Capitolo precedente: 49) Assalto al carcere. La polizia tortura

La liberazione di Dozier
Per prima cosa bisogna stabilire se la porta dell’appartamento, dove è tenuto prigioniero Dozier, è blindata o no, cioè se è necessario l’esplosivo. Non è difficile, sullo stesso pianerottolo c’è uno studio dentistico. Dunque si fa finta di andare dal dentista e si controlla: non è blindata.
Il 28 gennaio 82, la mattina dopo che Ruggero Volinia sotto tortura ne ha rivelato l’ubicazione e ha condotto gli agenti sul posto, l’area viene sigillata. Il palazzo circondato. Sotto l’appartamento c’è un supermercato, viene fatto temporaneamente chiudere. Poi alle 11,30 una decina di agenti dei Nocs, vestiti con tute da operaio e passamontagna, salgono le scale e sfondano la porta.

Dentro sono in cinque più Dozier. Si sono accorti che la polizia sta per entrare e si riuniscono nella camera da letto dove c’è la tenda. Solo Di Lenardo è nel corridoio, un bestione alto quasi due metri lo abbatte con un pugno. Quando i primi due agenti si affacciano nella stanza, Ciucci tiene una pistola puntata alla testa di Dozier. Il generale è terrorizzato, non ha capito che quegli operai mascherati sono poliziotti. Ciucci viene colpito con il calcio di una pistola alla nuca e cade a terra. Gli altri si arrendono. Quando Dozier capisce, grida <Wonderfull>.

In realtà non ha rischiato di morire. Se volevano ucciderlo, avevano avuto il tempo di farlo, e poi Ciucci in cinque anni da brigatista non ha mai sparato un colpo. Volevano solo non essere uccisi come era stato in via Fracchia.

Ancora botte e torture
Grande entusiasmo per la brillante operazione. Tv e giornali elogiano la polizia per il successo ottenuto senza spargimento di sangue. Ma per anni nessuno saprà come ci si è arrivati e cosa succede dopo. Di successo sicuramente si tratta, dopo otto sequestri, di fronte ai quali lo Stato era stato impotente e sconfitto, finalmente uno è finito con il salvataggio dell’ostaggio. E il successo diverrà ancora più grosso.

Oltre al generale Dozier, nell’appartamento vengono trovate 12 pistole, 5 mitra Sterling, 7 bombe a mano e 8 kg di T4. I cinque brigatisti, Savasta, Libera, Di Lenardo, Ciucci e Frascella, vengono incappucciati, ammanettati e fatti sdraiare, a faccia in giù, nel pianerottolo. Qui vengono ripetutamente presi a calci e insultati. Agenti e funzionari, entrano ed escono dall’appartamento e, quando passano, rifilano calci ai cinque.

Cesare Di Lenardo

Hanno capito subito che Emanuela Frascella, la ragazzina, è la più debole. La riportano dentro e cominciano a farle domande, lei non risponde, allora le tolgono la maglia e le torcono i capezzoli. Lei comincia a rispondere, ma è solo l’inizio.

Li portano in questura e comincia il trattamento solito. Anche qui in modo che gli uni sentano gli altri. Emanuela Frascella: <Mi dissero che Ciucci era morto e anche che mio padre si era sentito male. Poi mi spogliarono, mi tirarono giù le mutande e iniziarono a strapparmi i peli del pube e a torcermi i capezzoli, a darmi botte sullo stomaco. Poi mi misero contro un tavolo e minacciarono di violentarmi con un bastone>. Ma Emanuela non ha molto da dire, è una fiancheggiatrice, ha solo prestato la sua casa. Gli altri ricevono lo stesso trattamento.

Savasta e la Libera da qualche tempo avevano cominciato a confidarsi sul fatto che ormai la lotta armata è persa, fallita. E che, se presi, forse era meglio collaborare. <Ma non volevo dare l’impressione di parlare – dirà la Libera – perchè mi torturavano. E allora diedi solo un paio di indirizzi di case già abbandonate>.
Savasta quasi subito dice che vuol collaborare, ma continuano a picchiarlo. Tanto che chiede: ma perchè continuate se ho detto che parlo? Il perché è che nei poliziotti c’è anche una grossa dose di rabbia e odio.

Nel giro di alcuni giorni tutti parlano, eccetto Di Lenardo, che infatti verrà torturato più degli altri, gli spegneranno sigarette anche sul pene. Savasta riempie centinaia di pagine di verbali, gli effetti sono peggiori di quelli di Peci: oltre cento arresti. Le rivelazioni di Ciucci portano all’arresto di 15 brigatisti in Toscana.
La gran parte degli arrestati, a loro volta collaboreranno.

L’assalto a Rebibbia
La liberazione di Dozier e i successivi “pentimenti” consentono di sventare altre due clamorose azioni in preparazione.
Tra gli arrestati c’è anche un agente di custodia di Rebibbia. Era di leva, aveva fatto domanda per fare la guardia e poi aveva firmato per rimanere, come gli avevano chiesto i capi brigatisti. Anche altri due militanti stavano per essere arruolati come guardie.
Tutto faceva parte di un piano ambizioso e spettacolare, con il quale celebrare l’inizio del processo per il sequestro Moro, programmato per la primavera: liberare i detenuti sotto processo.

Il carcere di Rebibbia

Il secondino-brigatista avrebbe portato dentro al carcere armi ed esplosivo. Poi, il giorno X, di guardia sul muro di cinta, avrebbe dovuto annientare le altre guardie, consentendo così al nucleo esterno e ai detenuti di avvicinarsi al muro e farlo saltare con l’esplosivo, come fatto a Rovigo. In alternativa erano pronte scale di corda. Altri avrebbero attaccato e neutralizzato le pattuglie esterne dei carabinieri.
Difficile dire se il piano sarebbe riuscito, forse no. Sarebbe comunque stato accompagnato, sempre nei piani delle Br-Pcc, dall’uccisione di alcuni magistrati. La lista comprendeva: Caselli, Calogero, Vigna, Imposimato, Sica, Priore, Amato.

Il blitz di Padova salva anche da un sequestro, che stava per scattare a giorni, il presidente della Confindustria, Vittorio Merloni. La decisione di rapirlo era nata in modo quasi casuale. Un militante della brigata Tiburtino faceva la guardia giurata ed era stato destinato a far parte della scorta di Merloni. Un’occasione d’oro, così si era approntato il piano.

La ritirata
Le Br-Pcc sono praticamente smantellate. Evitano l’arresto, per il momento, tutti i capi: Balzerani, Novelli, Lo Bianco, Pancelli, Capuano, Cappelli, Antonini. Ma hanno chiaro che tutto sta crollando e che occorre salvare il salvabile. E così lanciano la linea della “ritirata strategica”. Sparisono dalla circolazione e organizzano la fuga in Francia di molti militanti. Alcuni dei quali sono ancora lì.

Commenterà Moretti: <Ho visto gli avvenimenti di quel periodo come l’impossibilità di smettere, di trovare una via d’uscita. Prendete uno come Savasta, che ha ammesso ancora più di Peci e fatto molti più danni. Noi su Savasta mettevamo la mano sul fuoco, era uno che ci credeva, di quelli che sarebbero andati fino alla morte. Non so che cosa sia scattato in lui. Le torture sono state determinanti…. ma c’è altro: il fallimento dell’azione Dozier segnava il tracollo della ipotesi politica del Pcc>.

Incursione alla caserma
Le Br sono agli sgoccioli, gennaio è stato un mese disastroso. Le Br-Pcc di fatto non ci sono più, tranne qualche residuo, delle Br-Pg è rimasta solo la colonna napoletana, ma a leggere i giornali il 9 febbraio non sembra. Nella notte una caserma è stata occupata e svuotata dai brigatisti.

La colonna napoletana, che non è stata toccata dagli arresti e, nonostante il tunnel di una sconfitta inevitabile sia sempre più buio, continua a progettare maxievasioni e omicidi.
Ma per dare l’assalto ad un supercarcere come quello di Palmi, non bastono le pistole, occorrono armi pesanti. L’idea la suggerisce un muratore di 21 anni, che Vittorio Bolognesi ha appena reclutato. Antonio Recano ha da poco finito il servizio militare e racconta ai compagni: <Ero alla caserma Pica di Santa Maria Capua Vetere. In realtà è un deposito di armi e so dove sono custodite. Assaltarla è un gioco da ragazzi. Invece delle quattro sentinelle previste, ne lasciavamo solo una e andavamo tutti a dormire>.

Alle 5 del mattino Stoccoro, Manna, Scarabello, Bolognesi e Recano raggiungono la caserma. Si procurano una scala e con quella scavalcano il muro di cinta. Come detto da Recano, c’è solo una sentinella, per il resto silenzio di tomba. Il militare si trova una pistola puntata alla nuca e alza le braccia. Poi in quattro raggiungono il dormitorio, il quinto si mette a far la guardia, indossando la giacca della sentinella. <Fermi tutti, siamo le Brigate rosse>. Svegliati di soprassalto, 18 soldati si lasciano legare, ognuno alla sua branda, e imbavagliare. Del resto chi glielo fa fare di prendersi una pallottola.

Aperto il cancello entrano due auto, svuotata l’armeria, vengono riempite di armi. 17 fucili Garand, 2 mortai, 4 mitragliatrici, sei mitra Bren, 19 fucili Fal. Il bottino in buona parte risulterà inutilizzabile, perchè privo del percussore e di munizioni. Solo i fucili Garand ne sono dotati. Ma l’azione è di grande effetto. Le Br non sono morenti! E’ il messaggio.

La fine dell’Alasia
Anche l’unica altra colonna ancora attiva, l’Alasia a Milano, sta progettando l’assalto a un carcere, quello di S.Vittore.
L’idea e la proposta sono venute da Aurora Betti che, appena arrestata, si è messa a studiare il modo per evadere. Con il suo solito fervore ha già trovato un canale per comunicare con l’esterno, attraverso la sorella di un’altra detenuta, e ha messo a punto un piano. Da dentro organizza, dispone e se la prende anche con alcuni compagni definiti handicappati.

Pasqua Aurora Betti

Il piano dovrebbe scattare a metà febbraio, con un’azione congiunta dall’esterno e dall’interno. Ma nella colonna sorgono dissensi. Marocco, Ghiringhelli, Adamoli, la Belloli e Zellino si tirano indietro. La cosa è troppo rischiosa, potrebbe essere un bagno di sangue e tutto neanche per un’evasione di massa, ma solo per la Betti e un paio d’altri.  I cinque vengono sospesi. Un tempo non sarebbe successo, il dissenso su un’azione era ammesso. Ora no.
Il risultato è che i cinque se ne vanno e prendono contatti con il Partito guerriglia. In particolare Marocco, Ghiringhelli e Pagani Cesa, che da poco si sono spostati a Torino per continuare il lavoro interrotto dall’arresto di Alfieri, consentono così agli orfani di Senzani di impiantare una mini-colonna a Torino.

L’evasione viene rinviata al 23 febbraio. Dall’esterno sono riusciti a fare avere alla Betti un salsicciotto di 50 grammi di plastico, che lei ha nascosto sotto il piatto della doccia. Ma inaspettatamente la Betti viene trasferita in altro braccio. L’evasione è fallita.
Cosa è successo? E’ successo che i carabinieri, che da tempo pedinano diversi elementi della colonna milanese, hanno deciso che è giunto il momento di tirare la rete e dentro vi restano in molti.

All’inizio di febbraio vengono arrestati in otto. Livraghi, impiegato della Brown Boveri, uno che è nelle Br già da sei anni, collabora subito, confessando di aver partecipato a due gambizzazioni. Ma parlano anche altri. Scattano così altri arresti e molti, anzi la maggior parte, collaborano. Ormai il “pentitismo” è una slavina inarrestabile. Viene preso anche il capo, Niccolò De Maria. Alla fine finiscono dentro in 24. Il piano della Betti è scoperto. Ma soprattutto la Walter Alasia, tra arresti e defezioni, è praticamente smantellata.

Alcune settimane dopo, superato lo sbandamento, Ettorina Zaccheo, l’infermiera del Policlinico che fu l’ispiratrice dell’omicidio Marangoni, cercherà di ricucirne i brandelli.  Ma ormai quasi tutti gli irriducibili vedono nelle Br-Pg l’unico porto a cui approdare per continuare a combattere e altri lasciano la Alasia. Che così cessa di esistere. Un altro dei suoi ex capi, Adamoli, rimane isolato ed esce dal giro, a causa di 4 milioni che Chiocchi gli aveva dato e che non si sa bene che fine abbiano fatto.

Sopravvive solo il Partito guerriglia

Di tutto il fronte combattente sopravvive solo la colonna napoletana delle Br-Pg, più qualche gruppetto sparso, a Roma, Torino e ancor meno a Milano. Dei sopravvissuti, numericamente, ma soprattutto politicamente. Isolati e nascosti nella loro personale foresta ideologica. Ignorati e dimenticati da una società che va da tutt’altra parte.  Eppure ancora immersi in una febbrile attività di

Brigatisti (Moretti, Azzolini, Bonisoli, Piancone, Marini) in aula durante il processo Moro.

pianificazione di agguati, rapine, attentati, omicidi.
Qualcuno, forse più d’uno, vorrebbe mollare, ma non ci riesce. Molti hanno già deciso di pentirsi, appena presi. Eppure lucidano le armi e sono pronti a colpire.

A Roma, nell’aula bunker del Foro italico, sta per iniziare il processo Moro, con alla sbarra tutti i capi delle Br. Il progetto di bombardarlo con razzi è sfumato con l’arresto di Senzani. Ci si accontenterà di molto meno, ma un segnale bisogna darlo.
Il 12 aprile, il giorno prima dell’apertura del processo, da un‘auto scendono in quattro, Bolognesi, Marocco (venuto da Torino), la Ligas e Scarabelli e aprono il fuoco contro un pulmino dei carabinieri che presidia l’ingresso dell’aula. Lanciano anche un paio di bombe a mano. Tre carabinieri restano feriti, uno gravemente.

Raffaele Delcogliano
Negli stessi giorni, anzi da circa un mese, la colonna napoletana sta lavorando ad un’azione più eclatante: l’uccisione del capo della Mobile di Napoli, Antonio Ammaturo. Dall’inizio di marzo Manna, Acanfora e Planzio lo stanno pedinando. Ma, dopo tre settimane, si accorgono che seguono la persona sbagliata e cioè il capo della narcotici. E così il piano deve essere rinviato.

Per fortuna che c’è già un secondo obiettivo in lavorazione da tempo, l’assessore regionale al lavoro della Campania, e così si passa a quello. Raffaele Delcogliano è un giovane Dc, ha 38 anni. Ed è un democristiano abbastanza atipico, almeno in Campania, lo descrivono come “umile, a volte in modo imbarazzante“. E’ un volto nuovo che sta tentando di cambiar qualcosa nella gestione del turbolento mercato del lavoro o meglio della disoccupazione campana.

Le Br non spiegano più di tanto la scelta dell’obiettivo, verrà genericamente indicato come l’esecutore delle politiche antiproletarie decise dal governo. Per i brigatisti può essere sufficiente, del resto nella loro tradizione, a parte pochi casi, un obiettivo vale l’altro. E forse è così, potrebbero però esserci anche altre motivazioni alla base della scelta, ma di queste parleremo più avanti. La condanna comunque è a morte, ormai si uccide soltanto.

Le scuse per non sparare
Anche questa azione parte male e verrà rinviata cinque o sei volte. La prima volta Giovanni Planzio dimentica le chiavi dell’auto che deve sbarrare la strada a quella dell’assessore. Ma è una balla, la verità è che non se la sente di partecipare all’agguato. Alla seconda occasione rinuncia a trovare una scusa e dichiara di essere contrario all’uccisione di Delcogliano, non è chiaro se sia solo una crisi di coscienza o ci sia anche un disaccordo politico. Planzio è nel comando della colonna e ne è stato uno dei fondatori, ma viene sospeso dagli altri capi: Bolognesi e Chiocchi. D’ora in poi verrà utilizzato solo per qualche rapina.

Al suo posto viene messo Mauro Acanfora, un insegnante di 32 anni, ma non va meglio. La prima volta che tocca a lui, dice di essersi svegliato tardi. Poi Assunta Griso, moglie di Planzio, che doveva far parte del commando, segue le orme del marito e si dà malata. Il 5 marzo Acanfora è di nuovo al volante di una 128, parcheggiata con due ruote sul marciapiede. Scruta lo specchietto in attesa dell’Alfetta blindata. Eccola! Mette in moto, ingrana la prima, ma non ce la fa. Non gli va proprio di partecipare a quell’inutile massacro, perchè il piano prevede che venga ucciso anche l’autista. E resta lì, con le mani strette sul volante, mentre l’Alfetta passa. Con i compagni si giustificherà dicendo che un’auto si era fermata proprio davanti alla sua e gli aveva impedito di partire.

Pare che gli credano, perchè l’azione viene spostata al 9 marzo e gli viene affidato lo stesso compito. Ma è inutile cercare un’altra scusa, c’è solo una soluzione per farla finita con l’ormai insopportabile carriera da brigatista. Acanfora chiama la Digos, dice di essere un cittadino e di aver visto il brigatista Acanfora seduto nella stazione dei Campi Flegrei. Poi va a sedersi in una panchina della stazione. Poco dopo arriva la polizia che lo arresta.
Inizia subito a collaborare. Fa scoprire un covo e ritrovare quasi tutte le armi rubate alla caserma Pica e fa arrestare due compagni, uno è l’insospettabile impiegato delle Poste Vincenzo Olivieri. Ma non rivela nulla del piano per uccidere Delcogliano.

L’agguato e l’esecuzione
Così, quando i brigatisti si rendono conto che su Delcogliano ha tenuto la bocca chiusa. Ripreparano, per l’ennesima volta, l’agguato. L’assessore deve morire, a tutti i costi.
Il piano è lo stesso, la data è il 27 aprile. Quando la mattina l’assessore, assieme all’autista che fa anche da guardia del corpo, sale sull’auto per raggiungere Napoli, sotto casa sua a Benevento c’è una ragazza, Maria Russo, che subito chiama Napoli e avverte con una frase in codice che parla di due fustini di detersivo.

L’auto dell’assessore

In via Marina questa volta al volante della 128 c’è Enzo Stoccoro, poco più indietro sul marciapiede ci sono la Ligas e Manna, sotto l’impermeabile hanno due fucili Garand, quelli rubati ai soldati di guardia alla caserma. L’auto ha i vetri blindati, le pistole non bastano. Poco più in là c’è Anna Cotone, la moglie di Stoccoro, con un mitra Sterling.
Quando Stoccoro vede l’Alfetta arrivare, parte e blocca la strada. Ligas e Manna fanno qualche passo e aprono il fuoco. Ma dopo un paio di colpi il fucile della Ligas si inceppa. Prontamente interviene la Cotone che spara alcune raffiche sui vetri dell’auto. Delcogliano e l’autista Aldo Iermano sono crivellati di colpi.

Poco dopo la rivendicazione: <Abbiamo eliminato un altro boia della Dc. Siamo rinati più forti di prima. Questa volta non ci saranno pentiti>.   Una frase che rivela tutta la loro debolezza ed impotenza, visto anche che, su quattro del commando, tre diventeranno pentiti.

Il 18 maggio viene arrestata la Cotone che subito indica un importante covo della colonna, nel quale vengono arrestati Planzio e altri due brigatisti. Una settimana dopo altre rivelazioni di Acanfora portano all’arresto dei coniugi Aprea-Perna, che erano stati i carcerieri di Cirillo.

Il cerchio si stringe, arresti e morti
Lo stesso 18 maggio vengono catturati la Belloli e il suo compagno Samuele Zellino, quello che aveva sparato al direttore del Policlinico, Marangoni. Erano usciti dalla Alasia poco prima dell’ondata di arresti ed erano passati al Partito Guerriglia. Li trovano in una tenda nei boschi vicino ad Erba, fino al giorno prima assieme a loro c’era anche Chiocchi. Oltre alle armi hanno una piantina di una caserma dei carabinieri. Forse si preparavano ad un attentato. Ma la scelta della tenda è anche dovuta ai duri colpi subiti dalla rete logistica a Milano. Per la Belloli si chiude una carriera armata iniziata nel 74, con quelli di Rosso.

Il 24 maggio un carabiniere riconosce Umberto Catabiani per strada a Viareggio. Umberto, 32 anni, è il capo di quel che resta delle Br Toscane. E’ un militante piuttosto noto nel versiliese, cresciuto nella Fgci e divenuto poi segretario dell’Anpi locale, nei primi anni 70 rompe con il Pci e, tra il 76 e il 77 mette in piedi un gruppo armato, la “brigata Dante di Nanni” (un operaio e partigiano giustiziato dai nazisti), che compie alcuni attentati. Poi viene arrestato e si fa un po’ di carcere. Uscito, aderisce alle Br.

Il corpo di Umberto Catabiani

Quando il carabiniere gli intima l’alt, lui estrae la pistola, spara e scappa. Scatta la caccia all’uomo, una caccia a largo raggio, perchè cinque ore dopo lo avvistano nella campagna pisana a bordo di un ciclomotore. Lo circondano, si spara ancora, ma questa volta per lui non c’è scampo e viene ucciso.

Il 30 maggio una pattuglia di carabinieri intercetta, in una strada di Roma, due capi di quel che era la colonna romana delle Br-Pcc. Roberta Cappelli viene bloccata, ma Marcello Capuano, uno degli assassini del vicequestore Vinci e uno dei sequestratori di Dozier, spara e corre. Blocca una ragazza in vespa, le sottrae la moto e continua la fuga. Ma poco dopo viene bloccato da alcune auto dei carabinieri e anche lui arrestato.

Il cerchio ormai si stringe sugli altri superstiti della colonna. Il capo, Remo Pancelli, è già sfuggito all’arresto, anche lui sparando sui carabinieri in mezzo alla folla. Ma il 7 giugno, per l’ex impiegato delle Poste ed ex insospettabile, oltrechè assassino del gen. Galvaligi e del vicequestore Vinci, la fuga è finita. Viaggia su un autobus affollato con in tasca una pistola e una bomba a mano. Sente qualcosa di freddo appoggiata ad una tempia. E’ la canna di una pistola. Due carabinieri in borghese gli dicono di alzare le mani. Lui risponde solo: calma.

Il suicidio di Rocco
Il 10 giugno in un prato di Milano viene trovato Rocco Polimeni, un piellino ora nei Colp, con un buco alla tempia e una pistola in pugno. Rocco aveva 28 anni ed era impiegato all’Ufficio imposte, un insospettabile il cui appartamento era stato usato come base sicura.

La perizia balistica solleva dubbi sul suicidio e anche il luogo scelto per uccidersi appare strano. Qualche giorno dopo però i Colp, con un volantino, affermano che si tratta di suicidio. Restano oscure le motivazioni. L’unico fatto certo è che un mese prima era stata arrestata la sua compagna. In tasca le avevano trovato, su un foglietto sgualcito, una poesia che parla della “…compagna vita che si infrange sugli scogli…” e sotto con altra calligrafia la frase “sono Rocco Polimeni. Sono comunista“.

g.g.

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