Capitolo precedente: 51) L’omicidio Ammaturo. Giustiziato il compagno Ennio

Evasioni

Il progetto della Walter Alasia di assaltare San Vittore, per liberare Aurora Betti e qualche altro, è stato abbandonato, ma quello di far evadere i compagni resta l’obiettivo primario, per tutti. Dietro le sbarre, con accuse di terrorismo, sono ormai più di 1.500.

A progettar evasioni continua a dedicarsi il gruppetto di Segio. Si sono convinti che il supercarcere di Fossombrone è un obiettivo fattibile, anche se l’impresa non è semplice e richiede molti uomini. Loro sono solo in quattro e di certo non bastano. Così lanciano la proposta sia al Partito guerriglia sia alla Alasia, che, stranamente, accettano. E’ la prima volta che le varie organizzazioni si uniscono per un’azione comune.

In agosto vengono affittate alcune case a Pesaro, che fanno da base per gli elementi dei tre gruppi che studiano il piano. Pugliese, Bonato e la Zaccheo per l’Alasia; Bolognesi e la Ligas per la colonna napoletana; Segio e Forastieri. Le osservazioni vengono fatte dalla cima di una collina di fronte al carcere con un binocolo.

Il carcere di Fossombrone

Il piano viene messo a punto ed è un vero e proprio piano di guerra campale.
Durante l’ora d’aria, entreranno in azione sei nuclei armati, per un totale di almeno 25 persone.
In due da sopra il tetto del palazzetto dello sport, di fronte al carcere, spareranno alle guardie nelle garitte sul muro di cinta. Altri tre invece apriranno il fuoco contro l’auto dei carabinieri che staziona di fronte all’ingresso. Neutralizzati guardie e carabinieri, in due porteranno un’auto piena di esplosivo accanto al muro di cinta e la faranno esplodere, come già fatto a Rovigo.

Dopo di che i detenuti faranno saltare un’inferriata con l’esplosivo che, mesi prima, Segio era riuscito a far entrare nel carcere. Poi raggiungeranno l’apertura nel muro di cinta. Ad attenderli tre furgoni, pare dotati di una qualche blindatura artigianale, che si allontaneranno, con tre auto a fare da staffetta. Contemporaneamente altri tre attaccheranno la campagnola dei carabinieri che fa il giro delle mura.

Il problema è che a circa un km e mezzo ci sono ben due caserme dei carabinieri, dai due lati opposti del carcere. E dunque, iniziata la fuga, in due, appostati vicino ad una delle caserme, dovranno aprire il fuoco contro l’ingresso, per impedire ai militari di uscire. Altri due dovranno controllare l’uscita secondaria ed anche un bar nei pressi frequentato dai carabinieri. Mentre un quinto bloccherà il passo carraio con un furgone a cui darà fuoco. Un altro nucleo di tre persone dovrà invece attaccare la caserma nel paese di Fossombrone.

Una delle ipotesi per la fase finale della fuga è di caricare i fuggiaschi su una barca, rubata da Ghiringhelli, con la quale allontanarsi dal porto di Pesaro. Non è un’impresa da poco, come si vede, ma loro sono convinti di farcela.

L’esecuzione del piano è programmata per la fine di settembre. Nel frattempo il Partito guerriglia lavora anche ad un’evasione di massa dal supercarcere di Palmi. In realtà anche questa doveva essere attuata da tutte e tre le organizzazioni, ma alla fine gli altri si sono concentrati su Fossombrone.
A preparare il piano sono Marocco e la Sarnelli, che hanno affittato un appartamento ad Ascea e, per studiare la costa di Palmi, uno yacht di 12 metri, che servirà anche per la fuga. Il proprietario nonché skipper è un malavitoso locale.

Militari di leva

Per compiere queste due imprese occorrono però armi pesanti, soprattutto fucili o mitragliatrici. Per questo si decide di tornare a rapinare una caserma, visto che l’altra volta, a S. Maria Capua Vetere, è stato così facile.

Questa volta l’obiettivo è il Centro radiotrasmissioni dell’Aeronautica a Castel di Decima, vicino a Roma. Ad occuparsene sono i napoletani, capeggiati da Bolognesi e la Ligas. Ci sono anche tre o quattro ragazzi romani, che hanno messo su una mini banda armata. Sono dieci in tutto.

Dopo la figuraccia della caserma Pica, l’ordine è stato di rafforzare la vigilanza in tutte le caserme. Infatti a far la guardia al cancello sono in due, anziché uno solo. Ma non è un problema, la recinzione arruginita che circonda la zona militare è stata tagliata. Da lì, alle tre di notte del 19 agosto 1982, i brigatisti entrano e arrivano alle spalle dei due militari, che vengono disarmati e poi legati e imbavagliati con nastro adesivo assieme ad altri nove che stavano dormendo.

Vengono rubati 11 mitra Mab e quattro mitragliatrici di aereo, ma il grosso delle armi sta in un deposito e il sottoufficiale si rifiuta di dare le chiavi. I brigatisti tentano di forzare la porta, ma scatta l’allarme e così sono costretti a scappare, lasciando le armi raccolte. Ma dopo una mezzora, visto che nessuno arriva, tornano e caricano il bottino in un’auto e se ne vanno. Di nuovo però buona parte delle armi è inutilizzabile, perché manca l’otturatore.
E allora? Allora si progetta un’altra rapina, ma non a una caserma.

La strage di Salerno

L’obiettivo è un piccolo convoglio di militari di leva che, tutti i giorni, a Salerno, si sposta da una caserma ad un’altra. Una camionetta e un pulmino con nove soldati. Il commando brigatista entra in azione nel primo pomeriggio di un afoso 26 agosto. Questa volta sono venuti a Salerno i torinesi: Marocco, Ghiringhelli, Pagani Cesa, la Scinica, più i sardi Fadda e Madau e due ragazze napoletane. Assunta Griso, 20 anni, studentessa e moglie di Giovanni Planzio. I due si erano tirati indietro quando si era trattato di uccidere l’assessore Delcogliano, ma ora Planzio è in galera e la Griso, che pur non ha mai sparato, è pronta. L’altra è Maria Russo, anche lei 20 anni e anche lei non ha mai usato un’arma. E, ad essere precisi, neppure la Scinica ha mai premuto un grilletto.

Marcello Ghiringhelli

Sul lungomare di Salerno, con due auto, bloccano i due mezzi militari. Marocco e Madau si occupano della camionetta, mentre Pagani Cesa, Griso e Scinica si fanno consegnare le armi da quelli sul pulmino. Chissà cosa viene in mente al caporale Palumbo, 21 anni. Accucciato dietro la camionetta arma il suo fucile, Marocco e Madau se ne accorgono e gli sparano. Morirà un mese dopo.

Gli spari attirano una volante della polizia, che è poco distante. L’auto arriva in pochi secondi sul luogo dell’agguato. I poliziotti fanno per scendere, ma Ghiringhelli con la pistola e la Russo col mitra tempestano di colpi l’auto, un agente Antonio Bandiera, muore sul colpo. Inizia una breve ma furiosa sparatoria. Il capo pattuglia Mario De Marco cade a terra ferito. Qualcuno grida: <E’ ancora vivo, spara, spara>. Secondo un testimone, è la Russo a sparargli in testa. La ragazza dirà poi: <Non so se ero io a usare il mitra o il mitra a usare me>. Di Marco morirà dopo qualche giorno.

La sparatoria è tale che restano feriti anche due militari, il terzo poliziotto e due passanti. Alla fine i brigatisti se ne vanno con sei fucili.

Arresti e fallimenti

Ora le armi ci sono, ma le evasioni non ci saranno.
L’attacco al supercarcere di Palmi era stato fissato per il 15 settembre, ma una settimana prima, a Roma, viene arrestata Marina Sarnelli, 22 anni, una dei capi della colonna napoletana che stava organizzando l’evasione. L’ammanettano nei dintorni del carcere di Rebibbia, non è chiaro cosa ci facesse né come si sia arrivati a lei, improbabile il caso.

Intanto dai brigatisti incarcerati a Palmi arriva l’invito a lasciar stare. All’interno i controlli sono stati rafforzati e non hanno possibilità di muoversi. Per Fossombrone non va meglio. A fine luglio, in tasca a Stefano Ferrari, ucciso durante l’arresto in un bar di Milano, sono stati trovati degli appunti sul progetto di evasione e ai primi di settembre davanti al carcere è comparso anche un blindato.

Segio e i suoi dicono che sarebbe un suicidio e decidono di rinunciare. Per consolarsi, nel tornare a Milano, con l’esplosivo inutilizzato fanno saltare in aria il carcere di Pesaro in costruzione. I brigatisti vorrebbero provarci ugualmente, ma una raffica di arresti quasi azzera la colonna napoletana del Partito Guerriglia.

A fine settembre, a bordo di un autobus, vengono arrestati Emilio Manna e Stefano Scarabello, due che hanno partecipato a tutte le più importanti azioni militari a Napoli. Il due ottobre il colpo più grosso. Il capo, Vittorio Bolognesi, ha appuntamento proprio con gli arrestati (dei quali ignora l’arresto) in una piazza. Com’è la regola, prima ha fatto ampi e tortuosi giri nei vicoli di Napoli, per spedinarsi, operazione del tutto inutile, perchè la polizia lo aspetta nella piazza. Qualcuno ha parlato dell’appuntamento.
L’incontro era per mettere a punto l’omicidio di una guardia giurata. Le Br-Pg hanno deciso che le gambizzazioni sono roba superata, ora si uccide soltanto.

Gira voce che la strage di Salerno non sia piaciuta alla camorra. Troppo casino. E che abbia deciso di passare qualche informazione alla polizia. Forse è vero o forse no, comunque della colonna napoletano resta poco o niente. La Ligas, una delle poche sfuggite alla cattura, se ne va a Torino da Chiocchi, l’altro capo del Partito Guerriglia. L’unico posto dove è ancora in piedi un minimo di organizzazione. In realtà anche lì non ci sono molte basi a disposizione, tanto che a volte le tocca passare la notte viaggiando sui treni.
Ma non sa che l’aspetta qualcosa di peggio di paio di manette.

 Natalia la “traditrice”.

Da tempo tra le fila brigatiste serpeggia una paura, anzi una vera e propria ossessione: chi sarà il prossimo a tradire e a pentirsi? Perché ormai è chiaro, molti hanno già deciso: se mi prendono, collaboro subito. Le paure generano sospetti e le ossessioni generano paranoie. Basta poco, un dubbio espresso, una critica, un comportamento strano, a volte solo una coincidenza per finire nel mirino: quello è un traditore.

E a finire nel tritacarne del sospetto è proprio lei, una delle militanti più decise e senza scrupoli, la Ligas, la 24enne sarda con un passato in Comunione e Liberazione, che per la “causa” si è beccata anche un proiettile in una gamba.

Il sospetto si è tramutato quasi subito in certezza, la paranoia è un veleno rapido. A non avere dubbi è Antonio Chiocchi, l’ultimo capo rimasto. E’ bastato che una base sia stata scoperta il giorno dopo che la Ligas vi aveva soggiornato. E poi la cattura della Sarnelli, dopo aver incontrato la Ligas. E il fatto che da qualche tempo abbia evitato di partecipare ad azioni omicidiarie. E poi contro di lei gioca anche una certa antipatia, perché, dicono, vuol fare la capetta.

Natalia Ligas

Chiocchi ne parla con gli altri e li convince: non è neppure una potenziale pentita, è proprio un’infiltrata. Dunque va colpita. L’idea è di replicare il modello Peci. Va sequestrata, e sarà un sequestro lungo,almeno un paio di mesi. Fatta confessare e poi uccisa. Anche la sentenza è già scritta.

Ad occuparsi del sequestro saranno Chiocchi, Marocco e Madau. Ma il sardo ha dei dubbi, non è convinto che una come Natalia possa essere un’infiltrata. E così si sfila. Al suo posto subentra Pagani Cesa, ma così si è dovuto rinviare il sequestro di un giorno. Sufficiente alla Ligas per salvarsi. Il 14 ottobre, invece dei compagni, viene presa dalla polizia. Un arresto provvidenziale che rafforza la convinzione che sia un’infiltrata. In realtà la polizia era sulle sue tracce da giorni, da quando una settimana prima era stato preso Lorenzo Calzone, venuto con lei a Torino, dopo gli arresti di Napoli.

Delirio all’ultimo stadio

E’ un imbuto scivoloso e senza appigli quello del delirio ideologico. E l’ultimo brandello delle Brigate rosse ci si butta dentro in preda ad un’allucinazione così assurda e ignobile da sfiorare il ridicolo, se non fosse una tragedia.

La cosiddetta colonna torinese del Partito Guerriglia non arriva a venti militanti, ma quelli attivi sono sette, gli altri fanno da contorno. E il capo vero è uno solo: Antonio Chiocchi. 35enne avellinese, famiglia borghese, laureato, un intellettuale. E’ lui ad avere l’idea.

Da qualche settimana era stata individuata una banca, filiale del Banco di Napoli, per farci una rapina. Una normale rapina di autofinanziamento, che non sarebbe stata rivendicata, come era per le rapine. L’idea è di trasformarla in un evento eclatante, per dare grande eco alle loro accuse di tradimento alla Ligas. Perché quella resta un’ossessione: ci è sfuggita, ma tutti debbono sapere che i traditori e quelli che si arrendono non fermeranno il movimento rivoluzionario.
Dunque, durante la rapina, verranno giustiziate le due guardie che stanno nella banca. E’ l’ultimo, disperato, folle tentativo di fermare il diluvio di pentiti e dissociati che sta facendo crollare tutto.

L’idea viene sottoposta a tutti gli organismi decisionali. Le regole vanno rispettate. L’esecutivo, la direzione di colonna, il fronte di massa, il fronte della Contro e quello delle carceri. Una ridicola messinscena del burocratismo brigatista, perché nei vari ruoli sono sempre loro sei. Chiocchi è membro dell’esecutivo, l’unico membro. Ma è anche nella direzione di colonna e nel fronte di massa. E così via gli altri.

I corpi delle due guardie giurate

Il mattino del 21 ottobre, Chiocchi e Marocco restano fuori della banca con le solite armi lunghe. Due coppie, lo sono anche sentimentalmente, Teresa Scinica, operaia Fiat, e Marcello Ghiringhelli, l’ex legionario e rapinatore che a 40 anni ha scoperto la rivoluzione; Clotilde Zucca, famiglia della buona borghesia, e Pagani Cesa, entrano. Per poter studiare la situazione chiedono di parlare col direttore, vogliono aprire un conto. Dentro ci sono una quindicina di persone tra impiegati e clienti. Dopo qualche minuto ringraziano ed escono. Le due guardie sono subito fuori dell’ingresso.

Scambiano qualche parola con Chiocchi poi fanno dietrofront. Pistole spianate costringono le due guardie ad entrare e poi, sempre sotto la minaccia delle armi, urlano a tutti  di stendersi a terra. Comprese i due agenti della Mondialpol che, già disarmati, eseguono senza resistenza. Ghiringhelli, che ha un mitra tiene sotto tiro i clienti, Cesa le due guardie. La Zucca ha il compito di prelevare i soldi, ci mette poco, circa sette milioni. La Scinica butta dei volantini, dovrebbe appendere un drappo rosso e soprattutto tocca a lei uccidere i due in divisa.
Gli altri fanno per uscire, ma lei è lì ferma, in una mano il drappo e in una la pistola. E’ bloccata, non ce la fa. Interviene allora Pagani Cesa che, senza esitazione, spara due colpi alla nuca delle due guardie ancora sdraiate a terra. Ovviamente due figli di immigrati di 26 e 27 anni. Sono passate dalla vita alla morte in un attimo, senza accorgersi di nulla. Perché mai avrebbero dovuto pensare che qualcuno gli avrebbe sparato, visto che se ne stavano immobili, faccia terra?

La Scinica ha fallito, ma meglio non suscitare sospetti, non si sa mai. Si riprende, solleva la testa di uno dei due e rassicura i compagni: <Sono morti>. Poi getta su di loro il drappo. Mentre Cesa, uscendo, grida: <Questo è quello che capita ai servi del potere>.

Tutti se ne vanno. Chiocchi intanto è dovuto entrare in una panetteria per intimare a una donna di riappoggiare il telefono, con cui stava chiamando la polizia. La pistola di Pagani Cesa non era silenziata e in molti hanno sentito i due colpi.

Quale “potere rosso”?

Sul drappo una scritta più delirante del solito: “La campagna Peci continua. Individuare ed annientare gli agenti della controrivoluzione infiltrata nel movimento rivoluzionario. Liquidare il progetto della dissociazione, resa e infiltrazione. Consolidare ed espandere il sistema del potere rosso. Costruire 10-100-1000 O.M.R.”  Gli OMR sarebbero gli operai metropolitani rivoluzionari, l’ennesima sigla, che copre il nulla, come il fantomatico “potere rosso”, partorita dall’allucinata fantasia brigatista.

Il volantino è in realtà un documento di ben 13 pagine, in buona parte dedicato alla Ligas, definita: “una belva, un’infame, un’agente della controrivoluzione”, responsabile dell’arresto di decine di militanti. Contiene anche l’autocritica per non averla scoperta in tempo. Dopo qualche settimana la Ligas sarà pienamente riabilitata dai capi storici in carcere: non ha mai tradito. Ed anzi a differenza di tanti altri lei rimarrà un’irriducibile.
Chiocchi invece, dopo neanche un anno, si dissocia dalla lotta armata.

Il giorno dopo arriva un nuovo comunicato. L’esecuzione ha suscitato reazioni negative anche nell’ambiente estremista. E così Chiocchi spiega che le guardie sono oggettivamente degli agenti della controrivoluzione, perché nemiche del movimento extralegale, cioè di rapinatori e criminali vari.

Sei degli arrestati, da sinistra e dall’alto: Pagani Cesa, Ghiringhelli, Zucca, Chiocchi, Scinica, Nicolotti

Non del tutto convincente visto che una ventina di giorni dopo un volantino, spedito a Repubblica, condanna <l’efferata strage compiuta da sedicenti appartenenti alle OCC (Organizzazioni Comuniste Combattenti)” e, indicando in Chiocchi e compagni i responsabili del fatto di sangue, conclude che costoro dovevano essere indagati internamente all’organizzazione e “se riconosciuti colpevoli verranno condannati a morte per tradimento e deviazionismo>.

Nella notte del 12 novembre Chiocchi, Pagani Cesa, Marocco, più Fadda, Madau, Flavia Nicolotti e Barbara Graglia, vengono catturati in due appartamenti a Frabosa Soprana e a Torino. Stavano preparando l’uccisione di una dirigente della Fiat. Perchè ora non si gambizza più, si uccide soltanto. Qualcuno ha fornito gli indirizzi.
Qualche giorno dopo vengono arrestati anche Ghiringhelli, la Zucca e la Scinica.

Arresti

Le Brigate rosse, come organizzazione, di fatto non esistono più. Anche se ci sono alcune decine di brigatisti ancora liberi, un discreto numero riparati in Francia.

Negli ultimi due mesi dell’82 continua la raffica di arresti.
Il 15 ottobre era stato arrestato a Roma Giovanni Alimonti, quello che faceva il centralinista a Montecitorio ed era stato ferito durante l’agguato a vicecapo della Digos, Nicola Simone. Il 14 novembre viene preso un altro brigatista romano, Sandro Padula, uno entrato nella colonna romana già alla fine del 77. La polizia ha scoperto un appartamento nel paesino di Castel Madama e vi ha arrestato un paio di fiancheggiatori, ma sa che deve arrivare uno più importante, e lo aspetta. Quando Padula entra, viene bloccato, tramortito, avvolto in un tappeto e portato via su un furgone civile da finti facchini. Per alcuni giorni viene torturato dalla solita squadretta del Viminale.

Due giorni dopo a Milano finiscono in manette gli ultimi due capi dell’Alasia, Ettorina Zaccheo l’infermiera e Daniele Bonato, uno che era evaso anni prima assieme a Marocco e militato in tre o quattro organizzazioni armate.

Il 13 novembre un altro militante, Maurizio Biscaro, muore cadendo da un cornicione al settimo piano di un palazzo di Cinisello Balsamo, cercando di sfuggire ai carabinieri, che avevano fatto irruzione nell’appartamento.

Qualche settimana dopo altri sei finiscono nella rete dei carabinieri. Tra loro Ivan Formenti e Bernardino Pasinelli, due operai e Daniela Rossetti, nella cui casa era stato tenuto prigioniero Renzo Sandrucci. Anche quel che restava della colonna Walter Alasia, non c’è più.

Il 7 dicembre a Roma i carabinieri bloccano un uomo e una donna appena scesi da un autobus. Sono marito a moglie e li stanno pedinando da qualche tempo, perché lui è Luigi Novelli, l’ex fabbro e l’ultimo capo (assieme alla Balzerani) delle Br-Pcc, e lei è Marina Petrella. Lui estrae la pistola, spara un paio di colpi, sparano anche i carabinieri, tentano una fuga, ma è inutile, sono circondati. Nessuno resta colpito e i due si arrendono.

L’ultimo assurdo omicidio

La follia degli ultimi epigoni o forse di coloro che danno inizio alla nuova e lunga stagione degli imitatori delle Brigate rosse non ha ancora toccato il fondo. Ci riuscirà, sia per le modalità sia per i protagonisti  della feroce impresa, con Germana Stefanini.

Germana Stefanini

E’ una donna di 56 anni, di umili origini, rimasta sola dopo la morte del padre, ha trovato un lavoro come vigilatrice nel carcere di Rebibbia, è addetta al controllo dei pacchi. Il 28 gennaio dell’83 viene sequestrata da tre giovani, nell’androne di casa, portata nel suo appartamento in un palazzone popolare del Prenestino. Qui viene sottoposta ad un processo proletario, che si conclude con la condanna a morte. La donna viene caricata in un’auto e portata in un altro appartamento, un monolocale di proprietà di un fiancheggiatore, un giovane figlio di un generale e di una preside di un noto liceo romano.

Ma chi sono i tre sequestratori? Sono Carlo Garavaglia, 27 anni, Francesco Donati, 23 anni, un pregiudicato per rapina, entrato da un anno nel gruppetto, passando dalla delinquenza comune a quella politica; e Barbara Fabrizi, anche lei 23enne. I tre appartenevano fino a un anno prima al Movimento comunista rivoluzionario (Mcr).

Ora si firmano Nuclei per il potere proletario armato, ma alcuni mesi prima hanno allacciato stretti rapporti con le Br-Partito guerriglia. Sono infatti i tre che in agosto hanno partecipato all’assalto alla caserma di Castel di Decima.

Uno strano percorso, visto che il Mcr era stato creato nel 79, dopo l’uccisione di Moro, da Morucci e Faranda come alternativa alla linea militarista e omicidiaria delle Br. Il gruppo doveva recuperare la dimensione sociale e politica della lotta armata, smetterla di ammazzare e cominciare ad occuparsi dei problemi concreti del proletariato.  Non era una gran novità, già altri ci avevano provato. L’Mcr ebbe vita stentata, Morucci e Faranda furono arrestati quasi subito, compì alcune azioni sul tema della casa poi uno dei suoi leader, Fausto Genoino, e un altro furono uccisi durante una rapina nel novembre dell’80. E il gruppo aveva cessato di esistere.

Ora i tre han fatto un bel salto indietro, rinnegando le ragioni per le quali avevano militato nel Mcr.
Ma la cosa non è poi così strana, già da qualche tempo la lotta armata non è mossa da alcuna logica politica, anche estrema o allucinata. Le azioni del terzetto hanno piuttosto lo stigma della disperazione esistenziale.  Frutto dell’incapacità di liberarsi di una mitologia tossica, quelle delle armi.

Barbara Fabrizi

I tre avevano già portato a termine un’azione identica. Due mesi prima erano entrati nello studio di una dottoressa, Giuseppina Galfo, che lavorava a Rebibbia. Dopo un processo sommario le avevano sparato in testa. Ma la donna incredibilmente non era morta e, dopo un delicato intervento, si era ripresa.

Questa volta non vogliono fallire. Germana Stefanini si è difesa, ma ha solo la quinta elementare, non sa parlare bene e quei tre usano paroloni. Allora ha pianto, chiesto pietà. Ma è una parola che non piace agli aguzzini.

Uno di loro le spara alla nuca poi si accertano che sia morta per davvero.  La sera stessa fanno ritrovare il suo corpo in un auto parcheggiata in periferia. Poi il solito comunicato che  parla di “Accerchiare, smantellare e distruggere il carcere e annientare il personale politico-militare che lo attiva”.
Un altro documento arriva da Rebibbia, è una condanna dell’aberrante omicidio, firmato da 180 detenute. E’ la prima volta che accade, come è la prima volta che le Br uccidono una donna.

Un paio di mesi dopo i tre vanno a rapinare un ufficio postale. Arriva la polizia: Garavaglia è bloccato, la Fabrizi riesce a fuggire. Donati prende in ostaggio il direttore e si arrende dopo una lunga trattativa. Barbara Fabrizi viene arrestata qualche giorno dopo.

Bilancio dell’82 e di sei anni

Il terrorismo è sconfitto, ma i morti sono ancora tanti: 19. Quattro poliziotti e tre carabinieri. Due guardie giurate una guardia carceraria. Un soldato di leva, un passante, un assessore e un autista. E poi quattro brigatisti, due uccisi da polizia e carabinieri, uno dai compagni brigatisti e uno precipitato durante la fuga. Infine un piellino suicidatosi.
I feriti sono relativi pochi, solo 16. Due poliziotti e tre carabinieri. Due militari di leva, due passanti, un medico e sei brigatisti.
In sette anni, dal 75 all’82 i morti sono stati 162

E’ finita?

Più o meno negli stessi giorni alcuni brigatisti detenuti a Palmi firmano un documento nel quale si dichiara concluso il processo rivoluzionario cominciato nel 1970, ma non superata la necessità del ricorso alla lotta armata. Non si rinnega nulla, non ci si arrende, non ci si dissocia, ma si riconosce che una fase si è chiusa.

In estate Prima Linea pubblica un lungo documento intitolato “Sarà che avete nella testa un maledetto muro” , nel quale viene sancita la fine della lotta armata.
Nel giugno dell’84 Ernesto Balducchi consegnerà al cardinal Martini le armi dei CoccoriMa non è finita.

Spunteranno decine di imitatori. E si ammazzerà ancora molto e a lungo.

g.g.