Eheu fugaces, Postume, Postume,
labuntur anni, nec pietas moram
rugis et instanti senectae
adferet indomitaeque morti,
non, si trecenis, quotquot eunt dies,
amice, places inlacrimabilem
Plutona tauris, qui ter amplum
Geryonen Tityonque tristi
compescit unda, scilicet omnibus,
quicumque terrae munere vescimur,
enaviganda, sive reges
sive inopes erimus coloni.
Frustra cruento Marte carebimus,
fractisque rauci fluctibus Hadriae;
frustra per autumnos nocentem
corporibus metuemus Austrum.
Visendus ater flumine languido
Cocytus errans, et Danai genus
infame, damnatusque longi
Sisyphus Aeolides laboris.
Linquenda tellus, et domus, et placens
uxor, neque harum, quas colis, arborum
te, praeter invisas cupressos,
ulla brevem dominum sequetur.
Absumet heres Caecuba dignior
servata centum clavibus, et mero
tinget pavimentum superbis
pontificum potiore coenis.
Non sappiamo chi era Postumo, ma non per questo dobbiamo pensare sia un personaggio fittizio. All’amico si rivolge un Orazio che, rispetto al Carpe diem, ha abbandonato ogni reticenza ad esprimere la propria angoscia.
Postumo, come ognuno di noi, non può fare nulla contro la fugacità del tempo l’incalzare della vecchiaia che incombe (instanti) e della morte indomabile (indomitae). non potrebbe salvarlo neppure offrire smisurati sacrifici agli dei, che, come Plutone, dio degli Inferi, sono implacabili e inflessibili. A nulla serve la pietas, l’osservanza dei vincoli religiosi così cara alla cultura latina, tanto da definire l’eroe fondatore di Roma (Enea) pius per eccellenza. Orazio è un epicureo, non crede alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, ma vuole raffigurare l’aldilà forse per toglierci ogni illusione. E’ un luogo oscuro, intervallato da fiumi paludosi, lo Stige, il Cocito, dove incontreremo mostri o umani protagonisti di miti cruenti e oscuri: il gigante Tizio, che tentò di violentare Latona, madre di Apollo e Diana, perennemente straziato da due avvoltoi; le cinquanta Danaidi, che uccisero i loro sposi la prima notte di nozze e che dovranno versare per l’eternità acqua in botti senza fondo; Sisifo, che si era attirato l’ira di Zeus rivelando al padre di una delle sue tante amanti il nascondiglio della donna, condannato per l’eternità a rotolare eternamente un sasso dai piedi alla cima di un monte, per vederlo poi rotolare giù di nuovo. Ecco è questo il luogo che ci attende, a cui siamo inesorabilmente destinati e il suono lugubre dei gerundivi latini ( enaviganda, visendus, linquenda) ce lo ricorda.
Questo avremo in cambio della terra, della nostra bella casa, delle piante che abbiamo amorevolmente curato, degli amati familiari. A questo destino nessuno sfugge: neppure i re. La morte è democratica. Solo i cipressi, alberi per i romani come per noi simboli della sepoltura, ci seguiranno nella nostra ultima dimora. E allora è inutile preoccuparsi troppo: anche se non partecipiamo alle guerre, non viaggiamo per mare, stiamo ben attenti a proteggerci dai venti che favoriscono le malattie, la nostra sorte è segnata. E allora è davvero ridicolo non godere dei piaceri che possiamo concederci. Un esempio è il prezioso Cecubo, vino coltivato allora come oggi nell’Agro Pontino, degno dei banchetti dei pontefici, noti per il loro sfarzo, che Postumo conserva con tanta cura (centum clavibus) per centellinarlo in occasioni importanti, destinato ad essere non solo consumato senza ritegno, ma addirittura versato a terra da un erede che ha capito meglio di lui che non ha senso lasciare al futuro ciò che ci può far felici nel presente.
traduzione:
Ahimè, o Postumo, gli anni scorrono rapidi. E l’osservanza delle regole religiose non servirà a ritardare le rughe, la vecchiaia che incombe e la morte indomabile. Neppure se, ogni giorno che passa, tu cercassi di placare, o amico, con il sacrificio di trecento tori, l’implacabile Plutone, incapace di commuoversi, che imprigiona nella palude stigia (tristi unda), i mostruosi Gerione, dai tre corpi umani, e il gigante Tizio. Triste palude che tutti noi, che ci nutriamo dei doni della terra, dobbiamo oltrepassare, sia se saremo dei re o dei poveri contadini.
Del tutto invano staremo lontani dalla guerra sanguinosa (Marte cruento), dalle onde dell’Adriatico che si infrangono. Invano ogni autunno cercheremo di evitare i venti dannosi alla salute dei nostri corpi. Dovremo visitare l’oscuro Cocito, che scorre sonnolento e le Danaidi, stirpe infame, e Sisifo, figlio di Eolo, condannato alla lunga fatica.
Dovremo lasciare la terra, e la casa, e l’amata moglie, né alcuno di questi alberi che coltivi, eccetto gli odiosi cipressi, ti seguirà, tu che sei un padrone dalla breve vita. Un erede più degno di te consumerà fino in fondo il prelibato Cecubo, conservato con cento chiavi. E tingerà il pavimento spargendo a terra quel vino superbo, migliore di quello usato nelle cene dei pontefici.
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