loro fabbrica. Altri quattro dirigenti hanno già assaggiato il piombo brigatista. L’Alfa è l’unica fabbrica in Italia dove le Brigate rosse conservino una presenza significativa, 7/8 militanti, alcuni dei quali, come Vittorio Alfieri, sono dei leader con un certo seguito.

Renzo Sandrucci nelle mani della Walter Alasia
E’ da qualche mese che preparano l’azione, ma l’hanno dovuta rinviare più volte, per vari disguidi e imprevisti. L’ultimo è l’arresto, la settimana prima, di due brigatisti, operai all’Alfa, accusati del ferimento del dirigente Valenzasca. Sono Vincenzo Toraldo e Pietro Di Gennaro, il primo aveva partecipato anche al ferimento di Bestonso e al sequestro lampo di un dirigente della Breda.
Poi c’è stato un altro problema. Il pulmino di un militante era stato allestito con un doppiofondo per portare via il prigioniero, ma è stato rubato e ritrovato nel giro di 24 ore. La cosa è apparsa sospetta, per di più il proprietario, Alberton, ha il dubbio di essere pedinato. Cosa vera, i carabinieri tengono sotto controllo lui e altri brigatisti. Così han dovuto congelare Alberton e comprare un altro pulmino.
La mattina del 3 giugno, pochi minuti prima dell’azione, l’ultimo incidente. Galli, Zellino, Ferlicca, Carnelutti e poco più lontano la Belloli e Mauro Ferrari, sono di copertura. Carnelutti entra nel bar all’angolo e ordina a tutti di stare lontani dal telefono. Ma Galli, evidentemente molto agitato, si spara a un dito con il mitra Sterling. Per cui Zellino e Ferlicca lo debbono accompagnare in un bar dove Marta, un’infermiera, è pronta a prestare soccorso in caso di ferimenti (non erano previsti autoferimenti). Nei giorni successivi, un medico del Policlinico viene costretto ad amputare il dito. Il medico eviterà di denunciare il fatto.
Per il nuovo tentativo il commando è numeroso, sono in 14. C’è gente esperta ed altri alla loro prima azione importante. Scorrendo i nomi vien fuori in modo chiaro la composizione sociale della WA, una colonna diversa da tutte le altre. Ivan Formenti, 23 anni, è un operaio e delegato sindacale della Falk. Nicola Giancola, 30 anni, lavora alla Philips, è tra i vecchi della colonna, ha già partecipato all’uccisione di tre poliziotti assieme a Moretti. Anche Angelo Ferlicca è un operaio, viene da una famiglia modesta, ha solo 20 anni ed è entrato nelle Br a 18, ma genitori e fratelli sono ignari.
Nicolò De Maria è uno dei capi, anche lui operaio, come anche Bognanni. Grillo e Antonio Paiella, appena entrato nelle Br, operaio alla Breda. Un altro dei capi è Alfieri, operaio all’Alfa. Ferrari, 24 anni, è un ex dipendente della regione poi c’è un’infermiera.
Adriano Carnelutti è il più vecchio, 35 anni, con una lunga carriera alle spalle. Fu tra i brigatisti della prima ora, nel lontano 72 quando faceva l’operaio alla Fiat. Poi fu arrestato, anni dopo fa un salto nei Pac, per poi tornare alle Br.
Sono quasi tutti operai. Accanto a loro ci sono Adamoli, Zellino e la Belloli, vecchie conoscenze, provenienti invece dagli ambienti dell’Autonomia.
Alle 7,30 Sandrucci si avvia vero Arese, guida un’Alfetta e al fianco ha una guardia del corpo armata. In via Zanzur, una strada stretta, l’auto viene bloccata da una Fiat 124 e l’auto che la segue, una Opel, blocca un’eventuale retromarcia. Da un pulmino parcheggiato scendono Adamoli e Formenti, che rompono il finestrino e costringono la guardia a scendere e sdraiarsi sull’asfalto. L’uomo non oppone alcuna resistenza e viene ammanettato.
Altri due, Bognanni e Giancola, scesi dall’Opel, prelevano Sandrucci, lo caricano sulla 124 guidata da De Maria e se ne vanno a sirene spiegate. Dopo poco il prigioniero viene trasferito sul pulmino nuovo, guidato da Grillo, con all’interno Alfieri e Paiella che provvedono a mettere Sandrucci dentro a una cassa. Che viene portata nell’appartamento di Caterina Francioli, in zona ticinese. Caterina è una 28enne, reclutata da poco, politicamente impreparata e con una personalità debole.
La Walter Alasia torna alle origini
Una parte della colonna, soprattutto il “fronte fabbriche”, aveva criticato l’omicidio del direttore del Policlinico, Marangoni. Invocando una specie di ritorno alle origini, alle prime azioni brigatiste, incruente, che avevano raccolto qualche consenso nelle fabbriche.
Sembra che le critiche abbiano portato ad un cambio di linea. Perchè il sequestro Sandrucci sarà gestito proprio così, come nei primi anni. Infatti si è già deciso che si concluderà comunque con la liberazione dell’ostaggio.
Dopo qualche giorno lo spostano in una prigione diversa: l’appartamento di Daniela Rossetti, un’insegnante trentenne, trasportandolo nascosto dentro a un congelatore.

Vittorio Alfieri
Sandrucci, che viene interrogato da Alfieri e qualche volta dalla Betti, è accusato di essere uno dei responsabili della ristrutturazione all’Alfa Romeo. Vale a dire: tagli al personale, cassa integrazione, peggioramento delle condizioni di lavoro, in una parola dell’aumento dello sfruttamento.
I comunicati, che si susseguono durante la prigionia, tutti centrati sulla situazione dentro le fabbriche milanesi, vengono fatti trovare all’interno dell’Alfa, ma anche di Falk, Marelli, Breda e persino della Fiat.
I brigatisti diffondono anche una lunga autointervista (imitando anche in questo le prime Br), che è il manifesto politico della WA, scritta da De Maria. Un documento con al centro la solita questione irrisolta (e irrisolvibile), dell’isolamento della lotta armata.
Viene criticata la linea brigatista degli ultimi anni: l’attacco al cuore dello Stato resta un punto fermo, non si può fare la rivoluzione rimanendo chiusi nei loughi di lavoro, ma serve a poco sparacchiare in giro, se questo non è accompagnato ad un programma concreto e a risultati immediati che soddisfino i bisogni delle masse. Il sequestro Sandrucci rientra proprio in questa strategia: difendere i lavoratori dall’attacco padronale che vuole cancellare 12 anni di conquiste. Quanto al partito combattente, esso non può esistere senza i movimenti di massa, deve essere interno ad essi, non al di sopra.
Meno sangue e più classe operaia
Ma vengono criticate anche le nascenti Brigate rosse di Senzani: la rivoluzione non può che partire dalla classe operaia e poi estendersi ad altri strati sociali.
E vengono criticate entrambe, nel segno di un abbandono del settarismo omicidiario: i revisionisti del Pci e del sindacato vanno combattuti, ma politicamente. Non sono dunque nemici equiparabili a padroni e Dc a cui sparare. Ed anche con i dissociati dalla lotta armata si deve avere un confronto politico e non di vendetta.
Un documento che tenta di fare i conti con il sostanziale fallimento della lotta armata, ovviamente senza ammetterlo. Ma rimanendo ancorato ad un’analisi sbagliata e ancora visionaria. L’autointervista assicura infatti che la crisi attuale è il segno della irreversibile decadenza del capitalismo e che un obiettivo realistico è il passaggio ad una fase di guerra civile popolare di lunga durata.
Tutto il sequestro Sandrucci viene condotto sulla linea di “moderazione” indicata dal documento. L’ostaggio viene trattato bene, secondo lo stile dei primi sequestri ai tempi della Cagol.
Gli interrogatori sono condotti pacatamente, non ci sono le botte riservate a Taliercio dalle altre Br. Anzi tra sequestratori e prigioniero si instaura un rapporto di fiducia, quasi amichevole. Tanto che la Betti prenderà in giro Alfieri: <Come farai ora senza il tuo Renzino?>. Quando Sandrucci verrà liberato i brigatisti si dimenticano di restituirgli la borsa, allora contattano la cognata per fargliela riavere. Dal canto suo Sandrucci lascerà ai brigatisti alcuni buoni benzina, a parziale rimborso delle spese sostenute per il suo sequestro.
Un rapporto di fiducia tale che, un giorno capita che una inquilina suoni alla porta e chiami ad alta voce la Rossetti col suo cognome e, nonostante Sandrucci lo abbia sentito, non fanno nulla, perchè si fidano di lui. Fiducia ben riposta, infatti il dirigente, una volta libero, non collaborerà con gli inquirenti, fornendo anche testimonianze non veritiere.
La Walter Alasia aveva programmato altri tre sequestri di minore durata con cui accompagnare quello di Sandrucci. Ma questo piano sarà un fallimento.
La mattina del 16 luglio Adamoli, Bognanni e Pagani Cesa bloccano l’ing. Manunza della Breda, mentre cammina a piedi, e lo caricano sulla loro auto, sulla quale sale poi la Belloli, che aveva fatto da avvistatrice. L’auto parte con Zellino che fa da staffetta su un motorino.
Evidentemente qualche dubbio sorge ai sequestratori, perchè chiedono a Manunza i documenti. Infatti non è quello che dovevano prendere. <Abbiamo sbagliato – gli dice Adamoli – Stai calmo e non ti succederà niente. Non dire niente>. E viene scaricato. Il secondo sequestro salta per un imprevisto, il terzo viene annullato.
Cirillo, le offerte della Dc
Intanto la Dc, tramite Cutolo, fa offerte sempre più vantaggiose alle Br, affinchè rilascino Cirillo. Soldi, alcuni miliardi, armi in abbondanza, informazioni su carabinieri e magistrati dell’antiterrorismo. Ed anche l’indicazione del luogo dove è nascosto Peci, forse la cosa più allettante per le Br. L’offerta potrebbe anche essere un bluff, ma sarebbe molto interessante sapere chi avrebbe reso disponibile quella informazione.
E poi c’è anche Cutolo da compensare. Il boss chiede benefici personali e processuali, una fetta della torta miliardaria della ricostruzione e soldi, molti soldi. E qui la trattativa con la Dc è ben avviata.
Il sequestro lampo
Dentro le Br ci sono ancora resistenze ad accettare la trattiva con Cutolo e la Dc. Anche perchè troppo poco hanno ottenuto sul piano politico. E’ così che si decide di tornare a colpire. C’è un altro assessore all’edilizia, quello comunale. Ed è proprio lui, Umberto Siola, uno dei registi del piano di evacuazione del centro terremotato. Siola è il preside della facoltà di architettura ed è assessore di una giunta di sinistra, perchè il sindaco di Napoli è Valenzi, un comunista. Questo naturalmente per le Br non fa differenza, anzi.

Umberto Siola ferito
Siola viene sequestrato la mattina del 6 giugno da un commando formato dai soliti Senzani, Bolognesi, Planzio e Manna. Trasportato in auto a Fuorigrotta, interrogato e processato. Siola però non ci sta, si difende: spiega che sono già stati sequestrati 600 immobili, e non è stato facile; e non si tratta di deportazione, costruire 20mila alloggi in periferia è una grande occasione per ridisegnare il piano urbanistico e decongestionare la città.
E’ quasi surreale, dall’attacco allo Stato imperialista delle multinazionali si è passati a dibattere di decongestione del traffico. Il dibattito si conclude però come ovvio e previsto: gli sparano alle gambe e lo abbandonano per strada.
Il giorno dopo a casa Cirillo arriva una lettera scritta dall’ostaggio, con la quale le Br chiedono la pubblicazione integrale dell’interrogatorio a cui è stato sottoposto. Pochi giorni dopo “Lotta Continua” pubblica i verbali con il titolo: “Quattro pagine che avremmo preferito non pubblicare”. Cirillo ha raccontato 30 anni di potere della Dc a Napoli, ma non ci sono rivelazioni sconvolgenti.
Nei giorni successivi parte dell’interrogatorio viene diffusa con altoparlanti anche nelle strade della città.
Il misterioso Santini
Sono ormai 40 giorni che Cirillo è prigioniero, ma la situazione è in stallo. Le Br non si lasciano sedurre dalle generose offerte. Ma arriva una telefonata, alla quale segue un incontro che può essere il punto di svolta e convincere Senzani a prendere davvero in mano la trattativa e concluderla nel modo in cui deve concludersi.
Massimo Gidoni, lo psichiatra che aveva accompagnato Moretti in Libano con il Papago, telefona a casa di Buzzati, dove alloggia Senzani quando è a Roma. Senzani non c’è, allora lascia un messaggio: <Digli che ha chiamato il sig Santini e che lo aspetta l’8 giugno alle 12,30 alla stazione di Ancona>. Buzzati riferisce, ma: <Senzani si arrabbiò e si preoccupò che io avessi saputo qualcosa di questo Santini. Lo tranquillizai>.
Il giorno indicato, Senzani, assieme a Buzzati e Di Rocco, parte per Ancona. <Mi disse di aspettare – racconta Buzzati – e si allontanò per incontrare questo Santini. Io di nascosto vidi la persona: 45/50 anni basso, robusto, capelli corti ondulati, baffi brizzolati, occhiali, carnagione scura. Dopo gli chiesi chi era e lui disse: un agente del Kgb che sa molto della strage di Bologna>.

Il colonnello Pietro Musumeci
Ma chi è questo misterioso Santini? Senzani ha mentito, visto che le Br non disporranno mai di informazioni sulla strage di Bologna, ma che sia un uomo di qualche servizio segreto è quasi certo.
Buzzati disegnerà poi un identikit dell’uomo. Il magistrato che lo esamina sbotta: <sembra la foto di Musumeci>. Cioè il vicecapo del Sismi, l’uomo delle operazioni sporche, che della strage sa molto, infatti sta depistando le indagini. E’ quello da cui dipendeva il col. Guglielmi che era in via Fani ed anche uno di quelli che hanno incontrato Cutolo.
Certo, gli identikit valgono quel che valgono. In più Buzzatti non ha riconosciuto il fantomatico Santini in una foto di Musumeci. Ma l’ipotesi che fosse davvero l’uomo del Sismi non è incredibile. Non è la prima volta che emergono continguità e contatti tra lui e il Sismi. Ed è comunque chiaro che Senzani era già in contatto con lui da tempo, forse giorni, forse settimane o forse anni.
Ma l’incontro è finalizzato solo a sbloccare la trattativa o a qualcosa di più? Comunque sia la trattativa si sblocca.
Ma prima Senzani ha un altro impegno. Una cosa che lo eccita molto
Roberto Peci
Perchè Senzani è fatto così, vive in uno stato di esaltazione. Mollata la vita accademica si è gettato anima e corpo nella lotta armata. E’ posseduto dall’ambizione e si sente ormai il vero capo delle Br, considerato anche il livello politico mediocre degli attuali capi. E’ convinto di essere un genio del terrorismo. E’ disinteressato alle cose terrene, iperattivo e insonne. Scrive chilometrici documenti da recapitare a Franceschini e Curcio, per riceverne l’investitura a capo. Sogna di giocare un ruolo da protagonista sulla scena della politica e intanto progetta azioni a raffica: mirabolanti evasioni con uso di elicotteri, un assalto al Parlamento, attacchi con uso di razzi ed altri sequestri.
Ora pensa di aver trovato una soluzione a quella che potrebbe essere una malattia mortale per le Br, il diffondersi del pentitismo. Ormai sono sempre più numerosi quelli collaborano. Un duro colpo è stata la notizia che anche Alfredo Buonavita, uno dei fondatori delle Br, collabora con la giustizia.

Giovanni Senzani
La promessa di avere il recapito di Peci, ventilata da Cutolo, si è sgonfiata. Ma si può rimediare. Forse l’idea gliel’ha suggerita prorpio Cutolo, perchè fa parte dei loro sistemi mafiosi. Ma forse no, è tutta sua. Se non possiamo colpire “l’infame”, possiamo colpire un parente, cioè il fratello. In un primo momento aveva addirittura pensato di sterminargli tutta la famiglia. Così chi pensa di pentirsi dovrà temere non solo per la sua vita, ma anche per quella di mogli, figli, fratelli, madri.
Ma non solo questo ha in mente Senzani, si può fare di più. L’idea gli è venuta dopo che l’avvocato Di Giovanni è corso a riferirgli che Roberto Peci gli aveva detto che il fratello aveva fatto bene a collaborare. Poi anche la Roppolo, l’ex di Patrizio, aveva riferito di essere stata a casa di Roberto e che questi l’aveva minacciata.
Dopo di che a Senzani arrivano delle informazioni, da chi non si sa, ma certo da qualcuno che poteva averle o poteva costruirle. E cioè che era stato Roberto a spingere il fratello a pentirsi. Senzani non ha nulla per dire che le informazioni siano vere e non sappiamo neppure se ci creda davvero, ma non importa, si possono sfruttare. Roberto non va ucciso, ma sequestrato per costringerlo a confessare che Patrizio non è un pentito, ma una spia, che il tradimento è stato deciso ed architettato dai due fratelli. Infatti, sostiene Senzani, Patrizio è stato arrestato due volte, dopo il primo arresto rimasto segreto, si è messo d’accordo con Dalla Chiesa per fare l’infiltrato dei carabinieri poi, dopo due mesi, è arrivato l’arresto ufficiale. Insomma un vero e proprio infame, anzi due.
Le falsità
Roberto Peci ha 25 anni e fa l’antennista. Nei primi anni 70 aveva fatto parte, assieme al fratello, di un gruppo che aveva compiuto qualche attentato e poi si era avvicinato alle Br, ma quando Patrizio era partito per Milano, si era tirato fuori. Aveva subito anche un breve arresto, ma non aveva parlato.
Senzani aveva già proposto il sequestro al comitato esecutivo che però aveva bocciato l’idea. Ma dopo la diserzione strategica di maggio ormai è chiaro che Senzani è pronto alla scissione, quindi non è un problema. Anche al Fronte carceri l’idea non è piaciuta, hanno detto che era contraria all’etica comunista, che così si faceva come la mafia. Ma Senzani un po’ col suo carisma, un po’ giurando di avere le prove del ruolo di Roberto Peci, li ha convinti. Anche perchè nel frattempo i sospetti sono aumentati. Nel 79 Roberto era stato arrestato per una vecchia storia, un assalto alla Confapi di Ancona, di li a poco finirono in manette altri otto. I brigatisti non hanno dubbi: è stato lui a farli arrestare. Ma non è vero, è stato un altro a parlare. Qualcuno poi riferisce che è andato due volte nella caserma dei carabinieri, si scoprirà poi che ci era andato a montare un’antenna. Non importa la narrazione che Senzani diffonde a piene mani funziona: Roberto è un infame, forse più del fratello.
Il sequestro
Di Rocco è stato mandato a San Benedetto a studiare un piano. Ed ora è tutto pronto.
Il 10 giugno Gidoni, lo psichiatra di Ancona chiama Peci con la scusa di un’antenna da montare e gli dà appuntamento per la sera in via Boito, una stradina stretta. Peci arriva con la sua Panda, appena imboccata la strada, Stefano Petrelli, un insegnante del nucleo brigatista marchigiano, blocca l’accesso con la sua moto. Dall’altro lato Gidoni chiude l’uscita con un’auto.

Roberto Peci nelle mani delle Brigate Rosse
Come Peci arriva al numero civico indicato, Senzani gli si fa incontro pistola in pugno, alle sue spalle c’è Buzzati. Gli intima di sedersi dietro, Peci non oppone resistenza, non immagina quel che accadrà. Senzani e Buzzati salgono sulla Panda e partono. Poco lontano trasferiscono Peci nel bagagliaio della 127 di Di Rocco, che parte per Roma, assieme a Buzzati. La prigione è la stessa usata per D’Urso, cioè l’appartamento di Buzzati, dove è pronta la solita branda sotto una tenda. Lì ad attenderli ci sono Petrella e la Ligas. Saranno loro quattro i carcerieri, con l’aiuto di Susanna Berardi, altra brigatista. Senzani verrà spesso per interrogarlo.
Ora i prigionieri in mano alle varie Br sono quattro. A molti appare come il segno di una forza mai avuta prima dalle Brigate rosse, nonostante i tanti arresti. Ma è un’illusione ottica.
Due giorni dopo è proprio Maria Rosaria Roppolo, l’ex fidanzata di Patrizio, a leggere nell’aula del tribunale di Torino un comunicato in cui Roberto viene definito “spia e sbirro”. A questo punto anche il comitato esecutivo approva il sequestro. Il giorno dopo arriva il primo comunicato che annuncia l’inizio del processo all’”infame pidocchio”. Roberto si mostra collaborativo, ma nelle prime settimane si rifiuta di confermare le informazioni avute da Senzani, sono false. Dopo venti giorni di torture psicologiche e quando inizia a temere per la propria vita, comincia a cedere e finisce per raccontare tutte le cose che i suoi carcerieri vogliono e sperano di sentirsi dire.
L’orrore della confessione
La sua confessione viene filmata. Senzani, nell’epoca del boom delle tv, ha capito che un video è più efficace di cento comunicati ed è lui stesso regista e operatore .
Nel video è tenuto sotto tiro con una pistola da Di Rocco, vestito di bianco, con cappuccio e guanti neri. Risponde, a bassa voce e spaventato, alle domande di Petrella, fuori campo. <Verso il maggio del ‘79 – inizia il suo drammatico racconto – Patrizio cominciò a telefonarci, dicendo che non ce la faceva più…. A fine ottobre venni arrestato…. il giudice e il capitano dei carabinieri Tucci, dissero di sapere che mio fratello era in crisi. Mi chiesero di farlo arrestare, e io risposi che avrei visto cosa potevo fare. Il 2 dicembre uscii dal carcere e, quando Patrizio telefonò, gli spiegai tutto e ci incontrammo da uno zio per concordare la cosa”. Io e mia sorella parlammo anche con Dalla Chiesa per avere garanzie, che ci furono date…. Il 13 dicembre Patrizio fu arrestato alla stazione di Porta Nuova a Torino…. avevo fissato io un appuntamento lì con lui…..Dalla Chiesa si fece raccontare da Patrizio tutto ciò che sapeva e lo lasciò libero. Doveva continuare a fare il brigatista, se tentava di scappare chi lo pedinava, gli avrebbe sparato>.

Roberto Peci nel video della sua “confessione”
Nel video Roberto implora anche la famiglia di confermare la propria confessione.
La confessione di un uomo prigioniero e minacciato di morte non vale nulla, è ovvio. Detto questo potrebbe anche esserci qualcosa di vero. Non il doppio arresto che appare inverosimile. Come abbiamo già detto Peci era il capo colonna delle Br a Torino, sapeva già tutto, usarlo come infiltrato per due mesi, non avrebbe aggiunto nulla, anzi avrebbe consentito altri delitti, oltre al rischio di fuga. La storia del pedinatore che gli avrebbe sparato è un po’ ridicola.
In più c’è il racconto di Galmozzi, che parla del pianto di Peci in cella, non proprio l’atteggiamento di uno che da mesi già collabora. Che il fratello e la famiglia, preoccupati, gli abbiano consigliato di farsi arrestare è invece plausibile, un comportamento più che naturale. Ed anche che abbiano parlato con qualche carabiniere. Ma certo non è pensabile che Roberto, che sempre era dipeso dal fratello maggiore, sia stato l’artefice del suo pentimento.
Ma se anche qualcosa di vero ci fosse non cambierebbe nulla. Roberto non era un brigatista, ma solo il fratello e dunque, anche nell’aberrante logica brigatista, non avrebbe tradito nessuno e niente.
La condanna a morte
Ottenuta la confessione, arriva la condanna. A morte. Anche questa viene filmata. Senzani, gli chiede di mostrarsi spaventato e disperato, assicurandogli che non sarebbe stata eseguita. Roberto appare in questo video dell’orrore, accompagnato dalle note dell’Internazionale, in uno stato di totale sottomissione e prostrazione verso i suoi aguzzini, che perfidamente gli chiedono cosa pensi della sua condanna e lui risponde: <io mi sono affidato alla giustizia proletaria coscientemente…. ma voi dovete rendervi conto delle costrizioni cui fu sottoposto … io non sono un traditore>.
Il primo video viene inviato alla segreteria del Psi. Non è una scelta bizzarra, fa parte del piano di Senzani, che ha un altro obiettivo oltre a terrorizzare i potenziali pentiti. Vuole screditare le istituzioni e in particolare il giudice Caselli, che ha “gestito” Patrizio Peci ed è uomo di punta dell’antiterrorismo, per di più vicino al Pci. Spera che Craxi, sempre più ostile verso il Pci, ne approfitti per attaccare Caselli e la sua “illegale” gestione del pentito Peci. Speranza riposta anche nei Radicali.
E nel mirino ovviamente c’è Dalla Chiesa, si sa che non è amato ai vertici dell’Arma, già nel 75 lo hanno ostacolato e poi hanno sciolto il suo nucleo speciale. Rivelare che rimette in libertà i terroristi potrebbe fornire ai suoi nemici la scusa per farlo fuori. Ma chi sono i suoi nemici? Sono gli uomini della P2, come Musumeci, come il col. Benincasa, altro conoscente di Senzani, come Cossiga. Ecco allora che tutto ciò fornisce anche un indizio su chi può aver passato le informazioni avvelenate a Senzani. Qualcuno che ha i suoi stessi obiettivi. Alimentare l’attacco al Pci e costringere Caselli alle dimissioni e ottenere l’esautoramento di Dalla Chiesa.
La megalomania di Senzani è notevole ed il piano è destinato al fallimento. Ma è interessante la convergenza di interessi su cui si basa.
Il video della condanna viene mandato alla Rai e la sua messa in onda è una delle condizioni poste per salvare l’ostaggio. Ma Sergio Zavoli, presidente della Rai, si rifiuta di trasmetterlo.
La strategia di Senzani comunque un risultato lo produce: lo scontro fratricida tra i due Peci. Roberto scrive molte lettere a vari personaggi pubblici, e una al fratello, nelle quale lo attacca e lo insulta, perchè non conferma la sua versione dei fatti: <i tuoi patti scellerati con i carabinieri non si degnano di finire (…) quello che non capisco è quando smetterai di prestarti a questi giochi che non ti hanno nemmeno vietato di buttare merda su tuo fratello>. Se la prende anche con la moglie incinta di tre mesi, genitori e sorella, perchè anche loro sono restii a confermare.
Patrizio risponde con una lettera pubblica, accusandolo di aver mentito. I familiari invece, col passare delle settimane, finiranno per avallare le confessioni di Roberto.
g.g.
Capitolo successivo: 47) Trucidati Taliercio e Peci, Liberati Cirillo e Sandrucci
Ci sono un po’ di imprecisioni che ho potuto verificare su fatti che ho vissuto in prima persona, essendo uno che viene nominato, in questo e altri capitoli. Una visione un po’ distorta di quella che era la realtà delle br. Mi scusi ma gli avvenimenti e le interazioni a volte vengono raccontati con la superficialità di una fiction. Tuttavia deve aver fatto un gran lavoro d’archivio per aver prodotto una tale mole di racconti. Migliaia di pagine di ricostruzioni processuali e memoriali. Gran lavoro.
Mi scusi se resto anonimo ma dopo 40 anni vorrei solo essere dimenticato.
Sicuramente ci sono imprecisioni, vista la vastità, complessità e scarsa documentazione a proposito. Mi farebbe molto piacere, anche restando anonimo oppure privatamente, che mi dicesse quali sono, pronto anche a correggere. Il mio interesse era ricostruire le vicende di quegli anni, anche con l’apporto di chi le ha vissute in prima persona. Io le ho vissute diciamo di striscio, appartenevo al movimento non alla lotta armata. Quanto alla superficialità era del tutto lontana dalle mie intenzioni e dai miei sforzi di narratore, ma a volte ci si casca. Ho solo usato un taglio il pù possibile da cronista, quale sono stato. Anche se mi sono concesso qualche inevitabile giudizio politico, del tutto personale ovviamente. Ogni contributo, come dicevo, è molto gradito.