Capitolo precedente 46) I ripensamenti della WA. Peci l’orrenda vendetta
E intanto si uccide
I quattro sequestri in corso non bloccano la normale attività brigatista. Quella cioè di sparare e uccidere qualcuno. Perchè anche se Senzani attacca il militarismo degli altri, ammazza come loro.
Nello stesso giorno, il 19 giugno, a Roma vengono compiute due azioni all’insaputa gli uni degli altri, perchè ormai il Fronte carceri di Senzani e l’Esecutivo non si parlano.
La prima è opera della colonna romana. L’obiettivo è il vicequestore Sebastiano Vinci, capo del commissariato di Primavalle. I “compagni” del quartiere si sono lamentati di lui, perchè è troppo efficiente. Tra coloro che da un po’ lo studiano c’è Massimiliano Corsi, 27enne fuoricorso ad Architettura, stava già nel Cococe nel 74, è diventato un brigatista da meno di un anno, è un irregolare, vive ancora coi genitori, ma non può vedere la fidanzata su ordine dei capi Br. Gli hanno detto che sarà solo un ferimento. Ma all’ultimo Pancelli gli rivela che invece lo uccideranno. Lui non se la sente, anche se questo gli farà perdere la fiducia dei compagni, a cui tiene tantissimo.
Pancelli gli spiega che ormai non può più tirarsi indietro, sa troppe cose. Comunque non dovrà sparare.

I funerali di Sebastiano Vinci
Il commando è composto da Novelli, Antonini, Pancelli, l’ex impiegato delle Poste, Capuano, il figlio del maresciallo di Ps, e Marina Petrella, l’ex segretaria scolastica ultimamente un po’ combattuta, perché il marito, Novelli il fabbro, è nell’Esecutivo, mentre il fratello Stefano sta con Senzani. Più naturalmente Corsi, che deve sorvegliare l’auto della fuga.
Vinci sa di essere nel mirino, in un covo Br hanno trovato i numeri di targa della sua auto e da qualche tempo si sente seguito. Ma non ha preso particolari precauzioni o forse alla lunga è difficile farlo.
L’auto con il vicequestore e un agente al volante si ferma all’incrocio, perchè il semaforo è rosso. E’ lì che lo aspettano. Pancelli da un lato e Capuano dall’altro si avvicinano facendo finta di vendere Paese Sera, ma da sotto i giornali spuntano le pistole. L’autista capisce e parte in avanti, ma una tempesta di proiettili crivella l’auto. Vinci, 44 anni, morirà poco dopo, l’autista seppur colpito in tutto il corpo, si salverà. Poco distante Antonini, grande e grosso, capelli lunghi e baffoni, imbracciando il mitra, intima alla gente di non avvicinarsi.
Agguato all’avvocato di Peci. Ferita la Ligas
Poche ore dopo è invece il Fronte carceri a colpire. E’ un altro pezzo della campagna per fare terra bruciata attorno a Peci e ai pentiti. Un commando va ad uccidere Antonio De Vita, l’avvocato di Patrizio Peci. Lo aspettano nell’androne del palazzo, a Roma, dove ha il suo studio, Stefano Petrella e la Ligas, fuori è di copertura Manna, venuto da Napoli. Di Rocco fa da autista.

Natalia Ligas
Appena l’avvocato entra, Petrella gli spara, lo colpisce di striscio al collo e a una spalla, l’avvocato cade a terra, poi la pistola si inceppa. De Vita, dopo che hanno rapito Roberto Peci, ha comprato una pistola. La estrae dal borsello e spara, colpendo all’anca la Ligas. Poi rotola via sparando ancora, anche Petrella spara diversi colpi, ma non ha una gran mira e non lo colpisce. La Ligas sanguina e si accascia, allora Petrella la sorregge e la porta fuori, ordinando a Manna-Mandingo di entrare e finire la missione a colpi di mitra. Ma Manna non esegue, forse affrontare un uomo armato non gli piace, e se ne va con gli altri.
In combutta con il senatore e boss
La Ligas viene portata a casa di Susanna Berardi. Senzani fa venire una dottoressa di Napoli, fiancheggiatrice delle Br. Il proiettile è rimasto dentro, la Ligas ha la febbre, la donna le dà alcuni farmaci. Occorre una radiografia. Dopo qualche giorno viene portata con l’autobus da un medico compiacente a fare la radiografia. Il proiettile è sceso nella gamba. Allora un’infermiera tenta di estrarlo sul tavolo di cucina, ma senza risultato.
A questo punto Senzani si decide e con Di Rocco dice: <Dobbiamo portarla là>. Prepara l’auto che è un viaggio lungo.
Fino a Lametia Terme in effetti sono tanti chilometri. L’uomo con cui hanno appuntamento è il senatore del Psi Domenico Pittella, direttore sanitario di una clinica a Lauria, nonchè boss della ‘ndrangheta. Nessuno sapeva che l’idea di Senzani di allacciare rapporti con la criminalità aveva già avuto sviluppi in Calabria. Pittella fa ricoverare e operare la Ligas, che se la caverà in un paio di settimane.
Ma un boss non si muove per niente, in cambio chiede a Senzani di rapire l’assessore alla sanità della Basilicata, anche lui del Psi, che sta mettendo i bastoni fra le ruote alla sua clinica.
Pittella e Senzani hanno buoni rapporti. Il capo Br promette di occuparsene. Intanto il senatore gli fa i complimenti per il sequestro Peci: <Finalmente avete imparato come si trattano i traditori. Noi lo facciamo da sempre>. I rapporti continueranno, Senzani chiederà aiuto per organizzare due evasioni, dai carceri di Palmi e Lametia. E Pittella offrirà l’appoggio della ‘ndrangheta.
Che facciamo con Taliercio? Uccidetelo
Sono passati 40 giorni dal sequestro di Taliercio, ma nulla è accaduto. Dagli interrogatori non è uscito niente, tanto che i comunicati delle Brigate rosse sono sostanzialmente vuoti. Non è stata avanzata alcuna richiesta per la sua liberazione e nessuno si è mosso seriamente per cercare di salvare il prigioniero, a parte i numerosi appelli, sopra a tutti quelli disperati della moglie e dei cinque figli. Dal Petrolchimico come dal resto della società non è venuto neppure il più piccolo segnale di approvazione o gradimento del sequestro, se si esclude quel poco che resta dei colletivi autonomi.
Un sequestro inutile e senza obiettivi. E dunque l’unica conclusione possibile è quella prevista fin dall’inizio: la morte dell’ostaggio. La decisione provoca però quasi una rivolta di una parte della colonna veneta. Gli stessi che avevano spinto per aprire una trattativa ora sono contrari all’uccisione, vista come prova di una totale cecità politica, frutto di una linea che non sa concepire altro che l’omicidio, incapace di relazionarsi con il cosiddetto movimento, visto che anche i Collettivi autonomi e l’assemblea autonoma del Petrolchimico hanno detto no all’esecuzione.
Anche Savasta ha qualche dubbio, come forse è normale in chi ha convissuto per oltre 40 giorni con la persona che deve sopprimere. Ma l’ultima parola spetta all’Esecutivo, che non ha dubbi e il 3 luglio ordina: eseguite la condanna a morte. Se è vero che Savasta non era d’accordo (come dirà) la decisione è dunque di Novelli e della Balzerani.

Il corpo di Giuseppe Taliercio
Gli altri carcerieri si rifiutano di ucciderlo e Savasta, in quanto capo, si prende il compito. La Massa, che si era occupata di Taliercio per tutto il sequestro, abbandona le Br e si dissocia dalla lotta armata. Per questo, una volta arrestata, alcune brigatiste detenute tenteranno di strangolarla.
Il 5 luglio, Savasta e Roberti, il padrone di casa, fanno entrare Taliercio in una cassa. Il poveretto pensa che verrà rilasciato o forse trasferito. Ma Savasta gli scarica addosso a bruciapelo tutto il caricatore della sua Beretta silenziata, 14 colpi. Ma quel corpo martoriato da ancora segni di vita, allora prende un’altra pistola e spara altri due colpi, sotto lo sguardo impietrito di Roberti.
Poi la cassa viene chiusa e tenuta lì fino alle due di notte, quando viene caricata su una 128 e, con la Biliato sempre a fare da staffetta, portata davanti ad uno dei cancelli del Petrolchimico e lì lasciata.
Un’altra scissione
I dissenzienti della colonna, capeggiati da Francescutti, nei mesi successivi lasceranno le Br e daranno vita ad una nuova scheggia combattente: la colonna 2 agosto. In un comunicato Savasta li bollerà come “infami” e “banditi”. Gli insulti sono motivati anche dal fatto che le armi ricevute dall’Olp, le avevano nascote al Montello alcuni dei fuoriusciti. <E, quando chiesi qual era il luogo si rifiutarono di dirmelo, per questo li chiamai banditi>.
I senzaniani invece accusano l’esecutivo di <bieche pratiche avventuristiche di chi crede che fare la rivoluzione significhi esaurire il programma nell’annientamento di un servo della borghesia>. Per rimpiazzare gli scissionisti arrivano da Roma Emilia Libera e da Firenze Giovanni Ciucci.
Faggiani, uno dei fuoriusciti, verrà ucciso nel 93 a Barcellona, durante una rapina.
Cirillo ancora prigioniero
Alla fine di giugno le richieste delle Br riguardo i terremotati vengono in buona parte accolte. Alcune migliaia di alloggi sfitti vengono requisiti, inizia lo smantellamento della roulottopoli e ai disoccupati delle liste viene pagato un sussidio. Sulla costruzione delle nuove case, Valenzi e l’assessore Siola, nonostante i buchi nelle gambe, puntano i piedi, ma finiscono per accettare un compromesso: 7mila alloggi in periferia e 13mila in città.
Anche l’ultima richiesta, quella di pubblicare altre parti degli interrogatori di Cirillo, viene soddisfatta da alcuni giornali. Ma le parti più rilevanti e scottanti spariscono e le Br non le hanno mai rese pubbliche.
Le Br hanno sostanzialmente vinto, alcuni capi della colonna, come Chiocchi e Bolognesi, sarebbero anche disposti a liberare Cirillo [1]. Ma Senzani si oppone, perchè lui personalmente sta portando a termine la trattativa con Cutolo e il Sismi. E al boss della camorra, che le Br liberino l’ostaggio non conviene, farebbe venir meno il suo ruolo e tutto quello che ha da guadagnare.
Accoltellato Moretti
Il 2 luglio arriva un pesante, ma anche oscuro, avvertimento ai brigatisti. Nel carcere di Cuneo un criminale comune, vicino alla camorra, Farre Figueras, una specie di bestione, tenta di uccidere Moretti, piantandogli un coltello in pancia durante l’ora d’aria. Moretti riesce a scansarsi e rimane ferito in modo non grave. Anche Fenzi, che è con lui, resta ferito.
Non è chiaro però se dietro Figueras ci sia Cutolo o qualcun altro. Tra l’altro Figueras aveva già ucciso in carcere un capo di Azione rivoluzionaria due anni prima. Un omicidio rimasto misterioso. Chiunque abbia armato la mano del pluriomicida, il ferimento viene ovviamente collegato al sequestro Cirillo.
Una montagna di soldi
Il 9 luglio un nuovo comunicato delle Br annuncia <la condanna a morte del boia Cirillo>. Ma è una finta, serve solo a far saltare gli ultimi indugi. Negli stessi giorni Senzani, arrivato nella prigione del popolo, annuncia: <Qui ci facciamo pure i soldi>. La Dc infatti ha accettato, su richiesta di Cutolo che è ormai il vero regista del sequestro, di pagare un riscatto: tre miliardi o forse qualcosa di più. Che Cutolo e Senzani si spartiranno.

Raffele Cutolo
Chiocchi e Aprea, uno dei carcerieri, non ci stanno. Lo abbiamo rapito non per farci soldi, sbottano. Hanno una discussione accesa con Senzani, che cerca di spiegare che: <E’ giusto espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana>. Nei giorni successivi se ne discute nella colonna e la posizione di Senzani ottiene la maggioranza.
I soldi la Dc li chiede agli imprenditori napoletani, che chiaramente si aspettano di essere risarciti con i soldi per la ricostruzione. Una parte consistente arriva dal Banco Ambrosiano, ciò significa che la P2 si è direttamente impegnata per salvare Cirillo. L’accordo finale è che alle Br va un miliardo e mezzo, il resto a Cutolo e qualcosa finisce pure al Sismi. Alla camorra vengono anche promesse perizie psichiatriche compiacenti e una tangente del 5% su ogni appalto, mentre ai partiti solo il 3%.
Ci vuole un po’ per raccogliere tutti quei soldi. Ma a metà mese sono pronti. Un giornalista, amico di Cirillo, è incaricato della consegna. Viene contattato dal sig Petrini, alias Senzani, che gli dà alcune istruzioni. La consegna del denaro è da manuale.
Il 21 luglio l’uomo esce di casa con una pesante borsa e un cappellino bianco, come da istruzioni. Dopo pochi metri si ferma e fruga in un cestino dei rifiuti. C’è una busta e un biglietto ferroviario per Bologna. Due uomini (Planzio e Olivieri) lo seguono in auto. L’uomo legge altre istruzioni e si dirige verso la fermata della metro. I due lo seguono. Si siede, ma non prende il primo treno, nemmeno il secondo. Finalmente sale sulla metro, con lui sale anche Manna. Scende alla stazione ferroviaria e prende il treno per Bologna.
A un certo punto un uomo si siede accanto a lui e gli porge un giornale: <Grazie, a pag. tre c’è un articolo interessante> e se ne va. A pag. tre ci sono altre istruzioni, non deve scendere a Bologna, ma a Roma. Arrivato a Termini, l’uomo prende la metro e scende alla terza stazione. Un tipo lo saluta e si offre di accompagnarlo fino alla fermata di un tram. Ad aspettarlo c’è Senzani che lo saluta: sono il sig. Petrini, poi gli mostra una catenina che ha al collo, è di Cirillo e l’uomo la riconosce. Le porto io la borsa, che è pesante, l’uomo la cede volentieri. Salgono insieme sul tram poi scendono e prendono un bus. Un auto con tre a bordo segue il bus. Dopo poco Senzani gli dà le ultime istruzioni: <Alla prossima io scendo, lei scenda a quella dopo e torni a Napoli>. Senzani scende e sparisce con un miliardo e 450 milioni.
L’uomo nel viaggio da Napoli a Roma è stato seguito da dieci brigatisti. Alla consegna erano in sei, tre in auto e tre sul bus, quattro con il mitra.
Sandrucci torna libero
Mentre tutti aspettano la fine del sequestro Cirillo, cessa invece quello dell’ing. Sandrucci.
Il 14 luglio, al termine di estenuanti trattative, è stato raggiunto un accordo tra l’Alfa Romeo e la Flm sul ritiro della cassa integrazione. Sindacato e azienda negano che il sequestro in corso abbia influito in alcun modo sulla trattativa. Vero o no, molti in fabbrica invece pensano che sia stato merito della WA.
Il 23 luglio Sandrucci viene lasciato, vestito con una tuta da operaio dell’Alfa, davanti alla Magneti Marelli di Crescenzago. Il sequestro e la sua conclusione sono un indubbio successo sul piano propagandistico. La Walter Alasia ha dimostrato che la lotta armata può pagare.
Persino l’Unità riconosce che, almeno all’Alfa Romeo, le Br hanno un certo consenso. E gli effetti si vedono nei mesi successivi, un discreto numero di nuovi militanti entrano nelle Br milanesi.
Aderisce un gruppo di Como (quasi una decina) capeggiato da Cecco Bellosi, uno con una lunga carriera alle spalle. Era il capo del servizio d’ordine di PotOp a Milano nel 69, poi fece parte di Lavoro illegale, il nucleo armato sempre di PotOp, e infine era stato braccio destro di Scalzone nei Cocori.
Altri vengono da formazioni armate smantellate dalla polizia, come Antonio Marocco e Daniele Bonato dei Reparti comunisti d’attacco. C’è anche una new entry assoluta, un noto rapinatore milanese, un po’ anzianotto, il quarantenne Marcello Ghiringhelli, convertito in carcere al brigatismo da Bertolazzi e Piancone, ed appena scarcerato. Un personaggio da romanzo: operaio a Torino a 15 anni, legionario in Algeria a 17 anni, disertore a 18 anni, rapinatore e gangster dai 18 ai 40 anni.
Diversa l’opinione di Moretti sul successo della Alasia: <Si possono motivare i costi, umani e politici, che la lotta armata comporta, con la richiesta di un aspiratore più efficiente, o anche qualche cassintegrato in meno? >.
Anche Cirillo torna libero
Il 24 luglio Cirillo, dopo 88 giorni di prigionia, viene rilasciato in una strada di Poggioreale. Viene visto da una pattuglia della stradale che lo carica e avvisa la questura che Cirillo è libero e lo stanno portando lì. Ma le porcherie non sono finite. Dopo pochi minuti la pattuglia viene bloccata da un’altra auto della polizia. Scende un commissario, tra l’altro figlio di un dirigente della Dc della corrente di Gava, molto probabilmente attivato da Gava in persona, che si fa consegnare l’assessore e invece di portarlo in questura lo porta a casa. I magistrati si precipitano, ma non vengono fatti entrare, Cirillo è sotto choc e non può parlare. Contemporaneamente arrivano Gava e Piccoli che invece entrano e con loro Cirillo può parlare a lungo, per alcune ore lo istruiscono su ciò che deve dire e non dire. Perchè su tutto quanto è successo deve calare il segreto.
Si chiude così una delle vicende più opache e losche dell’Italia del dopoguerra. Con la Dc, e indirettamente il governo presieduto dal dc Forlani, che è scesa a patti con la criminalità e con le Br, anzi ha fatto della camorra una sorta di apparato esterno dello Stato. Piccoli manderà anche un biglietto di ringraziamento a Cutolo. Il Sismi ha incontrato, corteggiato, protetto capi della camorra e delle Br. Lo Stato ha toccato il fondo. Un blocco di potere e di interessi , con alla testa la Dc e la P2, ha accettato tutto per salvare Cirillo. Quale valore e potere nascosto aveva questo assessorucolo?

Cirillo con i figli, dopo il rilascio
Anche le Br, che indubbiamente hanno vinto, non ne escono benissimo. Sul piano politico e sociale non hanno conquistato consensi. E con Cutolo hanno allacciato un rapporto che fa contento Senzani, viste le sue teorie, ma che produrrà conseguenze.
Chi davvero può cantare vittoria è Cutolo, che si permette anche velenosi attacchi alla Dc: <Come ho salvato la vita a Cirillo, avrei salvato la vita anche a Moro. L’allora ministro Cossiga si rifiutò di incontrarmi. Ma poi i politici dissero che a loro Moro non interessava. Invece per Cirillo son venuti tutti>.
Cutolo però non ha fatto i conti con Pertini. Il capo dello Stato, scandalizzato per il trattamento in carcere del boss, chiede che venga trasferito all’Asinara. La Dc resiste, ma lui non molla, chiama tutti i giorni. E così Cutolo finisce nella cayenna d’Italia e sarà l’inizio della sua fine.
Alcuni anni dopo un giovane magistrato, Carlo Alemi, cercherà di far luce sul verminaio del caso Cirillo. Ma a Napoli il potere di Gava e della Dc è totale, si ritroverà isolato, costretto a fare i conti con silenzi, reticenze e attacchi anche dall’interno del palazzo di Giustizia. <Lavoravo con colleghi che facevano di tutto per ostacolare le indagini. Il loro capo mi considerava un pazzo comunista che voleva fregare la Dc. Mi resi conto di avere il telefono di casa sotto controllo>. Quando nell’88 depositerà la sentenza, il presidente del Consiglio De Mita lo accuserà di essersi posto <al di fuori del circuito istituzionale> e così finisce sotto processo davanti al Csm, poi assolto..
La fine di Roberto Peci
Solo Roberto Peci è ancora prigioniero. L’obiettivo politico a cui ambiva Senzani è fallito, dopo 50 giorni di sequestro anche l’interesse dei media sta calando. Il sequestro va concluso e il destino di Roberto è segnato: deve morire. Perchè se liberato, neppure l’obiettivo di terrorizzare i futuri pentiti sarebbe centrato.
Senzani però organizza la farsa delle consultazioni. Questa volta a pronunciarsi è chiamato l’intero proletariato. A differenza che per Moro questa volta sono diverse le voci favorevoli a una “grazia”, mentre si esprimono per l’uccisione sia l’esecutivo sia le brigate di kampo, cioè i brigatisti detenuti. Ma emergono anche le divisioni sempre più evidenti. La colonna romana fa addirittura trovare un volantino nel quale invoca <la tradizionale clemenza proletaria>.
Ma la decisione è già presa. Con l’approvazione e la benedizione della ‘ndrangheta, Roberto Peci deve morire.
La mattina all’alba del 3 agosto gli vengono fatti indossare gli abiti che aveva il giorno della cattura. Gli dicono che lo trasferiscono in un altro appartamento. Roberto forse ci crede. Forse si è voluto convincere che, avendo ammesso le sue “colpe” ed essendo un compagno, non può esserci tanta ferocia in quegli uomini con i quali ha convissuto giorno e notte per 54 giorni. Avvolto in una coperta, bendato e con le manette ai polsi viene caricato in macchina. Lui non oppone resistenza anzi collabora, come ha fatto per tutta la prigionia.

L’esecuzione di Roberto Peci
Lo portano in un casolare abbandonato vicino all’ippodromo. Un posto desolato, utilizzato la notte da due prostitute per i loro incontri. Lo mettono in piedi vicino a un muro. Senzani ha deciso che bisogna immortalare anche l’esecuzione, il pezzo forte del suo film sul fratello del pentito. Come faranno molti anni dopo i tagliagole islamici. Lui fotografa. Petrella e Di Rocco….. scaricano le loro pistole sulla faccia e sul corpo di questo ragazzo, da pochi centimetri. Roberto solleva le braccia per proteggersi ed è trafitto da 15 colpi.
Poi sul corpo lasciano un cartone con la scritta “Morte ai traditori”. Ma chi e cosa ha tradito?
Di Rocco alcuni giorni dopo va in vacanza e incontra Buzzati e la Berardi. E’ ancora sotto choc. Confessa di aver pianto dopo l’esecuzione: <Mai più una cosa del genere. Sono tre giorni che sto male e non mangio>. Povero Di Rocco, il figlio di un muratore che voleva studiare, non sa che il peggio deve ancora capitargli.
Per molti di coloro che dentro l’immondezzaio di quel casolare non misero piede, l’operazione Peci fu invece ritenuta un’azione brillante, tanto che una parte della colonna romana passerà con Senzani.
Ammazziamo anche Tutino
Anche al brigatista-criminologo l’eliminazione di Roberto Peci è piaciuta molto, tanto che vuole replicare. Vuole ammazzarne un altro, ma questa volta non è neanche un parente. Ora sostiene che a convincere Buonavita a pentirsi è stato Saverio Tutino, noto giornalista e scrittore comunista, e dunque va ucciso. Buzzati incaricato di telefonare a casa Tutino per scoprirne gli orari, ma contrario all’idea, dice di non averlo mai trovato, in realtà non ha mai telefonato. Il progetto poi sfuma, perchè la carriera brigatista di Senzani è molto intensa, ma ormai breve.
Spaccatura definitva
Chiusa la stagione dei sequestri, con due morti e zero risultati, l’esecutivo fa l’ultimo tentativo per risolvere i contrasti con Senzani e i suoi. A fine agosto si tiene un incontro ristretto, ma finisce con Novelli che punta una pistola contro il professore. La scissione è ormai nei fatti, da tempo, anche se verrà ufficializzata ad ottobre.
g.g.
[1] Così hanno sempre sostenuto i due brigatisti. Secondo Moretti però, stando a quanto riferito da Fenzi, non era esclusa la sua uccisione.: <Moretti ripetè più di una volta che …. bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato era dovuto all’intervento di Cutolo>.
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