«Allora vediamo… Dainese era riuscito ad avere il preterintenzionale. E io già ti dissi che aveva vinto, col preterintenzionale aveva vinto. Dunque se n’è fatti cinque e ora sarà ai domiciliari. Gliene avevano dati quattordici e qualcosa, mi pare, no? In appello gliene avevano tolti tre. Attenuanti generiche eccetera. Allora cominciamo», alzò un dito, «articolo 48 dell’ordinamento penitenziario: dopo metà pena si è ammessi alla semilibertà, quindi a sette anni già ne avrebbe avuto il diritto». «Sì, ma…». «Aspetta, Pasqua’. Ogni anno di prigione vale solo nove mesi, articolo 54. Quindi faccio due conti… In sette anni sarebbero… sette per nove sessantatré diviso dodici… cinque virgola venticinque, sette anni in prigione in realtà sono cinque virgola qualcosa se fai il bravo, cioè se non ammazzi qualcuno basta che ti fai i fatti tuoi e sei già in buona condotta. Poi», e proseguì a scrivere sul foglietto, «l’articolo 30 e rotti dà quarantacinque giorni di permesso ogni anno. Insomma», consegnò il foglietto a Pasquale, «poco più di cinque anni».
A parlare è l’avvocato di Pasquale, che gli spiega come sia possibile che Paolo Dainese, dopo avergli ucciso il figlio Corrado, poco più che ventenne, durante una rapina nell’avviata tabaccheria di famiglia (il figlio lo sostituiva momentaneamente) sia già fuori dal carcere dopo sei anni. Da quel giorno Pasquale e la moglie Nora non hanno più avuto una vera vita.
Soprattutto Nora: < Sarebbe bello anche solo per un minuto, che questo dolore se ne andasse. Una pausa, non chiedo di più. Un respiro di aria pura per ricordare anche per pochi secondi com’era vivere prima, quando Corrado era accanto a lei> . Questo dolore ha distrutto anche il loro matrimonio, ridotto a un pallido sentimento di affetto e ad un’abitudine a vivere insieme consolidata da decenni.
Entrambi non hanno la forza di andare avanti, di provare in qualche modo non a dimenticare, la morte di un figlio non si dimentica, ma a trovare qualche ragione per vivere. La condanna del colpevole ha concesso loro qualche anno di relativa quiete. La sua liberazione li riporta al punto di partenza con una brutalità inaudita. Che li separerà definitivamente: entrambi sono decisi a non accettare passivamente la situazione, ma lo faranno da soli, con esiti molto diversi.
La storia, tratta da un fatto vero, si legge tutta di un fiato, perché Manzini, da buon giallista (credo che tutti lo conoscano come il creatore di Rocco Schiavone) è riuscito a mantenere anche in questo romanzo la tensione narrativa dei romanzi precedenti. Ma molto diversi sono la profondità morale e il coinvolgimento emotivo. Il lettore si trova messo di fronte a dubbi etici che non possono essere sciolti e, allo stesso tempo, non può non provare una pietà profonda per tutti i protagonisti. Per fortuna, proprio alla fine di un racconto tanto angoscioso quanto perfettamente credibile, uno spiraglio di luce si intravvede.
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