1982

Rapiamo Romiti

Tra il Partito Guerriglia e le Br-Pcc, che i primi chiamano ironicamente “i superiori”, è ormai lotta per la supremazia. Il successo messo a segno con Dozier è un duro colpo per Senzani e compagni, che negli ultimi mesi hanno visto i loro progetti fallire.

A Natale dell’81 Senzani è a Parigi e incontra un palestinese, che si complimenta per la cattura di Dozier. Un ulteriore smacco, che però il professore nasconde, ringraziando e non rivelando che lui non c’entra niente.

Bisogna fare qualcosa. La sera del 31 dicembre, mentre anche i suoi fedelissimi si stanno preparando per cenoni e feste, Senzani arriva a Roma da Torino, convoca Buzzatti e Di Rocco e dice che si deve assolutamente rapire il presidente della Fiat Romiti e subito. Il progetto era stato abbandonato qualche settimana prima. I due obiettano che non si sa nemmeno dove sta. Ma Senzani non sente ragioni. La sera del primo gennaio ’82 loro tre, più Pasquale Giuliano e Stefano Petrella, sono appostati sotto la casa del capo della Fiat, ma Romiti non si vede. Tornano il due e anche il tre. Ma la fretta li ha fatti imprudenti. Qualcuno ha notato quelle facce, sempre le stesse, che si aggirano sotto la casa.

Il tre gennaio arriva la polizia e cattura Di Rocco e Petrella, sotto gli occhi degli altri, che riescono ad allontanarsi. Gli arresti non finiscono sui giornali. Che comunque hanno altro da pubblicare. Lo stesso giorno è andata in scena una delle più clamorose e audaci azioni armate, che ha oscurato il sequestro Dozier.

Assalto al carcere di Rovigo

Segio l’aveva detto, prima di lasciare PL: c’è una solo cosa che resta da fare, liberare i compagni: <Perchè quelle vite era tutto ciò che rimaneva del sogno della rivoluzione>. Liberarli dal carcere, ma anche dal rischio di essere scannati dai brigatisti. Nelle carceri ormai c’è una resa dei conti cannibalesca nei confronti di quelli che si dissociano, come tanti piellini.

Ma soprattutto c’è da liberare Susanna. <
Ormai la sua liberazione era l’unica cosa che dava significato alla mia esistenza>.

Sergio Segio e Susanna Ronconi

Tutte le domeniche Segio è andato a Rovigo, dove è detenuta la sua compagna, la Ronconi, a studiare il carcere, la zona attorno, le vie di fuga. Ha preparato il piano in ogni dettaglio. Assaltare un carcere forse è impossibile, di sicuro è molto rischioso. <Ma le cose pericolose mi hanno sempre attirato>. Un’azione molto temeraria, ma anche romantica: liberare il proprio amore.

Il piano per l’evasione è ormai pronto. Segio riesce a farlo arrivare a Susanna, scritto su carta velina e incollato dentro la copertina di un libro. Ma i quattro del suo gruppo sono pochi per un’azione militare di quel tipo. Allora Segio chiede alla Walter Alasia di dargli una mano. Organizza un paio di incontri in ristoranti di lusso, così per il gusto di scandalizzarli, loro che fanno una vita così grigia e rigorosa. E’ anche questa una delle cose che ha distinto Prima Linea dalle Br. Ma i brigatisti rifiutano, gli prestano però un paio di mitragliatori e un fucile a pompa. Un Kalashnikov lo recuperano da un ex dei Cocori.

Allora Segio si rivolge ai Colp, non possono dire di no, fino a un anno prima stavano tutti in PL e la Ronconi è uno dei capi dei Colp. Infatti accettano.

La mattina del 3 gennaio 1982, domenica, arrivano a Rovigo in otto, c’è anche Giulia Borrelli, tra le fondatrici di PL, una esperta. Distribuiscono un certo numero di auto in vari punti poi raggiungono il carcere. L’assalto è previsto alla fine dell’ora d’aria. Una canzone di Gianna Nannini a tutto volume viene dall’interno. E’ il segnale convenuto, significa che tutto è ok.

Carcere di Rovigo, gli effetti dell’esplosione. Nel muro a destra il foro per l’evasione

Gli otto sono armati fino ai denti, un mitra e due o tre pistole più un paio di bombe a testa e giubbotti antiproiettile.

In cinque, la Borelli, Di Giacomo, Avilio, Frassinetti e Schettini, bloccano le strade attorno, gridano alla gente di allontanarsi e lanciano anche due molotov. Segio, coi capelli biondi tinti di nero con un tappo bruciacchiato, spara contro la garitta, le guardie rispondo al fuoco, ma lo scopo è che se ne stiano dentro e così è. Carfora arriva con una A112 e la parcheggia rasente il muro di cinta. Sul sedile posteriore ci sono 20 chili di tritolo, dentro ad una scatola di metallo, aperta da un lato, quello appoggiato contro il finestrino destro abbassato, di fatto contro il muro. Serve a direzionare l’esplosione. Il giovane accende la miccia e scende. Una miccia corta, solo 12 secondi. Bisogna fare in fretta, perchè il momento in cui le detenute rientrano dall’ora d’aria e la guardia apre i cancelli dura pochi minuti.

L’auto esplode, un botto violentissimo, vanno in frantumi i vetri di tutto il vicinato. Una nube di polvere e di fumo nero, cancella tutto. Ma Segio sa a memoria quanti passi lo separano dal muro. Corre sui vetri e sui calcinacci, mentre Forastieri gli copre le spalle. Arriva al muro, c’è un foro di un metro e mezzo, il corso dell’Eta è stato utile.

Entra nel cortile e quattro detenute, tra cui Susanna, gli corrono incontro. Da una finestra sparano, lui risponde al fuoco, ma un proiettile perfora il tallone di una fuggitiva. Debbono trascinarla. Le mettono un laccio emostatico, ne hanno sempre uno con loro. Escono e raggiungono le auto, poi fanno il cambio e via per stradine di campagna, con un abete legato sul tetto, per confondere eventuali inseguitori. Non dovevano esserci morti questa volta, ma un pensionato uscito col cane, di cui nessuno si era accorto, è stato spazzato via dall’esplosione.

L’imprendibile Segio ha liberato la sua donna, per lo stato è un altro duro colpo.

Oltre alla Ronconi sono fuggite Marina Premoli, l’aristocratica quarantenne che si era innamorata di Mutti. Federica Meroni, un’infermiera romana, anche lei passata dai Pac a PL. Loredana Biancamano, biologa.

I quattro dell’Ave Maria

Son passati 17 giorni e di Dozier nessuna traccia. I terroristi liberano i loro prigionieri e lo Stato è impotente. Tra le decisioni prese dal governo ce n’è una non nota, anzi rimarrà segreta per diversi anni. Da qualche tempo si è andato diffondendo l’uso delle botte per gli arrestati, che è sempre esistito, ma ora è più frequente. Adesso dall’alto è arrivato il via libera ad usare una mano ancora più pesante. E’ stata anche formata una squadretta di poliziotti, nota come “I 4 dell’Avemaria”. In realtà era nata subito dopo Moro, e si era “occupata” del brigatista Triaca, ma poi era stata accantonata. A comandarla è un funzionario dell’Ucigos, Nicola Ciocia, un fascista dichiarato. Il suo soprannome è “professor De Tormentis”, glielo ha dato il vicequestore Improta. Sono degli specialisti in torture.

La casa delle torture

A Roma sono appena stati presi due brigatisti, Petrella e Di Rocco. Sono i due che hanno ucciso Peci. Il loro arresto è rimasto segreto. Il magistrato li vedrà solo l’11 gennaio, dopo 7 giorni. Per buona parte dei quali sono messi nelle mani di De Tormentis.

Nicola Ciocia, alle spalle di Cossiga, davanti all’auto con il cadavere di Moro

Prima uno poi l’altro, la notte del 4, vengono prelevati da tre persone incappucciate e incappucciati a loro volta. Ai polsi manette così strette da farli sanguinare, vengono portati in un appartamento. Qui vengono denudati, picchiati con pugni e calci e con un bastone sotto la pianta dei piedi.

Ma questo è solo l’antipasto. Vengono legati in schiena su un tavolo, ma con la testa a penzoloni. Questa è la specialità dei loro aguzzini. La bocca viene riempita di sale e poi con un tubo di acqua, ci si sente soffocare, annegare e poi si vomita. Qualche ora di tregua e si ricomincia.

Di Rocco, che appare subito come il più debole, viene anche bruciato con sigarette e minacciato di morte, <tanto nessuno sa che sei qui>. Gli iniettano qualcosa in un braccio, si addormenta e si risveglia zuppo di urina. Dopo 4 giorni di questo trattamento, Di Rocco cede e parla. Non racconta nulla di Dozier, come la polizia sperava, perchè loro con quel sequestro non c’entrano. Ma indica i nomi di diversi brigatisti e gli indirizzi di tre basi.

Di Rocco è quello che rimase choccato dall’esecuzione di Peci, alla quale aveva dovuto partecipare. Ora è sconvolto e terrorizzato. Ma la sua tragedia non è ancora finita.

Per Senzani è finita

Alle tre e mezza del mattino del 9 gennaio, sei uomini vestiti con strane tute e passamontagna salgono silenziosi le scale di un grande condominio di via Pesci al Tiburtino. Si fermano al terzo piano, davanti all’appartamento di Susanna, un’anonima fisioterapista. Tutti dormono, ma se qualcuno si affacciasse alla finestra si accorgerebbe che ci sono decine di auto e almeno un centinaio di uomini attorno al palazzo.

I sei entrano, forse hanno le chiavi o forse un passepartout. In una stanza dorme la ragazza, in un’altra un uomo con la barba. Quando si sveglia di soprassalto è già incappucciato e bloccato da due energumeni che gli sono sopra. E’ Giovanni Senzani. La sua breve, ma frenetica e sanguinaria, carriera di capo brigatista è finita. Nell’appartamento c’è un vero arsenale, armi di ogni tipo, compreso un bazooka e missili Matra.

La cattura di Senzani

Nel portafoglio di Senzani viene trovato un appunto che conferma l’esistenza di un accordo con Al Fatah: <«Il rapporto esiste, ma non è ufficiale nel senso che non verrà mai ammesso, punto 1 dell’accordo». E ancora: «Il rapporto è ufficiale con AF [al-Fatah], ed è possibile perché fra gli innumerevoli gruppi che si riconoscono in AF [al-Fatah], uno ci appoggia (Quale? Paolo)».

La stessa notte vengono arrestati altri dieci brigatisti, tra cui: Roberto Buzzatti e Susanna Berardi. Quasi tutti collaborano. La colonna romana delle Br-Pg e il Fronte carceri sono azzerati. Resta in piedi solo la colonna napoletana.

Ma il vicequestore spara

Per le Brigate rosse è un colpo davvero duro, ma non avvicina di un passo alla prigione di Dozier. Le altre Br, quelle Pcc, non solo continuano ad avere in mano il generale americano, ma stanno per mettere a segno un altro sequestro.

Da molti mesi nel mirino c’è un poliziotto, Nicola Simone, capo del commissariato presso la Rai. Le Br lo hanno individuato come responsabile della disinformazione di regime sulla lotta armata. Ora è giunto il momento, anche per alleggerire la pressione in Veneto. Nel frattempo è diventato un obiettivo ancor più interessante, visto che è stato promosso a vice-capo della Digos romana, ma le Br non lo sanno.

Il piano è quello ormai sperimentato, rapirlo in casa. Poi portarlo in una villetta a Marino, affittata da Enzo Calvitti, un 27enne appena laureato in sociologia, che Remo Pancelli ha provveduto ad attrezzare con la solita tenda e il solito polistirolo.

Il pomeriggio del 6 gennaio, giorno della Befana, Massimiliano Corsi, studente di architettura, che vive ancora con mamma e papà, e Calvitti, aspettano a un centinaio di metri dalla casa di Simone, con una 128 familiare. Nel bagagliaio c’è la solita cassa, rivestita di cartone e plastica antiurto per farla sembrare un frigo.

Sotto casa invece ci sono la Cappelli e la Petricola, a far da copertura, con un mitra a testa. Silvia e Nanà, sempre insieme dai tempi delle Ucc. Poco distante una 128 blu, con al volante Maurizio Di Marzio, uno nuovo.

Giovanni Alimonti

La Cappelli, in tuta da ginnastica, dà il segnale che Simone è rientrato a casa. A quel punto Luigi Novelli, vestito da postino e Giovanni Alimonti, 27 anni e centralinista alla Camera dei deputati, salgono le scale. Novelli suona, Alimonti si tiene nascosto. Simone guarda dallo spioncino, il brigatista mostra il telegramma, è un telegramma vero. Il vice-questore però non si fida. Troppi ci sono già cascati. Si mette la sua 38 special nella tasca dei pantaloni e apre. Novelli gli dà il telegramma. C’è da firmare. Sembra che tutto vada liscio. Ma all’improvviso salta fuori Alimonti. Simone capisce tutto, ma quello gli è addosso, mentre Novelli ha già la pistola in mano. Il poliziotto cade a terra, il brigatista gli è sopra a cavalcioni. Non si sono accorti di quell’arma nei pantaloni, che fa fuoco passando da parte a parte la coscia del brigatista e colpendo il braccio. Anche Novelli spara, tre colpi al volto, da mezzo metro. Poi i due scappano. Sequestro fallito, Simone si salverà.

Ma c’è un piccolo dettaglio. Il telegramma è caduto a terra e lì rimane. Lo avevano fatto spedire da Corsi a un altro brigatista, perchè non sapevano come procurarsene uno.

Quattro giorni dopo Corsi entra in tre armerie per comprare armi. Ma la polizia lo tiene già d’occhio. Nella terza lo aspettano gli agenti. Pare che non venga torturato, non ce n’è bisogno, parla subito. Fa scoprire la prigione e arrestare Calvitti. Gli altri sfuggono. E’ chiaro che tanti hanno già deciso: se mi prendono, mi metto subito a collaborare. Anche ammazzare i fratelli non è servito a nulla.

I Colp, un’altra mezza strage

Le evase di Rovigo sono già rientrate nei ranghi, cioè nei Colp. Mentre il nucleo di Segio si è rimesso a progettar evasioni.

Quelli dei Colp son sempre alle prese con il problema dei tanti soldi che servono per vivere da latitanti, sempre in fuga. Il 21 gennaio in sette vanno a rapinare una filiale del Monte Paschi alla periferia di Siena. La rapina va come quasi sempre, senza problemi, giusto una guardia da disarmare. Per fuggire, come fatto altre volte, prendono una corriera.

Scatta l’allarme. Una pattuglia di carabinieri fa un posto di blocco sulla Cassia, a Monteroni d’Arbia. E ferma la corriera. Il maresciallo Barna sale, gli altri due carabinieri, due ventenni di leva, restano a terra, imbracciando le mitragliette. La corriera è quasi piena, una trentina di persone. Ad attirare l’attenzione del maresciallo sono due giovani che si sbaciucchiano. Strano momento per darsi baci, non è che vogliono nascondere le loro facce? <Favorite i documenti, prego>. Sembrano regolari, eppure il sottoufficiale non è convinto. <Scendete per favore, dobbiamo fare un controllo>. I due sono Loredana Biancamano, da poco evasa dal carcere di Rovigo e Daniele Sacco Lanzoni, un 23enne, che era davanti all’Angelo Azzurro di Torino, nel 77, quando gli fu dato fuoco, anche se non pare abbia lanciato molotov, poi era entrato nelle squadre di PL.

I due scendono e il maresciallo ordina ai sottoposti di perquisirli. Ma dietro loro è sceso anche un altro giovane e poi altri due o tre, tra cui una donna. Forse vogliono solo curiosare. Ma ovviamente no. Il primo è Lucio Di Giacomo, per i compagni Olmo. Ha 24 anni, ma è un vecchio di Prima linea, già capo della Ronda di Orbassano, ha una lunga esperienza armata, compresa una rapina di un anno prima con morto a Martinafranca. E Poi l’evasione da Rovigo, c’era anche lui nel commando. Come c’era Giulia Borelli, che è scesa dietro di lui.

Di Giacomo estrae la pistola che ha infilata nella cintura dietro la schiena e spara alle spalle del maresciallo. I due carabinieri hanno il mitra in mano, ma non hanno mai sparato, restano bloccati. Ma in questi casi è un secondo che fa la differenza tra la vita e la morte. Tutti e due vengono colpiti da più proiettili, perchè sono in quattro a sparare. Ma il maresciallo Barna, è ferito solo ad un braccio, si gira e fa fuoco con la mitraglietta. Di Giacomo cade a terra morto, la Borrelli si accascia ferita a un fianco e alla spalla. Il sottoufficiale viene colpito di nuovo, ma riesce a scappare e a rifugiarsi in una casa.

L’incendio appiccato al bar Angelo Azzurro

La Biancamano risale sulla corriera. Chi si è buttato a terra, chi è impietrito, chi urla: <State calmi e non vi succederà nulla. Siamo di Prima Linea>. Poi fa un cenno a una ragazza, che si alza e la segue. E’ Michela, l’unica del commando a essere rimasta sulla corriera, con la borsa dei soldi.

A pochi passi c’è un auto con la portiera aperta, abbandonata dal proprietario. Via, prendiamo quella. Ma uno dei carabinieri, Euro Tersilli, si muove, non è morto. Allora Lanzoni si avvicina e gli punta la pistola. Quello lo implora di non ucciderlo, ma lui gli spara a bruciapelo. Poi spara anche all’altro, che però è già morto.

Nel gruppo c’è un attimo di sgomento, ma c’è da scappare. Gianfranco Fornoni, che ha ancora la pistola calda in mano, caricata con proiettili Dum Dum, dirà: <Un gesto di tale crudeltà, non fa parte della mia morale>. Segio dirà che volevano dare l’assalto al cielo, ma il cielo è sceso sull’asfalto, negli occhi sbarrati di quei due ragazzini uccisi come vitelli al macello.

Salgono tutti sull’auto e scappano. Fanno alcuni chilometri, poi l’abbandonano e si nascondono in un casolare abbandonato.

Ma ormai si è scatenata una gigantesca caccia all’uomo. Non si può rimanere lì, bisogna allontanarsi. Bloccano un’ auto, sequestrano il conducente e ripartono verso Grosseto. Ad Arlena di Castro vengono intercettati. Sparatoria. Mollano l’ostaggio e fuggono per i campi.

Ma la caccia continua. Arrivano centinaia di carabinieri, compresi quelli a cavallo e i Gis (Gruppi speciali), gli elicotteri. C’è anche la Tv. Ma per tutto il giorno dopo dei fuggitivi non c’è più traccia.

Il 23 gennaio, ad un posto di blocco vicino Tuscania, viene fermata un’auto con due medici, hanno ferri chirurgici. Allora, vuol dire che sono ancora nei paraggi. Infatti un elicottero segnala due persone che si nascondono nella boscaglia. Vengono circondati, viene sparato qualche colpo, poi i due si arrendono. Sono Fornoni, uno che già nel 77 stava nella squadra di PL di Bergamo. L’altro è uno sconosciuto, si chiama Giuseppe. I due dicono che la donna ferita è morta. Non è vero, è un tentativo di depistare i carabinieri.

La fine dei Colp, ricatturata la Ronconi

Vengono picchiati. Portati in caserma, in mezzo a una folla che inveisce. E qui torturati, almeno Fornoni, che ha denunciato la cosa. L’altro forse no, visto che subito dice quel che sa. Indica cioè un appartamento a Roma.

Il giorno dopo i carabinieri circondano la casa. Vedono una vecchia conoscenza entrarvi con qualcosa in mano. E’ Pietro Mutti con un cabaret di paste, per festeggiare il riuscito intervento chirurgico sulla Borelli. Assieme a loro due viene arrestato anche un altro dei Colp, Frassinetti, che aveva già partecipato a due evasioni, quella di Battisti e quella di Rovigo.

Anche Mutti diverrà un collaboratore, raccontando quasi tutto quel che si sa dei Pac.

Il 15 aprile, in una casa di Collegno, vengono catturati Loredana Biancamano e Michela. Con loro c’è Sonia Bendetti, un’altra dei Colp. Il 28 ottobre, viene preso a Milano Sacco Lanzoni, nel giro di mezz’ora è già un “pentito” e racconta tutto. Non è la prima volta, in PL, che i più feroci sono i primi a “pentirsi”, vedi Sandalo e Viscardi. Ma non del tutto, visto che accusa il compagno Fornoni di essere stato lui a dare il colpo di grazia a Tarsilli.

Oltre allo squallido tentativo di addossare a un altro quella assurda esecuzione, dice anche che alle 14,30 ha un appuntamento in un bar con la Ronconi. Se vi sbrigate la prendete. Quando la Ronconi, assieme alla Grena e altri due, entra nel bar, ai tavolini ci sono molti carabinieri che sorseggiano il caffè. I quattro non hanno il tempo di toccare le armi.

I Colp non esistono più. Dei capi di PL solo Segio e Forastieri sono ancora liberi. Franco Fiorina parteciperà ad una sanguinosa rapina a Parigi, con due poliziotti uccisi. Mesi dopo a Parigi, durante un’altra rapina, rimane ucciso Ciro Rizzato, un altro ex piellino. Fiorina verrà arrestato il 17-9-83, di nuovo dopo una sparatoria, nel corso della quale resta ucciso un altro ex Colp, Gaetano Sava.

Le torture funzionano

Dozier, sempre ammanettato sotto la sua tendina, ha ormai la barba lunga. Gli interrogatori a cui lo sottopone Savasta sono andati avanti senza produrre nulla di interessante.

Un po’ c’è la difficoltà della lingua, il generale sa poco l’italiano e il brigatista poco l’inglese. In più le Brigate rosse sanno poco della Nato, <
Ci eravamo preparati leggendo qualche giornale>. Ma soprattutto Dozier si è rivelato un abile osso duro. Da subito ha garantito che non mentirà, ma che non avrebbe rivelato segreti. E così è, risponde, parla, ma non rivela mai nulla di importante.

Savasta va avanti e indietro in treno da Milano, di solito vestito da ferroviere. Porta i risultati degli interrogatori e gli altri dell’esecutivo riferiscono cosa hanno trovato nei documenti presi in casa del generale, poco.

Una trattativa non è mai partita. C’è anche una taglia di due miliardi, messa dagli americani, ma nessuno si è fatto vivo. Dunque la situazione è in pieno stallo.


Pare però che il clima nell’appartamento sia diverso da quello del sequestro Taliercio. Dozier, ad esempio, si è complimentato con i suoi carcerieri per come lo trattano a tavola. <
Non ho mai mangiato così bene> ha detto un giorno, riferendosi ai calamaretti cucinati dalla Libera.

La polizia gira a vuoto, pare che a Verona non ci sia traccia di Brigate rosse. Gli Usa fanno pressioni su Roma e il governo sulla polizia. De Francisci riunisce gli investigatori mandati a Verona per risolvere il caso e spiega che bisogna fare di tutto. <Ordini dall’alto, abbiamo il via libera a usare le maniere forti. Non preoccupatevi>. In r

Ruggero Volinia

iunione c’è anche uno nuovo, viene presentato. E’ Ciocia, da Roma hanno mandato anche i “4 dell’Ave Maria”.

Che entrano subito in azione. Il 23 gennaio viene fermato un presunto fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. E’ portato prima al quinto piano della questura, dove i funzionari, compreso Improta, cominciano a picchiarlo. Poi di notte viene incappucciato, caricato in auto e portato in un villino affittato dalla Questura. Qui lo aspettano Ciocia e gli altri. E inizia il trattamento. Dapprima denudato, perchè le torture si fanno da nudi, poi acqua e sale, vomito, lavaggi con getti di acqua gelata, botte, anche sui testicoli. Ma tutto inutile. Non perchè Nazareno sia un eroe, semplicemente perchè non sa niente.

Il giorno dopo viene fermato Paolo Galati. Lui non è un brigatista, ma fa da tramite tra il fratello Michele, in carcere, e le Br. Non risulta venga torturato. Gli chiedono chi sono gli amici di Mantovani, lui dice di conoscere solo la sua ragazza, Elisabetta Arcangeli. La polizia la va a prendere a casa, con lei c’è anche il suo nuovo ragazzo, Ruggero Volinia, un operaio veronese.

Non è chiaro se vi sia anche lo zampino di Michele, visto che aveva già segnalato a Dalla Chiesa il progetto di sequestro. Anche se questa è la polizia e non è che con i carabinieri ci si passino molte informazioni. Sta di fatto che Improta è convinto che i due, soprattutto il ragazzo, sappiano qualcosa. E così dà l’ordine: <
Fateli parlare>.

Questa volta non li portano neanche nel villino, fanno tutto all’ultimo piano della questura, ma viene introdotta una efferata novità, l’interrogatorio in coppia. Volinia e l’Arcangeli sono in due stanze comunicanti, non si vedono ma si sentono. Ci sono quelli dell’Ave Maria, ma anche gli alti funzionari del Viminale, Improta, Fioriolli, Francia. Denudano la ragazza, la legano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, lei urla e il suo compagno sente tutto. Intanto lui viene picchiato duramente. E continuamente li minacciano: adesso vi ammazziamo. Poi qualche ora di tregua e si ricomincia.

Volinia è legato su un tavolo, con la testa a penzoloni e il solito tubo con acqua e sale. E’ stremato, non ne può più, non vuol più sentire le urla della sua ragazza (diverrà poi sua moglie e avranno figli). <Basta, vi dico dove sta Dozier>. Stai bluffando gli urla Improta. <No è la verità. Lo so perchè ce l’ho portato io. E’ una casa in periferia a Padova>. E’ l’una di notte del 27 gennaio.

Vengono chiamati i Nocs (specie di teste di cuoio della polizia) che arrivano a Padova alle 5 del mattino. Volinia viene caricato in auto e portato anche lui a Padova. E qui è lui a guidare la polizia al condominio di via Pindemonte.

g.g.

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