Non c’è bisogno di aver studiato letteratura latina e Orazio per conoscere e citare l’espressione latina “Carpe diem”.
E più o meno tutti sanno che significa cogli il tempo e non tralasciare i piaceri che può riservarti. Ma molti, forse, non hanno mai letto letto l’ode da cui proviene e non ricordano con esattezza chi è Quinto Orazio Flacco.
Il poeta appartiene a quella cerchia di intellettuali che il ricchissimo principe Mecenate, di origine etrusca, grande amico di Augusto e, potremmo dire, quasi suo ministro della cultura, aveva raccolto intorno al nuovo padrone di Roma anche per farlo meglio accettare dalla classe dirigente.
Come ci è arrivato? Orazio, nato nel 65 a.C. a Venosa, (attualmente in Basilicata) era di umili origini, figlio di un liberto, cioè un ex schiavo che aveva fatto di tutto per fargli avere la migliore educazione possibile. Si forma a Roma, ad Atene, a Napoli ed Ercolano, alla scuola dell’epicureo Sirone. Durante la guerra civile si schiera o con i Cesaricidi, decisamente la parte sbagliata, sgominati da Ottaviano, che assumerà poi il titolo di Augusto.
Decisamente non una partenza ottimale…Amnistiato rientra a Roma e si impiega come segretario di un questore, ma non rinuncia a coltivare l’amore per la poesia. Per sua fortuna ha degli amici che lo apprezzano, tra cui Virgilio, conosciuto alla scuola di Sirone. E’ lui che lo presenta a Mecenate. Colloquio breve, racconta lo stesso Orazio, ma dopo nove mesi viene richiamato ed ammesso nel più esclusivo circolo culturale di Roma, che allora voleva dire di tutto il mondo occidentale.
Evidentemente Mecenate sa riconoscere il valore degli uomini di cui si circonda.
La sua poesia non tratta grandi temi epici, ma, ispirata dai lirici greci arcaici di cui cerca di imitare la perfezione formale, argomenti più quotidiani: esperienze di vita, amore, temi filosofici e letterari, a volte anche politici (ovviamente per lodare l’operato dell’imperatore). Ma la sua riflessione più intensa e che ci tocca di più è quella sullo scorrere del tempo e sul significato della vita umana.
Orazio è, a suo modo, sostanzialmente un epicureo: non pensa, come gli stoici che la vita umana abbia un significato trascendente, che ci sia un aldilà. Siamo aggregati di atomi e al momento della morte ci disaggregheremo. La morte non è affar nostro. Come aveva affermato qualche anno prima un altro grande poeta latino (Lucrezio), di fatto riscrivendo in versi i principi della filosofia epicurea: nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum, quandoquidem natura animi mortalis habetur (niente è la morte per noi , non ci riguarda per nulla, poiché il nostro animo è mortale). Quindi noi non avremo esperienza della morte e dunque non possiamo temerla.
Ma questa teoria, logicamente inoppugnabile per un materialista, non riesce a rasserenare Orazio. Dietro l’apparente serenità continuamente ribadita, conseguita attraverso l’abbandono delle passioni, soprattutto quella amorosa, si avverte un’ombra incombente, una consapevolezza della fugacità della vita che circonda di oscurità anche i momenti più tranquilli e luminosi. La ragione non riesce, allora come oggi, a fugare le inquietudini che si annidano nella mente di tutti noi, per questo Orazio è un nostro contemporaneo.
Il tema dello scorrere del tempo è presente in tante Odi. In queste liriche Orazio recupera la tradizione simposiaca dei poeti greci arcaici: durante il banchetto, un commensale si alzava e declamava poesie accompagnate dalla musica. Per questo nelle Odi c’è sempre un interlocutore a cui il poeta si rivolge, ovviamente in modo fittizio. E, sempre in omaggio alla tradizione dei simposi, nelle Odi di Orazio scorre tanto vino…
Queste sono, a mio avviso, le odi più belle sul tema del tempo :
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