Capitolo precedente: 50) Liberato Dozier. La “ritirata strategica”.

L’omicidio Ammaturo

Il partito combattente, dopo la nuova ondata di arresti, è ridotto sempre più ai minimi termini. Eppure luglio 82 sarà un mese di sangue.

La vita di Antonio Ammaturo, il capo della Mobile di Napoli, si è allungata di qualche mese a causa dello scambio di persona. Ma il 15 luglio è giunta la sua ora. E’ evidentemente un obiettivo a cui le Br napoletane non possono rinunciare. Ammaturo, che qualcuno chiama il “poliziotto di ferro”, sa di essere nel mirino. In una delle basi fatte scoprire da Acanfora hanno trovato una scheda con indirizzo, abitudini, ecc. Ma lui, con un fatalismo che si fa fatica a capire, non ha preso alcuna precauzione. Ucciderlo non è impresa difficile.

Quattro giorni prima l’Italia ha vinto i mondiali in Spagna e fra due giorni a Napoli c’è il concerto dei Rolling Stones, sono giornate impegnative per la polizia. Potrebbe essere che Ammaturo cambi orari, per sicurezza il commando di quattro persone si apposta con largo anticipo. Alle 13 è in piazza Amore, vicino alla casa del vicequestore. Alle 16, a bordo di un’Alfasud, arriva Pasquale Paola, uno degli agenti che fanno da autista al vicequestore. Suona il campanello e Ammaturo risponde: scendo subito. Emilio Manna e Vincenzo Stoccoro si appostano di fronte al portone, accanto a un bar. Poco più avanti ci sono Vittorio Bolognesi e Stefano Scarabello a bordo di una 128, che ha il compito di bloccare l’auto dei poliziotti. Ma arrivano due vigili che la fanno spostare, l’auto fa un giro per tornare sul posto, ma deve fermarsi per un semaforo rosso.

In quel momento scende Ammaturo, l’auto dei brigatisti riparte, ma non fa in tempo a bloccarla. Per sfortuna dei due poliziotti ora il rosso blocca loro. Manna e Stoccoro scendono dal marciapiedi accelerano il passo, arrivano di fianco all’Alfasud, dal lato del passeggero. Ammaturo non si è accorto di loro. Manna estrae la sua Beretta e Stoccoro il mitra Sterling e aprono il fuoco. L’Alfasud non è blindata e viene crivellata da una cinquantina di colpi. Anche un passante resta ferito. Poi i due corrono verso la 128, perdono qualche secondo, perchè uno sale dalla parte sbagliata. Secondi decisivi, perchè quando stanno per partire l’auto viene centrata da diversi colpi. A sparare è un vigile urbano. I brigatisti danno gas e infilano via Duomo.

L’omicidio Ammaturo

Il vigile ha buona mira, perchè Manna è stato centrato da due proiettili, in un gluteo e sotto un’ascella. E Scarabello in una coscia. Ma non è finita, perchè dopo un centinaio di metri si accorgono di essere inseguiti da una moto con due “falchi”, chiamano così i poliziotti che agiscono nei vicoli della Napoli vecchia.

La 128 imbocca via San Biagio dei librai, una stradina nel cuore di Napoli, poi gira per San Gregorio Armeno, affollata come sempre di gente e turisti. La moto dietro. L’auto si ferma, Stoccoro scende per far fuoco, ma i poliziotti sparano e lo feriscono a un piede e colpiscono di nuovo Manna al petto, ma il proiettile, rallentato dalla carrozzeria, fa poco danno. Stoccoro riesce però a sparare una sventagliata di mitra e i due poliziotti debbono gettarsi a terra, consentendo così la fuga della 128. Altri due passanti sono leggermente feriti.

L’aiuto della camorra

Dopo non molto i brigatisti abbandonano l’auto, si nascondono in un portone per non essere visti da un’auto della polizia che passa a sirene spiegate. Poi imboccano Salita Montagnola, tutta gradini, nel rione Sanità, i tre feriti perdono sangue. Qui incontrano alcuni uomini, tatuati e dall’aria truce. E’ facile capire che gente sia, ma non c’è problema, sono amichevoli. Attorno si è radunata la gente dei vicoli. I brigatisti vengono nascosti in casa di ‘o Milionario, il boss del rione.  Qui vengono medicati alla meglio, qualcuno va a comprare delle medicine.

In serata i tre feriti e Bolognesi vengono caricati su un’auto e portati a Castelvolturno, nella villa del boss della zona, Renato Cinquegranella. Qui trascorrono la notte e rimangono fino alle 16 del giorno dopo, quando la Ligas li viene a prendere e li porta in un appartamento.

Qualcuno intanto telefona ad un tecnico radiologo, con una scusa gli chiede di recarsi ad un indirizzo con l’attrezzatura per i raggi X. Qui viene sequestrato da Bolognesi, Marina Sarnelli e un certo Ludovico e portato nell’appartamento. Fatto l’esame assicura che i due brigatisti non sono gravi. Tre giorni dopo il paramedico, assieme ai feriti, viene portato a Roma e qui rilasciato. Un altro medico opererà Manna.

Perchè Ammaturo?

In serata era arrivata la rivendicazione: <Qui Brigate Rosse, un nucleo armato del partito della guerriglia ha annientato il massacratore dei proletari, il capo della Squadra mobile Antonio Ammaturo, e il suo cane da guardia>.

Ma perchè Ammaturo? Il Partito Guerriglia era nato accusando gli altri di militarismo e sostenendo che le azioni armate dovevano dare espressione a rivendicazioni del proletariato. Questa invece è espressione del vecchio militarismo. Inoltre Ammaturo non si è mai occupato di terrorismo, lui dà la caccia ai camorristi. E’ vero che le Br napoletane ritengono i malviventi avanguardia rivoluzionaria e infatti nel loro comunicato accusano il poliziotto di essere: <un’importante pedina all’interno dell’antiguerriglia e in particolare della lotta all’extralegalità>. Ma la scelta di Ammatura appare comunque anomala, soprattutto perché coincide con gli interessi di Cutolo e di una parte della Dc.

A chi fa comodo la sua morte

Ammaturo è un poliziotto che sa fare bene il suo mestiere e che soprattutto lo fa fino in fondo. Nei primi anni 70, quando è capo del commissariato di Giugliano, comune ad alta densità camorrista, arresta Alfredo Maisto, il boss locale. La cosa non piace ai capi democristiani della cittadina, Cirillo e Granata che, con Maisto sono in affari. E così da un momento all’altro Ammaturo viene trasferito in Calabria. Lui è sicuro che a chiedere il trasferimento siano stati i due politici con l’appoggio del presidente della Repubblica, Giovanni Leone.

Umberto Ammaturo

Anche in Calabria Ammaturo si distingue, arrestando un certo numero di ‘ndranghetisti e ricevendo così ripetute promozioni. Nel 76 torna a Napoli e nell’81 diviene capo della Squadra mobile. Appena un mese prima si è concluso il sequestro Cirillo. Una delle prime cose che fa è quasi inaudita nella Napoli di quegli anni. Fa irruzione nel castello di Cutolo a Ottaviano e fa arrestare moglie e figlio. Poco prima aveva pubblicamente definito Cutolo un cialtrone.
Per il boss, in carcere, è una mancanza di rispetto intollerabile, uno schiaffo alla sua indiscussa autorità camorrista e non solo, visto che da lui son corsi politici e generali a chiedergli di salvare Cirillo. Un’offesa che può essere lavata solo con la morte del superpoliziotto.

Ma c’è di più, Ammaturo trova in casa di Cutolo alcuni biglietti di ringraziamento per il ruolo svolto nell’operazione Cirillo inviatigli da alcuni politici, anche su carta intestata del Senato. Trova cioè le prove di quello che, fino a quel momento, solo si sospettava e cioè che la Dc e lo Stato avevano stretto un patto con Cutolo. Quelli che riemergono sono i nomi di Cirillo, Granata, Gava, coloro che già avevano mostrato i loro legami con la camorra, quando, lui ne era convinto, lo avevano fatto trasferire.

Ammaturo si mette in testa di scoprire tutta la verità e inizia ad indagare sui misteri del sequestro Cirillo. E’ un’indagine riservata, perchè non è di sua competenza. Nel giro di poco tempo è convinto di avere scoperto molto. Racconta infatti la sorella: <Mi parlò di un’indagine estremamente delicata e altrettanto pericolosa sul sequestro Cirillo. Se non mi faranno fuori prima, mi disse, cadranno molte teste>.

Ammaturo non si fida della questura di Napoli, infatti ha scoperto che il questore ha fatto sparire i biglietti che lui ha trovato in casa di Cutolo, allora invia una relazione direttamente a Roma, al ministero e poi per sicurezza anche al fratello. Al quale confida: <Sono cose grosse, tremerà Napoli, ho spedito tutto al Ministero. Stai attento che ti ho spedito una copia per posta. Mi raccomando estrema riservatezza>.

Ammaturo è dunque consapevole che ora, oltre alla camorra si è fatto altri nemici: una parte della Dc, soprattutto il suo capo più potente a Napoli, Gava (che non molto dopo diverrà ministro dell’Interno), i servizi segreti e i suoi superiori in questura. Che infatti sanno già tutto e lo tengono d’occhio. Suo fratello non riceverà mai la copia. E l’originale inviato al ministero non sarà mai trovato.

Sono in molti a desiderare la sua morte. E le Br eseguono la sentenza. Secondo le indagini successive il patto tra Cutolo e le Br, che portò nelle casse brigatiste un miliardo e mezzo, prevedeva anche l’eliminazione di magistrati, poliziotti e giornalisti.  Un patto che trova concreta applicazione pochi minuti dopo l’omicidio di Ammaturo, quando i camorristi danno rifugio ai brigatisti feriti.

Vittorio Bolognesi, il capo della colonna napoletana, ha sempre negato che l’eliminazione di Ammaturo fosse stata commissionata da Cutolo. Prove del contrario non ve ne sono. Però un fatto è certo…. anzi i fatti certi sono due. L’assessore Delcogliano sta cambiando le regole per la gestione delle liste dei disoccupati e dei corsi di formazione, andando a colpire un business molto lucroso in mano alla camorra, e le Br lo uccidono. Ammaturo sta scoprendo l’immondo patto tra Cutolo, Dc e servizi segreti e le Br lo uccidono, con l’appoggio dei camorristi, mentre in carcere Cutolo e compagni brindano. Forse sono solo coincidenze. Ma di certo poco utili al proletariato e molto al potere camorrista e democristiano a Napoli.

Walter Alasia, ricomparsa con omicidio

Dopo un periodo di sbandamento e congelamento, seguito all’ondata di arresti di febbraio che ha smantellato la Walter Alasia, Ettorina Zaccheo l’irriducibile, la capoinfermiera che ha ideato l’omicidio di Marangoni, il direttore del Policlinico, riprende i contatti con i pochi sfuggiti agli arresti. Alcuni non si presentano agli appuntamenti, hanno capito che l’idea di ricominciare non appartiene più alla categoria della politica, seppure allucinata e cieca, ma ad una patologia della psiche.

Un certo numero risponde invece all’appello. E, nel giro di un paio di mesi, la Zaccheo riesce a ricucire alcuni brandelli della vecchia colonna, una ventina di persone, alcune mai individuate. Contemporaneamente però la neo Alasia perde un pezzo, perchè in tre, Trombin capo della brigata dell’Alfa, Stefano Ferrari uno già nelle Br nel 78, e Carnelutti militante stocio addirittura dei tempi di Curcio, si avvicinano al Partito guerriglia.

Il primo problema da affrontare è sempre quello dei soldi. Così il 16 luglio in cinque vanno a rapinare l’ufficio postale di Lissone, alla periferia di Monza. Il maresciallo Renzi, comandante della stazione dei carabinieri, come tutte le mattine, arriva all’ufficio per ritirare la posta. I due rimasti di copertura, alla vista dell’Alfetta, pensano sia scattato l’allarme e aprono il fuoco con i mitra dai due lati della strada, una delle due armi è un HK, mitra nuovo e molto efficiente in dotazione alla Nato. L’auto è crivellata da 70 colpi. Il maresciallo riesce ad aprire la portiera, ma è morente. Un terzo brigatista uscito dall’Ufficio postale, lo finisce a colpi di pistola.

I cinque sono: Mario Protti e Vincenzo Scaccia provenienti dal gruppo comasco ex PotOp; Pio Pugliese, ex operaio della Philips; Bernardino Pasinelli, operaio della Breda e Ivan Formenti, operaio Falck e delegato sindacale, due insospettabili.  Formenti criticherà aspramente i compagni per l’uccisione del maresciallo Renzi, definito un omicidio inutile.

 Sparatoria al bar, ucciso brigatista

Una settimana dopo una pattuglia della polizia entra in un bar a Milano per un controllo. E’ probabile che abbia avuto una segnalazione. Il bar Racheli è in centro, un locale molto grande, 11 vetrine, tavolini all’esterno, salette all’interno.

I tre agenti si dirigono verso una saletta appartata, con una porta che dà sull’esterno. Al tavolo ci sono tre giovani. Due sono quelli della rapina di Lissone, Protti e Scaccia, il terzo è Stefano Ferrari, un capo, anche se si è da poco autosospeso, perchè ha deciso di passare con il Partito guerriglia. Due agenti si mettono accanto alla porta, il terzo chiede i documenti. Quando il primo fa per tirarli fuori, il poliziotto si accorge che nella cintola ha una grossa pistola, con mossa rapida gliela prende, è una 357 magnum. Il giovane si alza: <Calma, ho un regolare porto d’armi, ora glielo mostro>. E’ una mossa studiata per distrarre il poliziotto. Infatti gli altri ne approfittato per estrarre le loro armi e fare fuoco.

Un gesto però a cui gli agenti sono preparati, hanno già le loro pistole in pugno e sparano una decina di colpi sui tre. Un agente è ferito di striscio. Ferrari è colpito alla testa, Protti al torace, alla pancia e al collo. Entrambi crollano a terra. Scaccia ferito solo al petto riesce ad uscire, blocca una Mini con una donna al volante, la fa scendere, ma l’auto non va in moto, allora cerca di fuggire a piedi, ma una scia di sangue si allunga dietro ai suoi passi, poi anche lui crolla.
Ferrari morirà dopo 7 giorni.

La fine di Ennio

Ennio di Rocco è stato arrestato i primi di gennaio, è stato torturato ed ha parlato.  Pochi giorni dopo sono stati arrestati Senzani e otto altre persone. I brigatisti in carcere non sanno che è stato lui a parlare. Di Rocco non è un pentito, semplicemente non ha resistito alle torture, ma ora nel carcere di Trani è di nuovo un brigatista in piena attività. E’ uno dei più attivi nella “brigata di kampo”, come si chiamano i brigatisti in galera.

Ennio ha 25 anni, è uno dei pochi veri proletari tra i brigatisti romani. Il padre fa il muratore e anche lui ha lavorato saltuariamente in cantiere. E’ nato e cresciuto nel quartiere popolare di Casalbertone. I suoi l’hanno mandato alla scuola tecnica, per imparare un mestiere. Lui è diventato il leader del collettivo della scuola. Ma i suoi hanno bisogno di soldi e vorrebbero che smettesse di studiare e andasse a lavorare. Ma lui non ha voluto lasciare la scuola: <non voglio diventare un altro ignorante nelle mani del padrone>. E si è offerto di lavorare di giorno e fare la scuola serale.  E così è stato.

Ennio Di Rocco

Racconta una sua amica dei tempi della scuola. <Io avevo 15 anni e lui mi parlava sempre del mondo migliore che avremmo costruito. Per il mio compleanno mi regalò Il Capitale di Marx>. Poi sono arrivati gli anni di piombo ed è finito nelle Br. Dapprima ha fatto l’autista in alcune azioni poi ha partecipato all’uccisione di Cinotti, la guardia di Rebibbia. Infine ha giustiziato, assieme a Petrella che è stato arrestato con lui, Roberto Peci. Ha raccontato di essere stato male per tre giorni dopo quell’esecuzione e che non avrebbe mai più fatto una cosa così. Però è rimasto lì, sempre tra i fedelissimi del suo capo Senzani.

Da qualche settimana, nel carcere di Trani, è cominciata a girare la voce che forse è lui quello che ha parlato. Per questo lo hanno sospeso. Poi però sono passati diversi giorni e non è successo niente. Forse la cosa finisce così, pensa Di Rocco. Ma con l’arrivo a Trani di Luca Nicolotti, arriva l’ordine di Senzani, anzi arriva la condanna a morte. Di Rocco ammette le sue responsabilità, ma si giustifica: non sono un traditore, ho avuto un cedimento sotto tortura e ne sono pentito.
Il 27 luglio, durante l’ora d’aria, una decina di brigatisti, quasi tutti napoletani, lo massacrano a colpi di punteruolo.

Dopo qualche giorno la rivendicazione: tanti compagni sono stati torturati, ma hanno resistito, Ennio no, questa è la prova che non era un vero rivoluzionario. E l’unico rapporto della rivoluzione coi traditori è l’annientamento.

L’uccisione del compagno Di Rocco è, ancora una volta, il disperato tentativo di bloccare la frana pentitista, che sta facendo a pezzi le organizzazioni combattenti. Una frana che sta per trasformarsi in valanga con la nuova legge varata a fine maggio che, accanto a consistenti sconti di pena per chi collabora, prevede riduzioni di pena anche a chi si dissocia, confessa e contribuisce a non far commettere altri reati. Una formula ambigua che comunque apre uno spiraglio a chi non è disposto a diventare un vero collaboratore. (Nell’87 verrà fatta una legge in favore della semplice dissociazione).

 Lo scontro tra Pg e Pcc

Nella rivendicazione dell’omicidio il Partito guerriglia attacca anche gli ex compagni delle Br-Pcc e la loro linea della “ritirata strategica”, che viene definita “un pericoloso puntello alla strategia pentitista“. Oltre che “ assurda e illusoria…. poichè i compagni arrestati e torturati hanno rilanciato l’offensiva contro lo Stato su un terreno di scontro più avanzato”. Uno dei tanti slogan consolatori e incomprensibili, se si cerca di trarne un senso rimanendo anche solo un po’ agganciati alla realtà. Il documento si conclude con un altro slogan: “Colpire i traditori è condizione indispensabile per far sì che le nostre lotte abbiano un respiro strategico, un contenuto di potere e costruiscano l’organizzazione di massa rivoluzionaria“. Quella che viene invocata e annunciata in ogni documento da almeno 7 anni e della quale non si vede traccia.

L’uccisione del compagno Di Rocco, che voleva costruire un mondo migliore e che è finito con l’ammazzare come un cane un altro compagno, per poi essere massacrato lui stesso dai suoi compagni, non produce alcun “respiro strategico”, e invece fallisce miseramente i suoi obiettivi. I pentiti e i dissociati diverranno sempre più numerosi e l’omicidio susciterà sconcerto e critiche all’interno delle stesse Br.

Qualche tempo dopo le Br-Pcc, accusate di essere un puntello del pentitismo, rispondono con un loro comunicato, nel quale definiscono gli omicidi dei pentiti “fatti sciagurati“, parlano di “clima mafioso, di intimidazioni e di minacce, di processi sommari e faide interne“.  E ancora: “definire il cedimento di un torturato mancanza di coscienza di classe e la tortura come un alibi, è un errore madornale>. In risposta all’accusa di aver scelto la resa, scrivono che i brigatisti del PG: “accecati da un infantile estremismo trionfalista… cercano un nemico interno come panacea per il tracollo di una linea politica“.

Stefano Petrella, che assieme a Di Rocco uccise Peci e assieme a lui fu arrestato e torturato dirà, ma solo 12 anni dopo: <Ennio è stato ucciso dal fanatismo, dalla miseria umana e dalla presunzione personale di qualche dirigente e dall’ignoranza e la vigliaccheria di molti compagni… si è trattato di uno dei gesti più abietti e scellerati della nostra storia>.

Quel che resta di PL condanna

Prima linea, che pur ha ucciso un suo militante, perché ha parlato, prende le distanze dallo scannamento carcerario. Ad essere precisi sono due suoi ex capi, Sergio Segio e Diego Forastieri, a scrivere un documento di condanna del <clima di caccia alle streghe e di deriva cannibalesca>. I due aprono anche, per la prima volta nel panorama della lotta armata, alla dissociazione e a una trattiva con lo Stato.  <Vanno operate – scrivono i due – distinzioni all’interno della cosiddetta area della dissociazione e della resa… non è sbagliato pensare ad una mediazione con le istituzioni per trovare la soluzione a limiti e nodi politici, compresa la libertà di tutti i prigionieri politici>. E’ il riconoscimento che la crisi, i pentimenti e le dissociazioni non sono frutto di individui abietti e traditori, ma del fallimento politico del terrorismo.

A Torino rinascono le Br
In una situazione di ormai evidente disfatta di ogni velleità combattente, quando persino i veterani ancora in libertà hanno dichiarato la ritirata strategica ed altri parlano di dissociazione e resa, c’è ancora qualcuno che decide di compiere il salto verso la lotta armata, che si arruola per combattere una guerra finita.

Nell’ottobre dell’81 la Walter Alasia aveva mandato a Torino alcuni militanti per cercare di ricostituire una colonna nella città della Fiat. Alfieri era stato subito arrestato, ma gli altri, Marocco, Ghiringhelli e Pagani Cesa, hanno continuato a lavorare e sono riusciti nell’impresa, seppur si tratti di una minicolonna.  A dare una mano è stata Barbara Graglia, che ha messo in contatto con i tre un gruppetto a lei legato. La Graglia è l’ex allieva delle suore del Sacro Cuore che, già nel 76 faceva parte del primo nucleo di Prima Linea a Torino. Fu anche arrestata dopo un’azione.  poi era un po’ uscita di scena.

Teresa Scinica

La nuova colonna è formata da una ventina di persone, tutti con scarsa esperienza politica e alieni a qualunque tentativo di analisi ed elaborazione politica, ma attratti da un mito morente. Tutto ciò si esprimerà attraverso azioni assurde e sanguinarie, salvo poi in larga parte “pentirsi” appena presi.

Ne fanno parte una giovanissima Teresa Scinica, figlia di immigrati calabresi e operaia Fiat iscritta alla Cgil, che, innamoratasi dell’anziano, ha 41 anni, Marcello Ghiringhelli, l’ex rapinatore da poco convertitosi alla rivoluzione armata, lascia anche il marito.  Con lei due ex cassintegrati Fiat, di 22 e 23 anni. E poi Clotilde Zucca, 27enne di buona famiglia e Gloria Santone, impiegata; uno studente di medicina e un altro studente, libanese. Umberto Passigatti, uno che aveva già cercato contatti con la vecchia colonna, ma respinto perché considerato poco affidabile, parlava troppo. Infine Flavia Nicolotti, la giovanissima sorella di Luca, operaio Fiat e storico militante brigatista arrestato a Napoli.

L’elemento di maggior spicco è Antonio Marocco, ex ladruncolo politicizzatosi, plurievaso, che iniziò con quelli di Rosso nel 77, passato da un’organizzazione all’altra, fino ad approdare alle Br. Ma di nuovo, assieme a tutto il gruppo, pronto ad un altro cambio. A causa infatti dei dissensi sul progettato (dalla Betti) assalto a San Vittore, lasciano la Alasia ed aderiscono al Partito Guerriglia. Le Br, seppur nella versione “guerrigliera”, nell’estate dell’82 ha di nuovo una colonna a Torino, ma avrà vita breve.

g.g.

Prossimo capitolo: 52) Strage di Salerno. La follia omicida degli ultimi Br